Jennifer Capriati: bambina prodigio, anima fragile

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Jennifer Capriati agli esordi

Nel corso della sua carriera tennistica Jennifer Capriati ha vinto 14 titoli WTA di singolare, di cui tre tornei del Grande Slam, uno di doppio e un oro olimpico a Barcellona, guadagnando la prima posizione della classifica mondiale e premi per oltre 10 milioni di dollari. Messa così potrebbe sembrare la presentazione di una qualsiasi campionessa di questo sport. E invece la vicenda professionale e umana della Capriati è stata molto più tortuosa e complessa, al punto di scuotere il mondo del tennis, costringendolo a rivedere alcune regole.

La bambina prodigio

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Jennifer con papà Stefano

È poco più di una bambina Jennifer Capriati quando, nel 1989, ad appena 13 anni si aggiudica i prestigiosi tornei juniores come il Roland Garros, gli US Open e altri appuntamenti importanti. In campo esibisce grinta e talento, Jennifer, dimostrando di essere più forte dei suoi coetanei e quindi già pronta per palcoscenici più importanti. La Capriati fa così il suo esordio tra i professionisti il 5 marzo del 1990, a pochi giorni dal compimento dei suoi 14 anni, partecipando al Virginia Slims of Florida che si gioca a Boca Raton, nella contea di Palm Beach. La giovane atleta non si mostra per niente intimidita e regala una prestazione stupefacente, battendo tenniste esperte e talentuose come la francese Nathalie Tauziat e Helena Sukovà e spingendosi fino alla finale, dove viene fermata, non senza difficoltà, dalla campionessa argentina Gabriela Sabatini. Si consacra così la più giovane tennista della storia ad aver raggiunto un traguardo così prestigioso nel tennis professionistico. Da quel momento è un’ascesa inarrestabile quella della Capriati: la settimana successiva al torneo di Boca Raton, sbarca sulla terra verde di Hilton Head, dove viene fermata soltanto in finale da Martina Navratilova. Seguita e accudita costantemente da papà Stefano, originario di Brindisi, sempre nel 1990 arriva in semifinale al Roland Garros e vince il suo primo torneo tra i professionisti a Dorado, in Porto Rico, entrando tra le prime dieci giocatrici del mondo a soli 14 anni, un altro record straordinario. E continuerà a vincere tanto anche nel 1991 e nel 1992, aggiudicandosi addirittura la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Barcellona.

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La Capriati in campo

E il 1993 sembra cominciare nel migliore dei modi, con la vittoria dei New South Wales Open di Sydney. Sulla soglia dei 17 anni inizia però a spezzarsi qualcosa nella solidità di questa bambina prodigio. Improvvisamente si scopre fragile e smarrita. È come se la sua giovanissima età le chiedesse conto di questa sua maturazione troppo precoce. I rapporti con il padre si fanno gradualmente sempre più tesi. Nulla di strano, se si pensa che Jennifer è un’adolescente, anche se è già un’affermata tennista che ha guadagnato milioni di dollari. Probabilmente in lei cresce il desiderio di appropriarsi del suo tempo, della sua età: magari vorrebbe uscire con le amiche o addirittura avere un fidanzato con cui fare tardi la sera, concedendosi qualche trasgressione.

Dall’inverno del 1993 Jennifer comincia a diradare sempre di più le partecipazioni ai tornei del circuito, finché nel mese di dicembre viene arrestata a Tampa, in Florida, per aver rubato un anello in una gioielleria. Si parla di cleptomania. Lo dichiara in un’intervista all’Adnkronos anche il professor Sergio De Risio, ordinario di Clinica Psichiatrica all’Università Cattolica del Sacro Cuore, secondo il quale “il fatto che la Capriati sia tanto brava da essere campionessa di tennis vuol dire che, nonostante questo, c’è qualcosa in lei che non quadra, qualche elemento che continua a rivendicare e che esprime attraverso questo comportamento cleptomanico. La cleptomania esprime l’idea di riprendersi qualcosa che manca e nel rischio che l’azione comporta c’è la sfida”. Probabilmente Jennifer vuole riprendere in mano se stessa, la sua adolescenza, scrollandosi di dosso il peso delle responsabilità e delle aspettative. E lo fa trasgredendo le regole: nel maggio del 1994, infatti, viene nuovamente arrestata, questa volta per possesso di marijuana, mentre si trova a Coral Gables, in Florida. Il tennis non è più il suo primo pensiero, ma una trappola da cui fuggire.

Proprio la vicenda della Capriati, spinge la WTA nel 1994 a scrivere regole molto più rigide per l’accesso al professionismo delle bambine prodigio della racchetta: a chi non ha compiuto ancora 14 anni vieta di giocare tornei validi per il circuito ITF o WTA, mentre dai 14 ai 17 anni permette alle tenniste in erba di partecipare annualmente a un numero limitato di eventi, che aumentano progressivamente con l’avanzare dell’età: 8, 10, 12 e 16. Ma intanto è Jennifer a pagare lo scotto: sparisce per circa un anno e mezzo, non gioca più tornei, pare che si alleni poco e male.

