Dieci anni fa, il 5 giugno 2010, Francesca Schiavone vince il Roland Garros, il secondo dei quattro tornei Slam dell’anno, confermando di essere una delle più grandi tenniste italiane della storia di questo sport. Da sempre un concentrato di grinta e potenza, “la leonessa”, per gli amici “la Schiavo”, classe 1980, si mette in evidenza nella seconda metà degli anni Novanta, raggiungendo i primi titoli ITF. Ma l’esplosione definitiva avviene nel 2001 con i quarti di finale al Roland Garros, la semifinale al torneo di Auckland e altri ottimi piazzamenti che la portano tra le prime cinquanta giocatrici del ranking mondiale. In quel momento l’Italia del tennis ha bisogno di un’atleta con la determinazione di Francesca, solida e inesauribile. Gli ottimi risultati registrati anche nel 2003, tra cui spiccano i quarti di finale agli US Open, la lanciano ai vertici del tennis femminile mondiale, tra le top 20 del circuito WTA. La Schiavone continua a crescere, imponendosi anche nel doppio. Ma è nel 2010 che arriva il grande exploit, che segna definitivamente il suo ingresso nella storia del tennis. Che la Schiavone si trovasse a proprio agio sulla terra rossa non era un segreto per nessuno, ma probabilmente a gennaio in pochi avrebbero immaginato quello che sarebbe accaduto durante l’anno. Francesca scalda i motori conquistando il suo terzo titolo WTA a Barcellona. E fra maggio e giugno compie un’impresa titanica al Roland Garros: arriva a Parigi che è numero 17 del ranking mondiale e al primo turno supera la russa Regina Kulikova in tre set, soffrendo e recuperando anche una situazione di svantaggio nel terzo; al secondo turno ottiene una vittoria più agevole contro l’australiana Sophie Ferguson. Ora le si presenta di fronte un ostacolo molto più consistente: la cinese Li Na, ex top ten e testa di serie numero 11 del torneo. Francesca non si lascia intimorire, non concede campo alla temibile avversaria e la supera in due set con il punteggio di 6-4, 6-2. Agli ottavi batte la russa Marija Kirilenko e al turno successivo affronta il primo momento della verità: la sua avversaria, infatti, è la numero 3 del mondo Caroline Wozniacki. La Schiavone è in stato di grazia e così liquida la campionessa danese con un perentorio 6-2, 6-3, senza concederle sbocchi. In semifinale affronta la russa Elena Dement’eva che, dopo un combattuto set vinto da Francesca al tie-break, è costretta a lasciare il passo all’italiana.
A questo punto tutto diventa possibile. Non conta né classifica né palmares: ci sono due giocatrici in ottima forma che per vincere sono pronte a lasciare il sangue sul campo. In finale trova infatti l’australiana Samantha Stosur, testa di serie numero 7 del torneo, che nei quarti ha eliminato Serena Williams in tre set. Francesca prepara molto bene il match, sia dal punto di vista mentale che tattico. Scende in campo concentrata e gioca in maniera perfetta le sue carte, non mostrando mai segni di cedimento o momenti di paura. Anche all’inizio dell’incontro, quando la Stosur serve solo prime palle di servizio e prova a intimorirla con un dritto micidiale, la Schiavone non si fa mettere all’angolo, non cede campo. Anzi, sul 2 pari risponde con aggressività ai servizi dell’australiana che superano i 190 km/h. La svolta arriva al nono game del primo set, quando l’italiana ha tre palle break: le prime due non hanno buon esito, quella vincente è la terza, complice un regalo della Stosur che fa doppio fallo. Ora tocca a Francesca chiudere il primo set provando a sfruttare il servizio. Va subito sotto 0-30, probabilmente avverte l’importanza della posta in gioco, ma poi infila tre punti consecutivi e va giocare un set point, che però non va a buon fine. Un altro set point, e questa volta conquista il punto decisivo e chiude il parziale per 6-4 dopo quaranta minuti. Ma la Stosur non ci sta, e all’inizio del secondo set si mostra subito aggressiva, conquistando un break e portandosi sul 4-1. Dopo il calo iniziale, Francesca torna a esprimersi ad altissimi livelli e al settimo gioco recupera il break che aveva perso. Da quel momento è un testa a testa che la conduce dritta sul 6 pari. Questo tie-break potrebbe spalancare le porte della storia alla Schiavone o intrappolarla in un insidioso terzo set. All’inizio entrambe le giocatrici tengono il servizio, poi sul 3-2 a proprio favore la Schiavone fa il mini break, infilando successivamente tre punti consecutivi che la portano sul 7-2 e la decretano campionessa del Roland Garros 2010.
Alza le braccia al cielo e cade a terra incredula, bacia il manto rosso del campo centrale Philippe Chatrier. È la prima tra le donne del tennis italiano a vincere una prova dello Slam in singolare. «Oggi sono andata oltre i miei limiti. Ho pensato che puoi arrivare a questo punto solo se lavori molto duro e se hai qualcosa di speciale dentro. Quello che è successo è qualcosa che viene da molto lontano» dichiara dopo il match in conferenza stampa, come riportato da «Tuttosport». È una gioia incredibile, anche perché questa vittoria la porta nella top ten del ranking mondiale, alla posizione numero 6 della classifica, record assoluto per una tennista italiana.
«È buffo: ricorda più il corpo della mente” racconta Francesca dieci anni dopo in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera. «La sensazione della pancia e delle gambe per terra sul centrale ruvido, dopo il match point con la Stosur, è qui con me. Sentivo la forma che mi cresceva dentro, partita per partita, fino alla finale. Un’emozione difficile da spiegare. […]Ero totalmente calata nel momento e nella situazione. Ricordo il pensiero prima dell’ultimo punto: mandami la palla, che la gioco come voglio io. Se mi servi sul rovescio, io la colpisco alta, in anticipo, e te la rimando sul rovescio. Io posso, io faccio, io, io, io. Zero paura, soltanto positività. A questo punto posso dire di credere nel destino: lo disegniamo noi. Poi ci sono forze più grandi che ci aprono le strade».
Il 12 settembre 2015 gli occhi di tutti gli appassionati di sport sono puntati su ciò che succede a New York: a Flushing Meadows tra poche ore scenderanno in campo Flavia Pennetta e Roberta Vinci, amiche d’infanzia, atlete italiane che si trovano entrambe a un passo dalla storia. Il tennis femminile italiano non ha mai raggiunto queste vette. Il Premier Renzi raggiunge New York in rappresentanza delle istituzioni per assistere al coronamento della carriera della nostre atlete. Alla vigilia entrambe vivono la tensione dei grandi appuntamenti: nella sua stanza Flavia guarda un film italiano che le strappa qualche risata, poi prova a dormire, ma è difficile non pensare al match che l’aspetta. Quando Morfeo la prende tra le sue braccia, crolla in un sonno profondo. Roberta, invece, dorme poche ore, «le ho contate su un palmo di mano», confessa. Arriva l’alba del 12 settembre ed è ora di prepararsi. Poco prima del match si incontrano casualmente, si fermano a chiacchierare senza indugio, tanto che Boris Becker, il grande Bum Bum, che in quei giorni è il coach di Djokovic, le guarda meravigliato, si avvicina e ricorda loro che hanno una finale da disputare l’una contro l’altra: «Ma voi lo sapete che dovete giocare contro tra poco?» E loro a tranquillizzarlo, che l’amicizia a volte è più forte della rivalità, poi in campo vinca la migliore, chi gioca meglio, chi indovina la tattica, chi ha più energie in quel momento. Poco dopo sono sul terreno di gioco e inizia la sfida. «Che dire? Tiro i primi quattro colpi e sono uno più sbagliato dell’altro. E allora mi dico: Flavia, ricomponiti. Accetta la partita, non puoi fare figuracce. Adattati» racconta la Pennetta a «la Repubblica» a proposito delle fasi iniziali del match. Flavia si ricompone e il primo set prosegue in costante equilibrio. Poi arrivano al tie-break, dove la brindisina si impone per 7 punti a 4. Nel secondo, invece, Roberta molla fisicamente e mentalmente. La Pennetta si porta sul 4-0, ma quando vede il traguardo comincia a irrigidirsi. Così la Vinci prova a tornare in partita, ma sul 4-2 Flavia gioca un ottimo settimo game e allunga, agguantando poco dopo un 6-2 che vale il titolo. Loro che sono state rivali, amiche e complici fin da ragazzine, quando condivisero la stanza al centro federale dell’Acqua Acetosa «con i poster di Leonardo di Caprio e Paolo Maldini in bella mostra», si ritrovano a essere l’orgoglio di una nazione. «[…] Dopo il miracolo di aver giocato contro di lei una finale dello Slam, penso spesso ai quattro anni che abbiamo vissuto avvicinando i letti la sera, come fanno le adolescenti» racconta Roberta a «D». «L’abbraccio della finale è durato quaranta secondi perché è stato un ritrovarsi, con lei che mi diceva: “Robé, guarda dove siamo arrivate insieme”, e io: “Goditela. E Penne, sono stanchissima, ho dolori dappertutto”. Poi mi ha buttato lì quel “Mi ritiro, non ce la faccio più…”».