Il ritorno

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Gli anni del ritorno

Poi nel 1996 la Capriati torna a giocare, oscillando sempre tra alti e bassi, vittorie e momenti di vuoto. Solo con l’arrivo nel nuovo millennio, la tennista americana riesce a raggiungere finalmente risultati strepitosi: nel 2001 vince due tornei del Grande Slam, Australian Open e Roland Garros, conquistando la prima posizione della classifica mondiale, per poi bissare il successo in Australia anche nel 2002. Ma l’anima fragile e tormentata di Jennifer riemerge prepotentemente insieme a una serie di guai fisici che la costringono ad operarsi e ad abbandonare nel 2004, ad appena 28 anni, l’attività agonistica.

Negli anni ammette di soffrire di depressione e nel 2010 viene ricoverata d’urgenza per quella che inizialmente sembra un’overdose da sostanze stupefacenti, che poi si rivela, come specificato dal portavoce della famiglia Capriati, “un sovradosaggio accidentale di un farmaco prescritto dal suo medico personale”. Nel 2012 viene inserita tra i membri della prestigiosa International Tennis Hall of Fame, ma poco tempo dopo balza nuovamente alle cronache per una denuncia presentata dal golfista statunitense Ivan Brannan, suo ex fidanzato, che afferma di esser stato picchiato dalla campionessa al culmine di una lite. È sempre la stessa Jennifer, fragile e tormentata.

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Nell’Hall of Fame

Nel 2015 scompare all’età di ottant’anni il papà, Stefano Capriati, figura controversa e discussa a cui spesso sono state attribuite responsabilità per le numerose fragilità della figlia. “Amo mia figlia più di quanto immagini. Ma dalle mie parti abbiamo un proverbio che dice ‘quando la mela è matura, mangiala’. Jennifer è matura. Solo dio sa se si stancherà del tennis, ma se e quando accadrà, avrà comunque guadagnato più soldi di quanti io potrei mai darle” aveva dichiarato l’uomo al giornalista Bud Collins negli anni dell’esplosione di Jennifer, come riportato da Ubitennis.com, per poi confessare molto tempo dopo di aver esagerato nel metterle pressione: “Avrei dovuto lasciarle più spazio. Invece cucinavo per lei, vivevo con lei 24 ore al giorno. A volte mi diceva ‘Non voglio allenarmi questa settimana’ ma io insistevo perché si preparasse per il prossimo torneo”. Nonostante tutto, Jennifer l’ha sempre amato e compreso. Lo confermano le parole che gli riservò quando entrò a far parte dell’International Tennis Hall of Fame, riportate da Daniele Vallotto sul sito Ubitennis.com: In questo momento voglio davvero ringraziare mio padre per avermi insegnato tutto quello che so e per avermi dato le basi del mio tennis. Sapeva come insegnarmi nella maniera migliore perché io comprendessi e mi fidassi di lui. Mi ha insegnato molto anche della vita fuori dal campo. Mi ha insegnato cos’è l’amore senza condizioni, cosa vuol dire esserci sempre. Ha un cuore d’oro, e ti ringrazio, papà, per essere come sei”.

Thomas Muster: caduta e resurrezione «dell’animale»

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Thomas Muster

Ieri é iniziato il torneo ATP di Miami, uno dei Master1000 della stagione, appuntamento che tanti anni fa segnò l’esistenza del tennista Thomas Muster. Appena ventunenne e in piena ascesa, il campione austriaco vide la sua vita e la sua carriera scorrere veloce davanti ai propri occhi nel parcheggio dell’impianto di Miami. Ma prima di raccontare caduta, resurrezione e trionfi di quello che molti addetti ai lavori al tempo ribattezzarono ‘l’animale’, é il caso di spiegare ai più giovani chi é stato Muster negli anni Novanta, ovvero uno dei più grandi tennisti sulla terra battuta del decennio. Vincitore del Roland Garros nel 1995 e numero 1 del mondo nei primi mesi del 1996, Muster ha vinto quarantaquattro titoli ATP, di cui quarantuno sulla terra rossa. Atleta eccezionale, gambe e fiato da maratoneta, istinto animale, l’austriaco surclassava i propri avversari prima sul piano fisico, grazie a una solidità e una resistenza eccezionale, e poi su quello tecnico, imponendo i suoi colpi arrotati e martellanti da fondocampo. Non si distinse di certo per la bellezza del suo tennis, ma per l’efficacia sì.

Eppure la carriera di Thomas Muster il 1° aprile 1989 sembrava compromessa, addirittura al capolinea. Il tennista era impegnato proprio nel torneo di Miami, sull’isolotto di Key Biscayne, e aveva appena battuto in semifinale il francese Yannick Noah, dopo una fantastica rimonta che si era conclusa al quinto set con il punteggio 5-7, 3-6, 6-3, 6-3, 6-2.  Thomas aveva ventuno anni e si era già affermato come specialista della terra rossa, vincendo i primi tornei su quella superficie. Questa finale avrebbe rappresentato un’importante chance di consacrazione anche sul cemento, proiettandolo tra i protagonisti assoluti del circuito ATP. L’indomani avrebbe dovuto affrontare il campione Ivan Lendl per il titolo, ma quel match non si disputò mai. All’uscita dall’impianto infatti, mentre era intento a sistemare l’attrezzatura nel bagagliaio della propria auto, gli piombò addosso a tutta velocità una vettura guidata da un uomo ubriaco. Thomas fu sbalzato per alcuni metri e il ginocchio sinistro sembrò subito compromesso. Finì sotto i ferri e i dottori immediatamente furono molto scettici sulle condizioni della sua gamba e sulla possibilità di tornare a giocare.

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Muster si allena sulla panca, 1989

In quel momento uscì fuori l’animo del combattente, l’animale ferito che lotta fino all’ultimo respiro. Non poteva finire in questo modo. A un paio di mesi dall’incidente, Muster partecipò alla cerimonia di premiazione degli Internazionali d’Italia sul Centrale del Foro Italico, quell’anno vinti dall’argentino Alberto Mancini, una presenza quella dell’austriaco che sapeva tanto di riconoscimento consolatorio per una carriera terminata così presto. “Camminavo ancora con le stampelle” raccontò alla Gazzetta dello Sport nel 2015. “La gente si commosse, e quando dissi al microfono ‘Tornerò l’anno prossimo per vincere il torneo’ vidi che tutt’attorno erano risolini e facce piene di dubbi. È vero, era una scommessa un po’ azzardata, in realtà avrei potuto addirittura rimanere zoppo”. Probabilmente il pubblico non conosceva abbastanza il temperamento dell’austriaco, quindi prese le sue dichiarazioni come battute di buon auspicio, magari per farsi forza. Non sapevano che Thomas stesse già programmando il suo rientro. Si era fatto costruire da un falegname una sedia speciale che gli permise di riprendere gli allenamenti anche durante la riabilitazione. Ricominciò a giocare da seduto, allenando il busto e il braccio e mantenendo ferma e sollevata da terra la gamba ingessata. Compiendo un autentico miracolo, Muster fu pronto al rientro nel mese di settembre del 1989, ad appena cinque mesi e mezzo dall’incidente. E mantenne la promessa: partecipò all’edizione del 1990 degli Internazionali d’Italia, conquistando il torneo. In finale batté il russo Andrej Chesnokov con il punteggio di 6-1, 6-3, 6-1. Quella fu la sua resurrezione, l’inizio della sua nuova vita.

Dedizione e sacrificio fecero sì che l’austriaco si imponesse a metà degli anni Novanta come grande dominatore sulla terra rossa. Nel 1995 vinse 12 tornei e 40 match di fila sulla terra, record superato soltanto anni dopo da Rafa Nadal con le sue 81 vittorie sul rosso. Quell’anno vinse di nuovo gli Internazionali d’Italia, superando in finale un altro specialista come lo spagnolo Sergi Bruguera, poi conquistò gli Open di Francia, battendo in finale Michael Chang a cui non concesse nemmeno un set. Ma la vittoria più incredibile dell’annata fu quella ottenuta al torneo di Monte Carlo. Quella settimana Muster appariva più stanco del solito. Nonostante le condizioni non ottimali raggiunse la semifinale, dove incontrò il nostro Andrea Gaudenzi, amico e compagno di allenamenti. Il match fu molto tirato e carico di tensioni, assumendo nel finale toni drammatici: l’austriaco portò a casa la vittoria in due set, ma uscì in barella e fu ricoverato in ospedale, dove trascorse la notte attaccato a una flebo. Nell’altra semifinale il tedesco Boris Becker aveva avuto ragione in tre set del croato Goran Ivanisevic e aspettava in finale Muster. In molti avrebbero scommesso che quella sfida non si sarebbe giocata, considerate le condizioni dell’austriaco appena ventiquattro ore prima. Invece Thomas, uscito dall’ospedale il mattino dopo, decise di scendere in campo ugualmente contro “Bum Bum” Becker, in quel momento numero 2 del mondo, disputando un match memorabile. Muster sembrava rinato: correva da una parte all’altra senza sosta, costringendo Becker a una estenuante maratona. Nonostante tutto il tedesco si aggiudicò i primi due set per 6-4, 7-5, apparendo più lucido nei momenti decisivi. L’austriaco portò a casa agevolmente il terzo set per 6 giochi a 1, sfruttando un calo dell’avversario. Ma fu il quarto set a rappresentare il nodo cruciale del match: i due procedettero in equilibrio fino al 6 pari; nel tie-break Becker riuscì ad allungare sul 6-4, guadagnando due match point che però sciupò malamente con un doppio fallo e un dritto a rete. Da quel momento Muster salì in cattedra: vinse prima il tie-break per 6 a 8 e poi giocò un quinto set senza sbavature, rifilando un sonoro 6-0 a un Becker annichilito. Bum bum uscì dal campo furioso, e in conferenza stampa attaccò duramente Muster, gettando sospetti su questo suo rapido recupero. Thomas rispose sottoponendosi volontariamente al test antidoping, che risultò negativo, eliminando così qualsiasi sospetto sulla sua straordinaria vittoria.