E infatti durante la premiazione annuncia il ritiro dal tennis, puntualizzando però che avrebbe finito la stagione. E pensare che questa vittoria la proietta all’ottavo posto del ranking mondiale, che diventa una sesta posizione a fine settembre, il suo miglior piazzamento in assoluto. La finale agli US Open rilancia la Vinci tra le prime venti giocatrici della classifica WTA, precisamente al 19° posto. Finisce l’anno con buone prestazioni al torneo di Wuhan, dove viene fermata in semifinale da Venus Williams con il punteggio di 5-7, 6-2, 7-6, non sfruttando un match point, e poi al Master B di Zhuhai, in cui sempre in semifinale ritrova Venus a sbarrarle la strada. Grazie a questi risultati arriva fino alla 15esima posizione nel ranking WTA di singolare, piazzamento che migliora nei primi mesi del 2016 con la vittoria al torneo di San Pietroburgo e altre ottime prestazioni che nel mese di aprile la portano a occupare la settima posizione della classifica mondiale, il suo best ranking. «Nonostante la vittoria, la mia scelta non è cambiata» conferma invece Flavia a novembre del 2015, quando va ospite alla trasmissione di Sky I Signori del Tennis. «Nel senso che è stato meraviglioso, perché ho avuto l’opportunità di fare qualcosa che ho sempre sognato di fare. Perché io ricordo e non mi scorderò mai Sampras dare l’addio e fare il giro del campo con suo figlio in braccio, mi ricordo che disse: It’s the time to say goodbye. Ho avuto la stessa opportunità e non me la sono fatta scappare». La Pennetta è la seconda italiana a conquistare un torneo dello Slam di singolare femminile, prima di lei ci era riuscita soltanto Francesca Schiavone. Dopo aver dato tanto a questo sport, a 34 anni decide che è arrivato il tempo di fermarsi e di realizzare un sogno altrettanto importante come quello di una famiglia e di un figlio. Nel giugno del 2016 sposa il collega Fabio Fognini e pochi mesi dopo una nuova vita comincia a muoversi dentro di lei. Voglio chiudere il capitolo dedicato alla Pennetta con questa dichiarazione che racchiude tutta la passione e il sacrificio che l’atleta pugliese ha regalato a questo sport: «Il tennis è il mio primo amore, il secondo è Fabio, ma il tennis rimarrà sempre il mio primo amore» dichiara sempre a I signori del Tennis, come riportato da «Tuttosport». «Penso che è qualcosa che ho dentro, che avrò sempre e che non si spegne. Non ho giocato tutti questi anni solo perché giocavo bene, perché guadagnavo o perché era il mio lavoro. È sempre stato molto di più. È un’appartenenza, la mia, nei confronti di questo sport. Non mi vedo senza tennis, neanche tra un anno, due anni. È qualcosa che non concepisco. […] Penso che non verrò ricordata come la più forte, ma come una persona che ha dato tanto per questo sport, si è rialzata molte volte, è caduta, si è rialzata, è di nuovo ricaduta e si è rialzata con una forza particolare».
Partiamo da un fatto sportivo: nel 1976 la nazionale maschile di tennis vince la Coppa Davis, la massima competizione a squadre di questo sport, sul campo e con grandi meriti. Siamo nell’anno in cui Adriano Panatta raggiunge il pieno della maturità tennistica, affermandosi sia come leader indiscusso della squadra sia come campione a livello individuale con le vittorie agli Internazionali d’Italia e al Roland Garros. Al suo fianco ha colleghi di grande valore. Uno di questi è Paolo Bertolucci, figlio di un maestro di tennis e quindi nato con la racchetta nella culla. Grande talento, ma molto pigro e amante della buona cucina, che spicca per le sue doti di doppista. Poi c’è Corrado Barazzutti, giocatore molto solido dal punto di vista atletico, votato al sacrificio, che possiede una continuità invidiabile nel gioco e nei risultati. E infine Tonino Zugarelli, anche lui un ottimo atleta che riesce a esprimersi meglio sulle superfici veloci. Dopo la brutta sconfitta nell’edizione del 1975 contro una non irresistibile Francia, che costò il posto da capitano a Fausto Gardini, la guida della squadra viene presa da Nicola Pietrangeli, mentre Mario Belardinelli rimane a ricoprire il ruolo di direttore tecnico. Ed ecco arrivare nuove motivazioni e una maturità che probabilmente attendeva solo il momento giusto per esplodere.
Quell’anno l’Italia di Pietrangeli parte bene, battendo la Polonia e la Jugoslavia senza particolari patemi. Poi a luglio affrontano la Svezia di Bjorn Borg, fresco campione di Wimbledon. L’Italia gioca in casa, sui campi del Foro Italico, ma la sfida sulla carta è difficile. Finché non arriva il forfait di Borg per un leggero infortunio. Senza il loro campione, gli svedesi diventano facile preda di Panatta e compagni, i quali si qualificano così alla finale della Zona Europea, che li mette di fronte alla Gran Bretagna. La vera insidia non è costituita tanto dal valore avversario, quanto dalla superficie scelta dai padroni di casa, ovvero l’erba. I risultati e la tradizione sul manto verde non pendono certo dalla parte degli azzurri. Bisogna prendere quindi le contromisure: come singolarista viene schierato Zugarelli che, rispetto a Barazzutti, si sente maggiormente a proprio agio sull’erba. La mossa si rivela vincente: Tonino porta a casa il primo punto contro Roger Taylor, giocando un ottimo tennis e vincendo in quattro set con il punteggio di 6-1, 7-5, 3-6, 6-1. «Alla fine della partita ci fu un abbraccio collettivo» ricorda Zugarelli nell’autobiografia, Zuga – Il riscatto di un ultimo. «Scesero tutti in campo per festeggiare la vittoria, Belardinelli per primo. C’era un clima di entusiasmo, di emozione, un sentimento di unione e la consapevolezza di una squadra che sospettavamo potesse crescere ancora».Poi tocca a Panatta che deve affrontare John Lloyd nel secondo singolare: sulla scia dell’entusiasmo Adriano lo supera in cinque set. Il doppio non va benissimo: i solidissimi Panatta e Bertolucci cedono al quinto set dopo aver condotto per 2 set a 0. Ma ci pensa Adriano a chiudere la pratica battendo Roger Taylor in quattro set, seguito da Zugarelli che, a risultato ormai acquisito, porta a casa anche l’ultimo incontro.