Come ho già detto, nel febbraio del 1996 Muster diventò numero uno del mondo e a maggio si laureò di nuovo campione degli Internazionali d’Italia, battendo in finale l’olandese Richard Krajicek. A questo proposito nel 2015, sempre alla Gazzetta dello Sport, confessò: “Ho avuto da subito un rapporto particolare col vostro paese e il vostro pubblico, che ha sempre capito i miei sforzi e li ha apprezzati. Anche anni dopo, quando sono tornato al torneo, la gente mi fermava: ‘Ciao, Tommaso’. Mi riconoscevano più che in Austria”. 

 

Corrado Borroni, il tennista sconosciuto che “stese” Kafelnikov e conquistò il Foro Italico

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Corrado Borroni

Ieri sera ho guardato il calendario e, facendo due conti veloci, ho realizzato che mancano meno di due mesi all’inizio dell’edizione 2018 degli Internazionali BNL d’Italia di tennis. Come faccio ogni anno a ridosso di questo grande evento, ho cominciato a scavare nella memoria in cerca delle storie più belle, bizzarre, incredibili che hanno contraddistinto negli anni questo prestigioso torneo. Certamente una delle più folli e magnifiche risale al 1995, ed è quella di Corrado Borroni, lo sconosciuto tennista milanese, originario di Garbagnate, che mise in ginocchio un campione in ascesa come Evgenij Kafelnikov, spingendosi fino agli ottavi di finale degli Internazionali d’Italia.

Parliamo dell’anno in cui tra le teste di serie in tabellone c’erano nomi del calibro di Pete Sampras, Michael Chang, Sergi Bruguera, Stefan Edberg, Goran Ivanisevic, Wayne Ferreira, Jim Courier, Todd Martin, Thomas Muster e, appunto, Evgenij Kafelnikov. Tra loro figurava anche l’ottimo Andrea Gaudenzi, il tennista italiano che proprio a febbraio di quell’anno aveva raggiunto il suo best ranking: la diciottesima posizione della classifica ATP di singolare. Oltre a lui, a rappresentare i nostri colori erano presenti anche l’inossidabile Renzo Furlan e le wild card Gianluca Pozzi e Stefano Pescosolido. A loro si aggiunse il ventitreenne Corrado Borroni, in quei giorni numero 411 della classifica ATP, che proveniva dalle qualificazioni dove aveva superato il peruviano Venero, l’argentino Marcelo Charpentier e il marocchino Karim Alami.

Non nego che ci fu parecchio scetticismo tra gli appassionati quando nel tabellone principale apparve il nome di tale Borroni, conosciuto soltanto dagli addetti ai lavori. Soprattutto poi quando il sorteggio decise che il suo avversario sarebbe stato il campione russo Evgenij Kafelnikov. Borroni era fisicamente forte e robusto, portava capelli neri lunghissimi, che non tagliava da circa sette anni, tenuti a bada da una fascia che gli cingeva la fronte. Giocava un tennis aggressivo, sfoderando un micidiale rovescio a una mano. Con Kafelnikov non aveva molto da perdere e  così giocò quello che di solito si definisce il match della vita. Sorprendendo tutti, vinse in tre set con il punteggio di 3-6, 7-5, 6-3. Chissà cosa avrà pensato il russo mentre veniva trafitto dal rovescio devastante di questo perfetto sconosciuto, magari a uno scherzo degli organizzatori o del destino. Dal nulla Borroni si ritrovò sulle prime pagine dei giornali, protagonista dei tg sportivi e non. Nel giro di poche ore divenne l’idolo del Foro Italico.

E allora via al secondo turno, a dimostrare che il suo non era stato un colpo di fortuna: sul Campo 2, protetto dagli alti pini e con la gente che sgomitava per vederlo, Corrado affrontò lo spagnolo Roberto Carretero, un ‘terraiolo’, come a quel tempo lo erano tutti i suoi connazionali, ma niente di speciale. Il match fu molto tirato, carico di tensione, e alla fine la spuntò l’italiano, portando a casa due tie-break. Borroni si confermò eroe nazionale, anche in virtù del fatto di essere l’unico azzurro a qualificarsi quell’anno agli ottavi di finale. Subito tra gli appassionati si diffuse la Borroni-mania. Nei circoli di tennis in tanti cominciarono a coltivare la speranza di diventare gli outsider della prossima edizione. Intanto, però, la domanda ricorrente era: “Dove può arrivare Borroni? Ai quarti? In semifinale? Può vincere?”. Il sogno continuava! A riportare tutti sul pianeta terra ci pensò un “certo” Stefan Edberg, che a Roma non giocava da più di dieci anni. La favola di Corrado si infranse sull’elegante serve & volley dello svedese, il quale si impose con un secco 6-0, 6-2. Nonostante la sconfitta, lo sconosciuto tennista milanese guadagnò circa 170 posizioni nel ranking ATP, tanta fama e il soprannome di ‘Cenerentolo’, proprio per la fiaba che aveva appena vissuto.

Dopo l’exploit di Roma, però, non ottenne più risultati di quella rilevanza, complici anche diversi problemi fisici che gli impedirono di trovare continuità e condizione. Gli unici traguardi degni di nota furono la semifinale al challenger di Merano e il raggiungimento del suo best ranking, ovvero la 147esima posizione della classifica ATP. Ma era a Roma che Corrado riusciva a dare il meglio: quando vedeva i campi del Foro Italico, forse per la cornice suggestiva, diventava indomabile. Nel 1996, infatti, ritornò al Foro e riuscì nuovamente a superare le qualificazioni. Entrò così nel tabellone principale degli Internazionali d’Italia per la seconda volta consecutiva e, ironia della sorte, al primo turno trovò ancora Kafelnikov. Questa volta, però, il russo non si fece sorprendere e diede fondo a tutto il suo repertorio pur di portare a casa il match. Alla fine la spuntò in tre set con il punteggio di 4-6, 6-3, 6-4.

Non sempre le favole hanno un lieto fine. Nel settembre del 1996 a Borroni fu diagnosticata l’artrosi a entrambe le anche. Inizialmente seguì una serie di cure e provò a continuare con la carriera agonistica, ma al termine del 1997 capì che non poteva andare avanti. Così, tra mille rimpianti, fu costretto a ritirarsi, lasciando incompiuta questa favola di cui non sapremo mai il finale. Sì perché, se avesse proseguito con il tennis professionistico, la sua storia, da favola, si sarebbe potuta trasformare in epopea. Oppure, nella peggiore delle ipotesi, sarebbe andata a finire allo stesso modo. Chi lo sa…

Intervistato da Riccardo Bisti nel 2015, a vent’anni dall’exploit agli Internazionali d’Italia, Borroni dichiarò: “Cosa mi resta di quell’avventura? Tutto l’insieme. Fu un incredibile bagno di popolarità, mi riconoscevano tutti. A Roma avevo sempre le guardie del corpo, ovunque andassi. Sapete, da poco c’era stato l’attentato a Monica Seles e il problema della sicurezza per i tennisti era molto sentito. All’inizio fu bellissimo, poi divenne un po’ pesante perché arrivi al punto in cui non hai un momento per te stesso. E anche quando sono tornato a casa era un continuo riconoscermi. Però è stato spettacolare, Roma e i romani sono stati eccezionali. Mi avevano adottato. Anche grazie a loro, ogni tanto, posso ricordare quella bella avventura”.

Per scrivere questo pezzo ho consultato le seguenti interviste:
Riccardo Bisti, La favola di Corrado Borroni, 20 anni fa “Cenerentolo” emozionava il Foro, www.federtennis.it
Gianfilippo Maiga, Intervista a Corrado Borroni, http://www.spaziotennis.com

Ezio Vendrame, il calciatore a cui non piaceva fare il calciatore

Giampiero Boniperti lo paragonò a Kempes. Altri lo definirono il George Best del nostro calcio. Ma lui fu semplicemente Ezio Vendrame, un talento inespresso e a volte incompreso, genio e sregolatezza del calcio italiano. Nereo Rocco mi dava del pazzo, e la cosa, non lo nego, mi faceva enormemente piacere – ha dichiarato in un’intervista Vendrame – più semplicemente, io amavo giocare a pallone, ma non mi piaceva fare il calciatore.” Vendrame era capace di tutto. Una volta, a San Siro, fece un tunnel a Gianni Rivera e poi gli chiese subito scusa. “Perché Gianni era un artista del pallone, e umiliarlo così…mi dispiacque tantissimo. D’altra parte un po’ fu anche colpa sua, lui allargò le gambe, e chi allarga le gambe, nel calcio come nella vita, ti spinge sempre a fare qualche cosa”.