Nella semifinale, in cui si incrociano i vincitori delle diverse Zone, l’Italia trova il colosso Australia da contrastare, per fortuna, sulla terra rossa del Foro Italico di Roma. Gli azzurri hanno davanti il tre volte campione di Wimbledon, John Newcombe, che però non è più il giocatore brillante di qualche anno prima. Il vero osso duro si rivela infatti John Alexander, che vince entrambi i singolari, superando prima Panatta, in tre set, e poi Barazzutti al quinto. Newcombe finisce per rivelarsi l’anello debole della catena, perdendo prima il match di esordio contro Corrado per 7-6, 6-1, 6-4, poi il doppio e il singolare decisivo contro Panatta. La vittoria più importante della tre giorni di Davis è certamente quella di Panatta e Bertolucci nel doppio: la quotata coppia australiana viene dominata dagli azzurri che si impongono con un perentorio 6-3, 6-4, 6-3. «Battere in casa Newcombe e Roche, cinque volte campioni a Wimbledon, i miei idoli, fu il massimo» racconta Bertolucci a Sky Sport. «Sì, come premio partita chiesi un piatto di pasta e fagioli. E Belardinelli me l’accordò. Sapeva quanto fosse fondamentale per me, ogni tanto, infrangere qualche regola alimentare». Nel match decisivo Panatta supera Newcombe in quattro set e porta l’Italia in finale.
Nell’altra semifinale la Russia lascia strada al Cile senza giocare. Dietro ci sono motivi politici, gli stessi che rischiano di far saltare la finale con l’Italia, a Santiago, che si tiene dal 17 al 19 dicembre 1976 all’Estadio Nacional de Cile. Le vicende politiche legate a questa finale sono state spesso ripercorse e approfondite, quindi non mi soffermerò eccessivamente su questo aspetto della vicenda, se non per restituire il clima che ruotava intorno a Panatta e compagni prima della partenza. Esponenti del Partito Comunista e del Partito Socialista, infatti, nei giorni precedenti spingono affinché l’incontro con i cileni non si disputi. L’obiettivo è di manifestare il dissenso nei confronti della dittatura del Generale Pinochet, che ha deposto con la forza il socialista Allende. Capitan Pietrangeli e tutta la squadra azzurra vogliono partire ugualmente. Sanno che è una grande occasione per l’Italia del tennis e non hanno intenzione di perderla. Comincia una campagna di disinformazione che getta lui e la squadra in un tritacarne mediatico: vengono accusati addirittura di essere pro-Pinochet. Ma Panatta non ci sta e, come riportato da Giorgio Dell’Arti, a fine settembre dichiara: «Facciamo una protesta unitaria contro il Cile a livello mondiale e la cosa mi va bene. In caso contrario è troppo facile lasciare sulle spalle di quattro giocatori il peso della decisione». Panatta, Barazzutti, Bertolucci e Zugarelli resistono alle pressioni. Il capitano, Nicola Pietrangeli, lotta in ogni contesto perché la squadra vada a giocare questa finale. Combatte contro tutto e tutti per partire, respinge gli attacchi da destra, da sinistra, dal centro. Crede che lo sport non debba farsi coinvolgere in questioni politiche, che debba restare al di sopra delle parti. Alla fine si ammorbidisce l’iniziale linea intransigente della politica e i ragazzi partono per il Cile. Ma in Italia il clima resta pesante. Addirittura c’è chi scende in piazza al grido di “Non si giocano volée con il boia Pinochet”.
Il 17 dicembre gli azzurri fanno il loro esordio sulla terra battuta dell’Estadio Nacional: il primo incontro vede di fronte Barazzutti e il numero uno cileno James Fillol. Corrado lo supera in quattro set, con il punteggio di 7-5, 4-6, 7-5, 6-1, portando il primo punto all’Italia.Il secondo singolare è senza storia: Panatta liquida facilmente Patricio Cornejo con il punteggio di 6-3, 6-1, 6-3. Il punto più difficile è certamente il doppio, perché la coppia Cornejo-Fillol è forte e collaudata. In quell’occasione Panatta vuole lanciare una provocazione: il colore rosso rappresenta l’opposizione, quella che porta nel cuore il presidente Salvador Allende, ucciso nel colpo di stato, e migliaia di desaparecidos, così Adriano vuole scendere in campo con la maglietta rossa. Racconta Bertolucci a Sky Sport a proposito dello scambio di idee con Panatta il giorno prima dell’incontro: «Va bene Adriano, pur di vincere questo doppio domani scendo in campo anche nudo, ma siccome non sarebbe un bello spettacolo, giocheremo con la maglia rossa. Ma sappi che se per caso andiamo al quarto set, all’intervallo ci cambiamo e decido io con quale maglietta rientriamo in campo. E lui: “Vabbè…”, e finalmente mi lasciò in pace. Il giorno dopo entrammo in campo con la maglietta rossa. Ma sul 2-1 per noi, negli spogliatoi, andai a ricordagli il nostro patto: “Adriano! Blu!” E lui non fece una piega». Panatta e Bertolucci si confermano una coppia forte e affiatata: battono in quattro set i cileni, con il punteggio di 3-6, 6-2, 6-3, 9-7, e regalano all’Italia una storica vittoria. Gli azzurri si perdono in un caloroso abbraccio al centro del campo, insieme a Nicola Pietrangeli e Mario Belardinelli che con il loro supporto vi hanno contribuito. Anche il pubblico cileno applaude. Nonostante il successo, al rientro in patria all’aeroporto di Fiumicino l’accoglienza è tiepida. Pietrangeli ricorda una decina di persone, per lo più addetti dello scalo, e un paio di fotografi. L’Italia del tennis ha comunque compiuto una grande impresa, conquistando meritatamente la sua prima e, a oggi, ultima Coppa Davis. Fortunatamente negli anni la storia ha smussato le polemiche politiche che inizialmente avevano offuscato quel trionfo, mettendo in primo piano l’impresa sportiva e il valore di quella squadra. Un team da sogno di cui ancora oggi andiamo orgogliosi.
Nei primi anni Cinquanta il tennis italiano maschile vede imporsi due giocatori molto diversi fra loro: Fausto Gardini e Giuseppe Merlo, detto Beppe. Gardini: tecnica non eccelsa, ma grande solidità fisica e mentale che gli permette di competere ad alti livelli e di togliersi parecchie soddisfazioni. Quando entra in campo ha un solo imperativo: vincere! Ha grinta da vendere, un dritto letale e un ottimo servizio, ma la tecnica è un dettaglio trascurabile, l’importante è raggiungere l’obiettivo con tutti i mezzi possibili. Possiede un carisma contagioso, che lo porta a diventare l’idolo del pubblico, riuscendo ad avvicinare al tennis tantissime persone. «Era un tennista che il pubblico seguiva con passione» ricorda Pietrangeli nel libro C’era una volta il tennis. «Fausto ebbe il merito di rendere popolare il nostro sport. Lo avvicinò al calcio. La gente combatteva al suo fianco. In uno sport fatto di silenzi e di gesti bianchi lui sembrava un direttore d’orchestra: esigeva il silenzio. Chiedeva l’applauso! La gente obbediva. Fausto è stato un caso unico e irripetibile nella storia del nostro sport. Era un campione che trascinava. Vederlo giocare era meglio che andare al cinema. Non è vero, come vuole la leggenda, che ogni palla venisse rubata agli avversari. Fausto aveva inventato un suo modo di orchestrare i match. Spaventava i giudici di linea. Dominava psicologicamente gli avversari».Gardini si impone nei campionati italiani per cinque anni consecutivi e nel 1952 trascina la squadra di Davis, insieme a Cucelli e ai fratelli Del Bello, prima alla vittoria della Zona Europea e poi a una finale interzone che però vede vittoriosi gli Stati Uniti sull’erba di Sydney.