Classe 1947, sangue friulano, Vendrame esordì in serie A nel 1971, con il Lanerossi Vicenza. La sua aria da hippie, capelli lunghi e barba folta, lo fece diventare nel giro di poco tempo un idolo della tifoseria biancorossa. Ezio era capace di alternare giocate di alta classe a prestazioni sotto tono. Dopo tre anni con la maglia biancorossa passò al Napoli, con cui giocò appena tre partite in tutto il campionato. Pare che alla base di questa esclusione ci fosse il rapporto travagliato con l’allenatore Luis Vinicio. “Vinicio non sopportava che 20-30 mila napoletani venissero a vedermi allenare – ha raccontato Ezio qualche anno fa – e che alla domenica 80mila andassero in visibilio per le mie sgroppate”. E su Napoli ha aggiunto: “Una città meravigliosa, gente bellissima e poi mi sono scopato il meglio del meglio, questa allora come sempre una delle mie partite più sentite”.

Ma ciò che rimarrà negli annali del calcio, saranno le gesta di Ezio Vendrame sul rettangolo di gioco. Però sarà impossibile dimenticare anche la sua passione per le donne, che più di qualche volta compromise le sue prestazioni sportive. “Fare il calciatore ti poneva al centro dell’attenzione. Avere delle donne era facilissimo, e io non mi tiravo certo indietro, anzi…”. Parola di Ezio.

Uno dei tanti episodi di cui si rese protagonista accadde mentre giocava

Ezio Vendrame oggi

con il Vicenza. In un’azione di contropiede, Vendrame venne a trovarsi a centrocampo senza avere davanti compagni da servire. Allora salì con entrambi i piedi sulla palla e si portò le mani alla fronte per scrutare l’orizzonte. Ma l’episodio più noto risale alla stagione 1976-77, quando giocava in serie C con la maglia del Padova. La partita era Padova-Cremonese e il risultato era già stato concordato prima di scendere in campo. Ezio, insofferente a questo tipo di combine, trovò il modo per ravvivare un incontro noioso con una delle sue trovate eclatanti. E con il suo gesto causò involontariamente anche una tragedia. “Lo ricordo fin troppo bene. Giocavo nel Padova, contro la Cremonese. In campo avevano deciso la ‘torta’, che a me proprio non andava giù. Non potevo certo prendermela con gli avversari e puntare verso la loro rete. Così, dal centro del campo, feci dietro front e puntai verso la nostra area. Qualche compagno, ripresosi dallo spavento, mi si fece incontro ma io lo dribblai, fino a trovarmi a tu per tu con il nostro portiere. Solo a quel punto, e dopo aver fintato il tiro, stoppai invece il pallone con la pianta del piede. Ricordo il sospiro come di sollievo di tutto lo stadio… Solo a fine partita seppi del dramma: un tifoso si era spaventato a tal punto da morire di infarto.”

Un’altra volta, invece, dinanzi alla proposta di giocare male la partita contro l’Udinese, la sua ex squadra che stava lottando per la promozione dalla C alla B, inizialmente accettò un’offerta di 7.000.000 per una “prestazione scadente”. La sua squadra, il Padova, in quei giorni navigava in cattive acque finanziarie. I premi partita erano i minimi stabiliti dalla FIGC: 22.000 lire a punto. Una volta entrato in campo, però, Vendrame fu fischiato dai suoi ex tifosi. Così decise di “…punire quel pubblico di ingrati…affanculo i sette milioni, viva le 44.000 lire”. Ezio segnò una doppietta e il Padova vinse 3 a 2. Uno dei due goal lo realizzò dalla bandierina del corner, dichiarando al pubblico che avrebbe segnato. Ma prima di calciare si soffiò il naso con la bandierina. Qualche anno più tardi giustificò così quel gesto: “Vi pare bello vedere quei giocatori che si puliscono il naso con le mani? Ero lì per battere un calcio d’angolo, e mi sembrò più fine, se vuoi anche più educativo, usare la bandierina a mo’ di fazzoletto…. “

Dopo essersi ritirato dal calcio, Ezio si rifugiò nella campagna friulana a coltivare i suoi hobby. Ancora oggi scrive poesie e suona la chitarra. Ha

Copertina del libro “Se mi mandi in tribuna, godo”

pubblicato anche parecchi libri, che consiglio vivamente di leggere a chiunque volesse conoscere meglio la sua filosofia di vita. In questi anni ha allenato anche le squadre giovanili del Venezia e della San Vitese. Pare che, ogni volta che comincia ad allenare una nuova squadra, il discorso di iniziazione sia questo: “Cari ragazzi, buttate nel cesso le vostre playstation e rinchiudetevi nei bagni con un giornaletto giusto in bella vista. Quando uscite, innamoratevi di una bella figliola: il sesso fai da te è bello, ma quello con una coetanea è meglio”. Questo è Ezio Vendrame, genio e sregolatezza. Nel calcio e nella vita.