Beppe Merlo
Il rivale storico di Gardini è Beppe Merlo, dotato di un efficace rovescio a due mani e di solidità fisica. Non possiede un servizio potente, ma in compenso riesce a piazzarlo molto bene, gioca d’anticipo e ha tocco di palla. E poi colpisce di dritto con una originale impugnatura a metà manico. In campo Merlo è corretto oltre ogni limite, a costo di danneggiare se stesso. «Beppe non rubò mai un punto su un campo da tennis – ricorda ancora Pietrangeli in C’era una volta il tennis – Andava addirittura contro il giudizio degli arbitri. Giocando con Remy, campione di Francia, sul Centrale di Roland Garros, al quinto set corresse il giudice di sedia e regalò il quindici che mandò il francese a servire per il match. Fino a quel momento aveva avuto tutto il pubblico contro. Quando Beppe vinse venne giù lo stadio». Per quattro volte vince i campionati assoluti italiani, ma numerosissimi sono i trionfi a livello internazionale, dalla Germania a Bombay, sia in singolare che in doppio. Tra lui e Gardini inizialmente non corre buon sangue: solo nel 1962, grazie a una trasferta in California voluta dalla Federazione, diventeranno buoni amici. All’inizio sono soltanto rivali, entrambi molto forti sulla terra rossa. Ne danno dimostrazione quando raggiungono la finale degli Internazionali d’Italia nel 1955, dopo aver liquidato con autorità i rispettivi avversari. La sfida decisiva si trasforma in un incontro memorabile che sul finale prende una piega drammatica. Ma partiamo dall’inizio. Facendo leva sul suo temibile dritto, nel primo set Gardini si impone con un netto 6-1. Nel secondo gli scambi si allungano, Merlo comincia a sbagliare sempre di meno e alla fine prende il largo, aggiudicandosi il set con il medesimo punteggio con cui il suo rivale aveva vinto il primo. Sul risultato di parità, nel terzo comincia a salire la tensione sia sul campo che tra il pubblico: un Merlo in grande spolvero si porta sul punteggio di 3-0 e Gardini comincia a perdere le staffe. Nel quarto game Fausto protesta perché Beppe, che d’abitudine dopo il servizio lascia cadere la palla per avere la mano libera ed eseguire così il rovescio bimane, nel compiere quel gesto lo ha distratto. L’arbitro fa ripetere il punto e Merlo commette doppio fallo. Nonostante il tentativo da parte di Gardini di destabilizzare il suo rivale, Beppe porta a casa il terzo set, dopo un’ora di gioco, con il punteggio di 6-3. In quel momento ha inizio la parte più drammatica del match: «Dopo il terzo set c’è il riposo. Per raggiungere gli spogliatoi Merlo viene portato addirittura a braccia – racconta Ubaldo Scannagatta su Ubitennis.com –Gardini, gli occhi spiritati nel volto ancor più ossuto, non pensa minimamente a mollare. Digrignando i denti, anzi, si rivolge ad arbitro e dirigenti FIT: ‘Guardate l’orologio! Dieci minuti, non di più… attenzione!’ ha l’aria di minacciare.Intanto Merlo, su una panca, piange. […] Il melodramma continua alla ripresa del gioco. Merlo rientra in campo addirittura sorretto da due infermieri”.
Fausto Gardini
Il quarto set viaggia in perfetto equilibrio, a suon di break e controbreak, tra errori arbitrali e contestazioni. Nonostante le condizioni fisiche precarie di Merlo e il nervosismo di Gardini, tra i due è battaglia vera, così si arriva sul 6-5 per Beppe. Nel dodicesimo gioco va in scena il momento più drammatico del match, sotto gli occhi dei fotografi e di un pubblico ormai incandescente: «Merlo ha due match point, ma quando Gardini gli annulla il primo crolla a terra vittima dei crampi alle gambe» racconta il giornalista Giorgio Bellani su «Stampa Sera» dell’11 maggio 1955, come riportato da Giorgio Dell’Arti. «Rialzatosi a fatica, Merlo cade nuovamente dopo che Gardini gli annulla il secondo match point (stavolta è pure vittima di una crisi di nervi). Di nuovo in piedi, Merlo riesce a procurarsi un terzo match point[…]”. Intanto Gardini, dopo la seconda caduta di Merlo, va su tutte le furie. Pensa che sia una sceneggiata e gli spettatori sono con lui. Quando poi Fausto annulla anche il terzo match point e Beppe crolla nuovamente a terra, il pubblico fischia inferocito. A quel punto Merlo si ritira, lasciando la vittoria a Gardini. Come racconta Pietrangeli a Lea Pericoli, il match finisce in «un’orrenda gazzarra»dai risvolti tragici: «Era l’imbrunire e dovette intervenire la forza pubblica per calmare gli animi del pubblico impazzito che lanciava in campo giornali incendiati. Ormai era buio. Da una parte c’era Beppe sdraiato per terra con i crampi. Dall’altra Fausto che tirava giù la rete urlando: Ho vinto! Ho vinto!» A Merlo sfugge così la possibilità di conquistare gli Internazionali d’Italia, mentre Gardini si sposa e al termine di quell’annata positiva decide di abbandonare l’attività agonistica ad appena venticinque anni, per poi riprendere nel 1960. Ma al suo rientro non potrà fare molto: il protagonista assoluto è ormai un certo Nicola Pietrangeli.
Antonio Zugarelli, detto Tonino o Zuga, è l’uomo con i baffi dell’Italia che porta a casa la Coppa Davis nel 1976. Per molti è la riserva del team, che vede in prima linea Adriano Panatta, Corrado Barazzutti e Paolo Bertolucci, ma il suo contributo risulta fondamentale nella vittoria contro la Gran Bretagna sull’erba di Wimbledon, nella finale della Zona Europea che dava accesso alla fase decisiva del torneo, dove Zuga è certamente più a proprio agio rispetto al titolare, Corrado Barazzutti. Se in quella sfida non avesse battuto Roger Taylor, giocando un ottimo tennis e vincendo in quattro set con il punteggio di 6-1, 7-5, 3-6, 6-1, probabilmente l’Italia non sarebbe arrivata alla finale di Santiago del Cile. Un giocatore d’attacco, Tonino, che da sempre rivendica la sua origine popolare, di ragazzo di strada, di quelli che pulivano i campi e le righe per i signori ricchi. Proprio per strada, da bambino, perde la falange del pollice della mano destra, ma ciò non gli impedisce di diventare un grande giocatore. «Il tennis è stato il modo migliore che ho trovato per farmi accettare. Mi ha dato un posto nel mondo» racconta Zuga nella sua autobiografia, Il riscatto di un ultimo.
L’Italia del 1976 con la Coppa Davis. Da sinistra: Adriano Panatta, Tonino Zugarelli, Nicola Pietrangeli, Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci.
Ormai leggendario il suo rapporto tormentato con Pietrangeli nel periodo in cui Nicola è capitano della squadra. Un’incompatibilità che li porta spesso a scontrarsi, anche in maniera accesa. Zugarelli cerca dal tennis un riscatto sociale, vuole la stessa considerazione riservata ai suoi compagni di Davis, ma sembra che Pietrangeli lo tratti come la riserva, il rimpiazzo, e questa cosa non gli va giù. Poi Tonino è uno di pancia, sincero, che le cose le dice a brutto muso. E questo non aiuta il loro rapporto. Zugarelli contribuisce alla vittoria della Davis, ma poco dopo arriva il momento difficile: i primi mesi del 1977 la depressione lo bracca, lo immobilizza, lo tormenta, e lui prova a superarla sul campo di allenamento con l’aiuto di Mario Belardinelli. Ci riesce, riparte e va a giocare sulla terra rossa del Foro Italico gli Internazionali d’Italia. Il primo turno è difficile non tanto per il valore del suo avversario, il connazionale Roberto Lombardi, quanto per l’ansia e le paure che ancora lo attanagliano e che credeva di aver superato. La partita passa in secondo piano, Zugarelli vola altrove con la mente: durante il match pensa al ritiro, alla sua vita senza il tennis. Poi accade che, mentre è inghiottito da un buco nero, Lombardi perda le staffe per una chiamata del giudice di sedia, addirittura gli viene inflitto un punto di penalità. Improvvisamente Zuga risorge dalle ceneri, quasi che la scenata del suo avversario l’abbia svegliato dal torpore, riportandolo sul campo del Foro Italico. Magicamente spariscono le angosce e le paure, scompaiono per sempre. Vince il match e non si ferma più fino alla finale: batte prima lo jugoslavo Željko Franulović in tre set che terminano 6-1, 1-6, 6-0. Nel turno successivo liquida con due tie break il paraguaiano Victor Pecci. In semifinale affronta l’australiano Phil Dent che supera in quattro set con il punteggio 6-4, 5-7, 6-4, 6-2. Nel corso dell’incontro, durante il suo turno di servizio avverte un dolore alla spalla. Il panico. Il giorno dopo prende una fiala di cortisone e novocaina e scende in campo per una storica finale contro il numero uno del mondo, l’americano Vitas Gerulaitis. Zugarelli ha paura di spingere, così perde i primi due set 6-2, 7-6. Poi pensa che non può lasciare sfumare questa grande occasione senza nemmeno accennare una reazione. Decide di dare fondo a tutte le energie che possiede e vince il terzo set 3-6. Nel quarto arriva a giocare il tie break: sul set point per l’italiano una sua volée balla per una frazione di secondo sul nastro e cade nel campo di Zuga. Gerulaitis chiude il conto a proprio favore e si aggiudica gli Internazionali d’Italia. «Quel set per me fu decisivo: se fosse andato diversamente, non esito a dire che avrebbe potuto cambiare la mia carriera di tennista» racconta Tonino nella sua autobiografia. Resta comunque una grande impresa quella di Zugarelli, anche perché maturata in un periodo di profonda crisi. Appena sei giorni prima sembrava dovesse chiudere con il tennis, che la depressione avesse vinto. E invece Tonino dimostra ancora una volta che nel tennis, come nella vita, c’è sempre un’altra possibilità.