N.B. I virgolettati sono stati da me estrapolati dall’intervista rilasciata da Ezio Vendrame a Fabrizio Calzia e da una recensione di Sebastiano Vernazza.

La triste storia del portiere Giuliano Giuliani: dai trionfi alla malattia

A cavallo tra gli anni Ottanta e i Novanta, il mondo del cinema, della musica e dello sport non restarono immuni dall’incedere prepotente dell’AIDS. Nel 1985, l’attore Rock Hudson ammise pubblicamente di essere malato.

Giuliano Giuliani

Nel 1991, Freddy Mercury dichiarò di aver contratto l’AIDS e morì appena ventiquattro ore dopo l’annuncio. Anche il mondo dello sport venne toccato dal virus. Sempre nel 1991, il grande giocatore dell’NBA, Magic Johnson, annunciò al mondo di doversi ritirare dalle scene per aver contratto l’HIV. Oggi Johnson è ancora vivo e vegeto. Ed è uno dei maggiori sostenitori della lotta contro l’AIDS, nonché la prova vivente che le prospettive di vita dei contagiati si sono allungate.

Purtroppo, però, ci sono stati anche sportivi che non ce l’hanno fatta. Pochi giorni fa mi è capitato di leggere un articolo di qualche anno fa in cui si diceva che anche nel calcio italiano c’erano stati alcuni casi di AIDS. Allora mi sono ricordato di Giuliano Giuliani, portiere del Napoli dello scudetto nella stagione ‘ 89-90 e vincitore della coppa Uefa, che morì a metà degli anni Novanta nel silenzio più assoluto. Giuliani era una persona schiva, timida, introversa. Amava stare in disparte, coltivare interessi e lanciarsi in nuove attività. Era anche appassionato di pittura.

Dopo lo scudetto dell’89’-90 e la Coppa Uefa, Giuliani fu costretto ad andare via da Napoli. Una serie di dicerie investirono la sua famiglia, la moglie Raffaella e la piccolissima figliola Jessica. Anche i compagni di squadra cominciarono a non avere più fiducia in lui. Secondo loro, Giuliani si allenava troppo poco e per questo non si sentivano sicuri con lui in porta. Così scappò da Napoli e si trasferì a Udine per giocare con l’Udinese.

Nel 1992, un quotidiano uscì con un titolo affilato più di una lama di coltello: “Giuliani ha l’Aids”. Il portiere non replicò e, dopo lo scalpore iniziale, la questione finì lì. Intanto Giuliani, nel 1993, venne arrestato per aver acquistato cocaina a fini di spaccio. Nello stesso anno si ritirò dal calcio giocato. Poi nel 1994 venne processato e poi assolto dalle accuse di spaccio di droga.

Intanto, però, il male lo consumava. Sempre nel silenzio, perché Giuliani era così timido che non ce l’avrebbe fatta a confessare al mondo che era malato. La mattina del 14 novembre del 1996, dopo aver accompagnato Jessica a scuola, il portiere dai lunghi capelli ricci si recò al Policlinico Sant’Orsola di Bologna, al reparto di malattie infettive per un improvviso peggioramento delle sue condizioni di salute. Nel corso di quell’anno era già stato ricoverato in altre due occasioni. Questa volta, però, Giuliani non uscì vivo dal policlinico. E morì a soli 38 anni. Le comunicazioni ufficiali parlarono di complicazioni polmonari. Nemmeno un cenno alla malattia che aveva generato queste complicazioni.

Pochi mesi fa l’ex moglie del portiere, Raffaella Del Rosario, che lo assistette negli ultimi giorni della sua vita, nonostante si fossero lasciati qualche anno prima, ha finalmente parlato della vicenda con un noto quotidiano italiano. «… forse a distanza di tanto tempo si può fare outing per la prima volta. Anche per chiarezza e informazione. Per aiutare i giovani a non sbagliare. Giuliano è morto di Aids», ha raccontato Raffaella Del Rosario, ex fotomodella con esperienze di conduttrice televisiva al fianco di Maurizio Mosca. La Del Rosario ha chiarito per la prima volta le voci che giravano nell’ambiente del calcio su come Giuliani avesse contratto la malattia. Tipo quella che si sarebbe ammalato al matrimonio di Maradona. «Potrebbe essere – racconta Raffaella – nessuno l’ha mai saputo. Nessuno lo saprà. Sicuramente è stato un contagio sessuale con una donna. La droga non c’entra nulla». Ma la cosa che fece male all’ex-moglie e alla famiglia di Giuliani fu la reazione di diffidenza, paura e distacco del mondo del calcio al momento della scomparsa del portiere. «Tuttora nessuno ricorda più Giuliano, – ha concluso Raffaella Del Rosario – nessuno parla più di lui. Solo perché l’Aids è una malattia scomoda, dà fastidio in un ambiente come quello del pallone. E tutto questo mi ferisce, mi amareggia. Non è giusto».