Omar Camporese dopo la vittoria contro Ivan Lendl a Rotterdam
Dritto e servizio micidiali, talento, solidità mentale. È il breve ritratto di Omar Camporese, classe 1968, uno dei giocatori italiani più forti dei primi anni Novanta, il primo a tornare tra i top 20 nell’era post Panatta. Con un dritto anomalo letale, che Giampiero Galeazzi nelle sue telecronache ribattezza anche turbo-dritto, il tennista bolognese raggiunge il suo best ranking nel febbraio del 1992, la 18esima posizione della classifica mondiale, dopo aver acciuffato gli ottavi di finale agli Australian Open. Ma il suo periodo d’oro inizia nel 1990, grazie alla finale sulla terra rossa di San Marino, seguita l’anno dopo dal suo primo titolo ATP sul sintetico di Rotterdam, in cui supera nel match decisivo Ivan Lendl in una sfida indimenticabile che si conclude con il punteggio di 3-6, 7-6, 7-6 in favore di Omar. Nei tornei del Grande Slam raggiunge in più occasioni il terzo turno e, come detto prima, gli ottavi in Australia. Anche in doppio compie un percorso di tutto rispetto, vincendo cinque titoli e raggiungendo la posizione numero 27 del ranking. In quegli anni Omar è protagonista di incontri memorabili: come il secondo turno degli Australian Open del 1991, quando affronta Boris Becker, detto “Bum Bum”, grande dominatore del tennis mondiale. Il ventitreenne Camporese tiene in campo il campione tedesco per oltre cinque ore, arrivando a giocarsi il passaggio del turno al quinto set, dove andò in scena un pazzesco testa a testa: i due giocatori tengono i rispettivi turni di battuta fino al 10 pari (nel quinto non c’è tie-break), poi Becker mette a segno il break, portandosi sull’11-10 e preparandosi a servire per il match. Nel game che potrebbe essere decisivo, il tedesco ha tre palle per chiudere l’incontro, ma Camporese tira fuori dal cilindro alcune risposte fulminanti che gli fruttano il contro-break.
La battaglia continua: si strappano il servizio a vicenda, portandosi sul 12 pari. Poi Omar sembra sfruttare il suo turno di battuta, andando sul 40-0, ma qualcosa si spegne. “Bum Bum” riprende in mano il game e lo vince. Questa volta non si fa scappare l’occasione e chiude il match con il punteggio di 14-12. Raggiungono entrambi la rete per stringersi la mano e il tedesco alza anche il braccio di Omar, condividendo gli applausi del pubblico. Chiuso il 1991 al ventiquattresimo posto del ranking mondiale, il 1992 si prospetta un anno straordinario, che potrebbe diventare quello del salto tra i top ten. E in effetti inizia benissimo: vince il torneo indoor di Milano, giocando ad altissimi livelli. In semifinale supera il russo Cherkasov, ma durante l’incontro comincia ad accusare forti dolori al braccio destro. Stringe i denti e disputa la finale contro Goran Ivanisevic, amico e compagno di doppio, una sfida improntata sui rispettivi servizi, che vede trionfare Camporese al terzo set. Arriva così il suo secondo trionfo nel circuito maggiore, che lo prepara al grande salto verso l’olimpo del tennis. Ma proprio da quel momento i problemi al braccio cominciano a farsi seri. È il 1993, infatti, quando è costretto a rimanere sei mesi a riposo, si tratta di epicondilite. Basta così poco perché il tennis cambi: cominciano a emergere gli spagnoli e i sudamericani, giocatori muscolari che scambiano da fondo con colpi arrotati, sbagliando pochissimo. Quando torna in campo Omar non è più quello di prima dell’infortunio e si abitua con fatica a queste novità, per di più i suoi colpi potenti non sono più risolutivi come un tempo. Così la sua scalata in direzione della top ten si trasforma in una caduta libera verso il basso.
Un Camporese memorabile è certamente quello di Coppa Davis, competizione in cui regala prestazioni di altissimo livello: su 21 incontri disputati in singolare ne vince 12, mentre su 9 match di doppio ne conquista 6. Esordisce il 3 febbraio 1989 contro la Svezia, sul veloce indoor di Malmoe, chiamato a sostituire Paolo Canè. Omar batte Pernfors, in quel momento numero 19 della classifica mondiale, portando all’Italia l’unico punto di quella sfida. Nel 1990 c’è la rivincita con la Svezia sulla terra rossa di Cagliari, dove Camporese disputa un ottimo match contro il campione Mats Wilander, cedendo soltanto al quinto set. L’Italia vince comunque grazie a un Canè in grande spolvero. Nel 1991 affronta nuovamente Becker, dopo la memorabile sfida agli Australian Open, sul tappeto indoor di Dortmund per un’Italia – Germania di Davis che vede ovviamente gli azzurri sfavoriti. E invece sia Camporese che Canè danno filo da torcere ai campioni tedeschi: Omar liquida in tre set il gigante Michael Stich con il punteggio di 7-6, 6-1, 6-3, confermando di essere in grandissima forma, sia fisica che mentale. Nel doppio del sabato, infatti, lui e il mancino napoletano Diego Nargiso superano Becker e Jelen in cinque combattutissimi set per 4-6, 6-4, 7-6, 4-6, 6-3. Contro ogni pronostico, l’Italia è in vantaggio 2 a 1 sulla Germania. La domenica si affrontano per primi i due numeri uno: Omar Camporese e Boris Becker. Ancora cinque set indimenticabili, in cui succedono fatti che vanno oltre ogni immaginazione. La principale pietra dello scandalo è il giudice di sedia, che nel corso del match compie errori imperdonabili, dimostrando di non essere all’altezza di una sfida così importante e intensa: nel corso del terzo set fa ripetere a Becker un secondo servizio nettamente out, negando così il break all’italiano. Panatta e Camporese sono furiosi, ma anche al tedesco non piacciono le scelte dell’arbitro e glielo ‘comunica’ in maniera molto animata, arrivando ad arrampicarsi sul seggiolone. «Mandate via quest’uomo, è un incapace» dice Becker verso la tribuna autorità. Alla fine del terzo set viene sostituito il giudice di sedia, caso raro che pare sia accaduto una sola volta nel tennis che conta, precisamente al secondo turno degli US Open del 1979 in occasione di un incandescente match fra Ilie Nastase e John McEnroe. A Dortmund si ripete questo evento straordinario e il match riprende con Camporese che conduce per 2 set a 1, 6-3, 6-4, 3-6. Nel quarto e nel quinto il campione tedesco dà fondo a tutta la sua classe e riprende in mano l’incontro, portando a casa il punto del 2 pari. Purtroppo nel match decisivo Stich non lascia scampo a Paolo Canè, ma di questa sfida resta l’ennesima consapevolezza di aver trovato un nuovo campione: Omar Camporese. Lo conferma nel 1992, quando l’Italia affronta al primo turno la Spagna a Bolzano, sul veloce indoor. Camporese dà una lezione a Sergi Bruguera e a Emilio Sanchez, che in quel momento gravitano nelle parti alte della classifica mondiale, giocando un tennis perfetto, sensazionale, di un altro pianeta. Il primo a finire sotto i suoi colpi implacabili è Bruguera, che viene piegato in quattro set con il punteggio di 6-4, 6-1, 4-6, 6-1. Quel giorno fa il suo esordio in Davis Cristiano Caratti, reduce da un 1991 di risultati sorprendenti, su tutti i quarti di finale agli Australian Open e la vittoria al torneo indoor di Milano. L’italiano conferma di essere un osso duro sulle superfici veloci, perdendo soltanto al quinto set con Emilio Sanchez. Nel doppio Diego Nargiso regala una delle sue migliori prestazioni di sempre insieme a Omar, il quale parte in sordina ma esce alla distanza. Gli avversari sono Casal ed Emilio Sanchez, la tattica dettata da Panatta è chiara: giocare su Casal e sul rovescio di Sanchez. Lo fanno e vincono senza lasciare nemmeno un set alla coppia iberica: 7-6, 6-3, 6-4. Poi il terzo giorno Camporese affronta nel primo incontro Emilio Sanchez, da cui aveva sempre rimediato sconfitte. L’italiano gioca ancora un tennis perfetto, che stordisce lo spagnolo. Solo sul 6-0, 4-0 l’iberico riesce a portare a casa un game, ma Omar non molla un punto e alla fine vince 6-0, 6-2, 6-4. «Caspita che partita quella. Contro Emilio Sanchez credo di aver giocato la più bella partita della mia vita» racconta anni dopo Camporese a «La Nuova di Venezia e Mestre». «Lo vedevo di fronte a me, che non sapeva cosa poter fare perché non lo lasciavo neppure pensare. Un ricordo indelebile della mia carriera». Finisce 4 a 1 per l’Italia, che si qualifica per i quarti di finale contro il Brasile. Gli azzurri volano così a Maceiò, dove però si trovano a giocare in un campo improvvisato in riva al mare, esposto a forti raffiche di vento. Omar riesce a portare il punto iniziale, battendo al quinto set il brasiliano Luis Mattar, dopo sei ore e cinque minuti di battaglia. Poi gioca anche il doppio insieme a Nargiso, cedendo al quinto set. Sul 2 a 1 per il Brasile, la domenica Omar, dopo aver giocato per oltre dieci ore in due giorni, non riesce a scendere in campo per il singolare contro Oncins, lasciando il posto a Stefano Pescosolido, il quale non riesce a portare a termini il match per colpa dei crampi. Alla fine l’Italia è costretta a capitolare.
L’abbraccio con Panatta durante l’impresa di Pesaro contro la Spagna
Nel 1997 la carriera di Omar sembra arrivata al termine: Camporese vince pochi match e la classifica ATP è impietosa. Ma a febbraio succede qualcosa di imprevedibile: viene convocato per il primo turno di Coppa Davis contro il Messico a Roma, sulla terra rossa del Foro Italico. Il nuovo uomo di punta della squadra italiana, Andrea Gaudenzi, ha dato forfait per un infortunio e capitan Panatta decide di puntare sul suo storico pupillo. Questa chiamata è una sorpresa che lascia sconcertato sia il pubblico che la stampa. D’altronde il gioco espresso ultimamente da Omar è lontano da quello degli anni d’oro, ma Adriano crede nella sua voglia di riscatto. Così comincia una preparazione che mira a riportarlo agli antichi fasti. L’impegno con il Messico è alle porte e questo percorso di ‘rinascita’ non è ancora completato. Camporese porta a casa il match contro il diciannovenne Hernandez in quattro set, ma fatica tantissimo. Poi Furlan batte Herrera e la sfida viene chiusa già il sabato con la vittoria in doppio della coppia Nargiso-Pescosolido contro Hernandez-Lavalle. Ad aprile nei quarti c’è la Spagna: sulla carta hanno già vinto, sono nettamente superiori. Per metterli in difficoltà Panatta sceglie di giocare a Pesaro sul tappeto indoor. In campo c’è ancora Camporese ma, se la sua prestazione è simile a quella contro il Messico, potrà fare poco contro gli spagnoli. In quella settimana Omar è numero 156 della classifica mondiale e nel singolare di apertura deve affrontare un certo Carlos Moya, numero 8 del ranking e fresco finalista agli Australian Open. I pronostici sembrano tutti a suo sfavore, perché lo spagnolo è in crescita, poi è giovane e affamato. I primi due set sono equilibrati: l’italiano gioca un ottimo tennis e sfoggia un servizio efficace. Ma non basta: i primi due set li vince l’iberico entrambi al tie-break, 6-7 (8-10), 6-7 (4-7). Nel primo tie break Camporese spreca addirittura due set point, uno con un doppio fallo e l’altro con un dritto a rete. A quel punto, dopo quasi due ore di gioco, l’incontro sembra avviarsi verso l’epilogo che in tanti immaginavano. Tutti pensano, compreso il sottoscritto (e sfido chiunque a dire il contrario), che dopo due set così combattuti, dispendiosi, tirati, il tennista italiano crolli sfinito al tappeto, per usare un termine pugilistico, sventolando bandiera bianca. «Omar fu impagabile» ricorda Adriano Panatta nella sua autobiografia. «[…] Gli scattò qualcosa dentro, ed era proprio quel qualcosa che io aspettavo e che sapevo che Omar portava in dote: un diritto terrificante e un gioco di prima scelta». Camporese non si arrende e continua a macinare campo: serve alla grande, lo spirito è quello di chi non ha più niente da perdere, di chi, seduto alla roulette di un casinò, punta tutto su se stesso. Conquista così il terzo set con il punteggio di 6-1, ma nessuno si illude: un attimo di rilassamento da parte di Moya può anche starci. La questione si fa seria quando vince anche il quarto set con il punteggio di 6-3, superando un crampo sul 4-2 che poteva sancire la resa. Invece torna in campo e vince anche il quinto: dopo circa tre ore e 45 minuti chiude con un altro 6-3, tra l’incredulità di tutti e probabilmente dello stesso Moya. Pesaro esplode: Camporese si conferma un campione, che purtroppo non ha potuto esprimere al meglio in questi anni le proprie potenzialità, mentre Panatta è un grande motivatore. «Il maggior diletto di un match come quello di Camporese non è solo che l’abbiamo vinto, ma che non abbiamo capito» scrive Gianni Clerici su «la Repubblica» con la solita onestà. «Non solo ci siamo sbagliati – tutti gli addetti, giù giù fino all’ultimo raccattapalle – ma ci siamo sbagliati più di una volta, e in modo sempre più clamoroso. E questa sequela di sbagli ha finito per produrre incredulità completa, e smarrimento non solo tra noi, ma anche tra i nostri amici spagnoli che conoscevano pochissimo Omar e credevano addirittura che si trattasse di un giocatore morto e sepolto […]». Dopo Camporese scende in campo Renzo Furlan che, accantonata un’iniziale timidezza che lo porta a subire lo spagnolo, diventa padrone del gioco e supera Carlos Costa al quinto set con il punteggio di 4-6, 6-3, 4-6, 6-4, 6-1. Il sabato c’è il doppio: la collaudata coppia formata da Camporese e Diego Nargiso si sbarazza in quattro set di Javier Sanchez e Francisco Roig, regalando all’Italia una nuova semifinale.