Astutillo Malgioglio, il volto pulito del calcio

Astutillo Malgioglio è stato un calciatore, un portiere di serie A. Ha giocato con squadre del calibro della Roma, della Lazio e dell’Inter. La sua carriera da professionista è durata circa quindici anni, dal 1977 al 1992. Un calciatore atipico: niente macchine potenti, niente ville sfarzose, niente donne facili. Astutillo decise di non dissipare il proprio denaro in beni e svaghi effimeri. Preferì fare qualcosa di utile per gli altri, dando una mano

Astutillo Malgioglio con la maglia dell’Inter

ai bambini affetti da distrofia muscolare. Dopo essersi specializzato nello studio dei problemi motori, nel 1977 cominciò ad accudire bambini affetti da distrofia muscolare. Per questo investì i propri soldi nel centro ERA 77, una palestra che attrezzò con macchine adeguate a prestare le cure a questi bambini.

Nel 1985 andò a giocare con la Lazio, dopo aver militato qualche anno nella Roma. I tifosi biancocelesti non potevano perdonargli l’affronto di aver vestito la maglia dell’odiatissima squadra rivale. Così, partita dopo partita, non perdevano occasione di stuzzicarlo, ricordandogli che era stato uno “sporco romanista”.

Il 9 marzo del 1986, come ogni domenica, Malgioglio scese in campo per difendere la porta della Lazio. Quel giorno i biancocelesti affrontavano il Vicenza. Ad accoglierlo, però, questa volta non furono solo i cori che gli sottolineavano ancora una volta la sua militanza nella Roma. Ci fu anche uno striscione: “Tornatene dai tuoi mostri”. I mostri erano i bambini assistiti da Astutillo. Posso solo immaginare cosa sia successo nella testa e nel cuore di Malgioglio. Il

Astutillo Malgioglio quando giocava nella Roma

tumulto che quello striscione avrà smosso dentro di lui.

No, il giocatore non poteva sopportare questo affronto ai suoi bambini. “Insultate me, ma lasciate stare i “miei” bambini”, avrà certamente pensato in quel momento. La partita ebbe inizio. Malgioglio, distratto e confuso dal disprezzo con cui era stato accolto, prese due goal ingenui, probabilmente evitabili. In quei minuti d’inferno, tra cori, striscioni e avversari che approfittavano di quella giornata no, prese la decisione di farla finita con il calcio. Non poteva sopportare che qualcuno toccasse i suoi “amici fragili”. Così, al fischio finale, Astutillo si tolse la maglietta della Lazio e ci sputò sopra. Poi la gettò verso la curva e uscì dal campo. Pochi giorni dopo rescisse il contratto con la Lazio. E decise di congedarsi per sempre dal mondo del calcio.

Passata da poco tempo quella brutta domenica, gli arrivò la telefonata di Giovanni Trapattoni. Lo voleva assolutamente all’Inter come vice di Walter Zenga. Dopo qualche titubanza, Malgioglio accettò. All’Inter ebbe modo di riscattarsi. Il suo impegno con i bambini distrofici venne appoggiato e incoraggiato da tutti. Dalla dirigenza ai compagni di squadra. Astutillo trovò addirittura alcuni compagni disposti a dargli una mano. Su tutti Jurgen Klinsmann, che fu coinvolto in diverse cene di beneficienza. Nel 1989 arrivò anche lo scudetto dell’Inter. Una grande soddisfazione per un atleta generoso, che era stato ingiustamente maltrattato dal mondo del calcio. Il giusto risarcimento per le sofferenze patite qualche anno prima.

Poi arrivò il ritiro definitivo dalla scena del calcio. Questa volta sul serio. Era il 1992. Astutillo aveva 34 anni e militava nell’Atalanta.

Dopo aver lasciato la carriera agonistica, Malgioglio continuò a gestire il suo centro per la riabilitazione dei bambini distrofici. Ma i soldi finirono in pochissimi anni. Così fu costretto a chiudere Era 77 e a regalare i costosissimi macchinari che aveva acquistato. Per un po’ continuò a fare assistenza gratuita a domicilio. Poi la salute smise di assisterlo e fu costretto ad abbandonare anche questo ultimo stralcio di attività.

Ancora oggi pare che la sua salute non sia delle migliori. Di lui si sa pochissimo. Ma una cosa è certa, quando vedo giocatori capricciosi che passeggiano per il campo, che sfrecciano sulle loro auto potenti, che si mettono in posa davanti ai fotografi con la velina di turno, beh, non posso fare a meno di pensare ad Astutillo Malgioglio. Sì, penso a lui. E mi consolo. Perché rivedo davanti agli occhi qualcosa di più di un atleta, un giocatore, un portiere. Vedo il volto pulito del calcio.