Nonostante queste grandi prestazioni in Coppa Davis, Camporese non riesce a riconquistare il posto che merita nei tornei e nelle classifiche ATP, così nel 2001 si ritira dall’attività agonistica. Oggi, come tanti suoi ex colleghi, continua a vivere di tennis, insegnandolo ai giovani.
Panatta l’ha definito «l’uomo delle imprese, dei match impossibili». Il tennista bolognese Paolo Canè, classe 1965, ha scritto il suo nome negli annali del tennis, giocando match memorabili in Coppa Davis e agguantando spesso vittorie contro ogni pronostico. Terminata l’era dei vari Panatta, Barazzutti, Bertolucci, Zugarelli, infatti, il movimento tennistico italiano maschile, nella prima metà degli anni Ottanta, vive una fase di smarrimento dovuta all’assenza di un ricambio generazionale. Proprio in quel periodo si affaccia sulla scena Paolo Cané, che gli appassionati, nei momenti di furore agonistico, chiamano Paolino. Fisico esile, asciutto, eppure ha un dritto potente ed efficace, un rovescio ribattezzato ‘turbo’, grande sensibilità nel gioco di volo e nel tocco di palla, capacità di variare il ritmo. Paolino possiede talento e classe da vendere, ma ha anche alcuni punti deboli: una schiena fragile, che a lungo andare gli crea parecchi problemi, passaggi a vuoto a livello mentale che lo rendono discontinuo e un carattere incandescente. Nelle giornate migliori è capace di tutto, anche di mettere all’angolo un fuoriclasse come Ivan Lendl. In questi anni spesso riesce a trasformare i suoi limiti caratteriali in punto di forza. Gli capita soprattutto quando gioca in Coppa Davis, competizione che esalta le sue caratteristiche di combattente, gladiatore nell’arena. Sia chiaro, non è che Canè non abbia combinato nulla nei tornei del circuito ATP. Anzi, in carriera ha vinto tre titoli in singolare, tutti sulla terra rossa, raggiungendo la ventiseiesima posizione del ranking mondiale. Ma nella memoria del grande pubblico, anche per motivi legati alla diffusione televisiva, resta principalmente ‘l’uomo Davis’, quello che, se c’è un’impresa impossibile da compiere, un solo tennista può portarla a termine: Paolo Canè. Su 17 incontri di Coppa disputati in singolare ne vince 9. Mentre in doppio le cose vanno peggio: su 9 match soltanto due vittorie. È viscerale, Cané, quando è in campo non riesce a estraniarsi totalmente da ciò che lo circonda. Non gli basta lanciare un’occhiataccia allo spettatore rumoroso di turno, lui lo prende di petto. Riesce a litigare anche con il proprio pubblico, quello di Roma, mandandolo più volte a quel paese. Ma, appena gli appassionati imparano a conoscerlo, non possono far altro che volergli bene.
I gesti inconsulti vengono cancellati da grandi prestazioni come quelle di Coppa Davis contro la Svezia nel febbraio del 1990, sulla terra rossa di Cagliari, al primo turno. Canè è ispirato e in forma smagliante: il primo giorno batte Jonas Svensson al quinto set, poi lui e Diego Nargiso superano in doppio Jarryd e Gunnarsson. Si va sul 2 pari e il singolare decisivo vede Paolino contro il campione Mats Wilander: l’italiano vince il primo e il secondo set, ma lo svedese risponde portandosi a casa il terzo e il quarto parziale per 3-6, 4-6. Nel quinto set, sul 2 pari, l’incontro viene sospeso per oscurità. Si riparte il lunedì a mezzogiorno con l’azzurro che fa il break e si porta sul 5-2. Potrebbe chiudere nel game successivo quando, sul servizio di Wilander, ha due match point che non riesce a sfruttare. Paolo si innervosisce per l’occasione mancata, ha un passaggio a vuoto e si fa riprendere dallo svedese sul 5 pari. L’azzurro torna al servizio e, sul 40-30, arriva lo scambio più spettacolare del match, quello che resterà nella memoria degli appassionati: dopo un’estenuante sfida da fondo campo, Canè attacca sul dritto di Wilander e va a rete, lo svedese tira un passante che sembra vincente, ma Paolino si oppone con una straordinaria volèe in tuffo, costringendo a rete l’avversario che appoggia la palla dall’altra parte pensando che l’italiano sia finito. E invece no: un generosissimo Canè torna verso la linea di fondo, recupera e spedisce ancora la palla dall’altra parte, l’incredulo Wilander la piazza al centro del campo in demi-volèe e Paolo lo castiga con un passante di rovescio che gli dà il punto del 6-5. L’azzurro cade a terra stremato, subito soccorso da capitan Panatta che lo aiuta ad alzarsi e lo accompagna in panchina. Il pubblico di Cagliari esplode, scandisce in coro il suo nome: Paolino è a un passo dall’impresa.
Nel quinto set non c’è il tie-break, quindi Wilander va a servire per prolungare l’incontro. Ma ora Paolo è più determinato del suo avversario e si porta sul 15-40, guadagnando due match point. Lui e Panatta si guardano, il capitano è teso, Canè non riesce a star fermo. Risponde benissimo alla prima di servizio di Wilander, poi si sposta e attacca con il dritto, seguendolo a rete. Lo svedese alza la palla, il primo smash di Paolo riesce a recuperarlo, il secondo chiude il match. L’Italia batte la Svezia grazie a uno splendido Canè. Panatta e i compagni corrono in campo ad abbracciarlo, viene portato in trionfo. Giampiero Galeazzi, che commenta l’incontro per la RAI, è emozionato: «Canè è riuscito a superare anche se stesso» dice, sottolineando come Paolino abbia preso in mano la squadra, portandola alla vittoria. E si lascia scappare anche un «sembra di essere tornati ai tempi di Panatta». Nella bolgia l’azzurro ha un tracollo e viene accompagnato a spalla da Nargiso fuori dal campo. «La sua vittoria a Cagliari contro Mats Wilander resta la più bella delle emozioni, e anche uno degli incontri più incredibili cui abbia assistito» ricorda Panatta nel libro Più dritti che rovesci. «Cuore e testa matta. Uno capace di guardare negli occhi lo svedese numero uno del mondo e fargli il vicht dopo ogni punto conquistato, lo stesso gesto che Wilander aveva reso famoso nel circuito».
Canè e Panatta, l’abbraccio di Firenze
Purtroppo l’Italia non riesce a dare seguito a questa grande vittoria: nel turno successivo perde infatti con l’Austria di Muster e Skoff. Prima di concludere, credo che sia doveroso citare anche l’impresa compiuta contro l’Australia a Firenze nel 1993, che non si concretizza nel passaggio del turno ma resta comunque un ricordo straordinario per il sottoscritto e per tutti gli appassionati. Dopo aver chiuso le prime due giornate sul 2 a 1 per l’Australia, con le vittorie nei singolari di Fromberg su Renzo Furlan e di Stefano Pescosolido su Woodford, nonché nel doppio della coppia Woodforde-Woodbridge su Canè-Nargiso, Paolo viene chiamato a sostituire uno spento Furlan contro Woodforde nel primo match della domenica, che potrebbe regalare la vittoria all’Australia o il 2 a 2 all’Italia. In quei giorni l’australiano gravita intorno alla ventesima posizione del ranking mondiale, mentre Canè è a pochi passi dalla duecentesima. Molti addetti ai lavori lo danno per spacciato, altri addirittura lo considerano già un ex giocatore. Non è dello stesso avviso Panatta, che lo conosce bene e punta su di lui. In una torrida domenica di luglio, l’azzurro viene chiamato nuovamente all’impresa: non molla un colpo, combatte, si esalta, litiga con i tifosi australiani, infiamma il pubblico di Firenze con il suo tennis, il carisma, la generosità. In quattro set piega il più quotato Woodforde e regala il 2 pari all’Italia. Alla fine del match abbraccia Panatta e scoppia in lacrime, l’emozione è fortissima, per lui e per noi che abbiamo seguito l’incontro. Purtroppo Pescosolido perde la sfida decisiva che lo vede opposto a Richard Fromberg. Resta però il ricordo di una grande prestazione di Paolo Canè, l’uomo delle imprese impossibili.
Agli Australian Open, primo torneo dello Slam del 2019, l’americana Danielle Collins ha conquistato le semifinali, perdendo soltanto da Petra Kvitova. Ha così agguantato la 23esima posizione della classifica mondiale e un consistente prize money. Un ottimo risultato per una tennista che, nonostante i suoi 25 anni, fino a marzo 2018 non aveva mai vinto neanche un match nei tornei del circuito maggiore. Eppure Danielle è una giocatrice completa, che ha ottimi colpi e gioca sempre all’attacco. Ha forza fisica e mentale, nonché immensa dedizione. Ma tutto questo non basta per arrivare nel tennis che conta. Servono infatti tanti soldi, che lei non aveva. Soltanto la determinazione, la passione e un pizzico di fortuna le hanno permesso di fare il grande salto.
La storia di Danielle é molto singolare per una tennista professionista: nata e cresciuta in Florida,comincia a giocare a tennis a 8 anni nei campi comunali di Tampa. La sua famiglia, infatti, ha difficoltà economiche e non può permettersi di mandarla nei circoli privati, di pagare attrezzature e un coach. Così lei si accontenta di incrociare la racchetta di amatori sessantenni o di chiunque altro fosse disponibile, ripiegando anche su un muro. Continua così per parecchio tempo e, nonostante le difficoltà, negli anni dell’adolescenza si afferma come una delle più forti giocatrici juniores d’America.
La strada sembra tracciata e il grande salto nei tornei internazionali pare ormai alle porte. Ma ancora una volta il suo talento viene frenato dalla mancanza di denaro. Girare il mondo per giocare a tennis richiede un investimento economico ancora maggiore rispetto a quello degli esordi. Oltre all’attrezzatura e a un coach, le giocatrici devono sostenere le spese di viaggio. La Collins é costretta a rinunciare, optando quindi per l’iscrizione al college.
Frequenta così il corso di laurea in comunicazione all’Università della Virginia e intanto prosegue con il tennis a livello amatoriale, conquistando nel 2014 il titolo NCAA, il circuito tennistico universitario, che le frutta una wild card per gli US Open. Lí viene eliminata in tre set da Simona Halep. Nonostante questo, per non perdere lo status di amatore, rinuncia al premio in denaro che spetta anche agli eliminati al primo turno. Nel 2016 riconquista il titolo NCAA e nel frattempo si laurea in comunicazione e ha tempo anche di frequentare un master in economia.
Il suo impegno viene premiato quando ottiene il contributo di 100.000 dollari che Larry Ellison, uno degli uomini più ricchi d’America, nonché patron del torneo di Indian Wells, assegna al miglior giocatore del circuito universitario, regalando la possibilità di affacciarsi nel mondo del professionismo. Un’iniezione di risorse che apre a Danielle l’opportunità di giocare tornei internazionali del circuito minore, l’ideale per aprirsi la strada tra i professionisti della racchetta, cominciando a guadagnare punti nella classifica WTA.
Inizia così la scalata di Danielle Collins, che la vede fare il grande salto nel marzo del 2018: gioca le qualificazioni al prestigioso torneo di Miami e nel tabellone principale elimina nell’ordine le più quotate Begu, Coco Vandeweghe, Donna Vekic, Monica Puig e Venus Williams, che non la prende benissimo. Il resto è storia recente, che non sto qui a rievocare. Posso solo dire che, quando l’anno scorso agli Internazionali d’Italia ho visto giocare Danielle contro Camila Giorgi, in campo ho trovato una donna determinata e affamata di vittorie, forse perché sa quanto é stato difficile per lei arrivare fin lì.
Le nuove generazioni probabilmente non lo conoscono o non lo ricordano, ma chi si è avvicinato al tennis nei primi anni Novanta è impossibile che non abbia memoria di un outsider come Gianluca Pozzi. Mancino, atipico, schivo, Pozzi giocava un tennis non certo spettacolare, ma molto efficace sulle superfici veloci. Non lasciatevi ingannare dal fisico da impiegato, Gianluca era un giocatore d’attacco, resistente, dotato di colpi liftati difficili da contenere, tra cui un rovescio in back che diede fastidio ai giocatori più forti del mondo, ma anche di un servizio profondo e importanti numeri sotto rete, che gli permettevano di costruirsi il punto pure contro i grandi ‘picchiatori’ del tennis che cominciavano a emergere negli anni Novanta.
Ma andiamo per gradi. Da dove arrivava Gianluca Pozzi? Pugliese, uno dei sette figli (sei maschi e una femmina) di Giuliana e Valentino, grazie al papà imprenditore ebbe la possibilità di crescere con il campo da tennis in giardino, uno stimolo e una preziosa opportunità che permise quasi a tutti i figli di avvicinarsi a questo sport. Il più coinvolto fu Gianluca che, senza alcun aiuto da parte della Federazione Italiana Tennis, la quale in alcuni momenti gli mise anche i bastoni tra le ruote, con tenacia e testardaggine riuscì a farsi strada nel mondo del tennis. Dopo il diploma e qualche esame di Economia e Commercio, Gianluca decise di abbandonare l’università e di provare la strada del professionismo, sapendo di poter contare solo sulle proprie forze. Nemmeno l’innata timidezza riuscì a fermare la sua voglia di emergere, così preparò lo zaino e nel 1984, a 19 anni, con le racchette sulla spalla si mise in viaggio alla ricerca di un spazio nel tennis mondiale. Cominciò a giocare tornei di qualificazione dall’altra parte del pianeta, competizioni dai miseri montepremi che a mala pena permettevano di coprire le spese di viaggio. Condusse una vita nomade, di abnegazione, che da sempre è tipica di tutti i tennisti che frequentano i tornei dei circuiti minori. Ma proprio grazie al suo spirito di sacrificio, dopo il primo anno di professionismo raggiunse la posizione numero 330 della classifica ATP. Sembrava che la strada fosse quella giusta e quindi continuò in quella direzione, ottenendo un’importante crescita a livello tecnico, che però negli anni successivi non si concretizzò in particolari successi. Nel 1988 infatti, dopo circa quattro anni di sacrifici, ricopriva ancora la posizione n. 165 del ranking mondiale.
Ma Pozzi non era il tipo da arrendersi. E anche se parlava poco, e a voce molto bassa, ebbe abbastanza grinta per andare avanti. Bisogna riconoscere che il tempo e il lavoro gli diedero ragione: nel 1991 arrivò la svolta della sua carriera con il primo importante risultato a livello ATP, la vittoria al torneo di Brisbane. Pozzi arrivava sul cemento australiano da n. 137 del mondo. Quella settimana di metà settembre affrontò tutti specialisti del veloce, superando i padroni di casa Stolle, Woodbridge e Stoltenberg, e gli americani Jim Grabb e Aaron Krickstein, quest’ultimo liquidato in finale in due set con il punteggio di 6-3, 7-6. Questa prestazione di livello lo fece balzare alla 104esima posizione del ranking. Aveva 26 anni e sembrava un po’ tardi per affacciarsi sulla soglia dei top 100, considerato che Boris Becker a 17 anni aveva vinto Wimbledon. E invece Gianluca continuò a non mollare una palla, migliorando negli anni gioco e risultati, concentrando i suoi sforzi su superfici veloci dove il suo tennis era più efficace. Nel 1994 raggiunse gli ottavi di finale agli US Open, partendo dalle qualificazioni e liquidando nell’ordine il connazionale Renzo Furlan, l’israeliano Amos Mansford e il tedesco Zoecke, per poi fermarsi davanti a un altro tedesco, Bernd Karbacher, che lo eliminò in quattro set.
Dopo essere stato ignorato per anni da Adriano Panatta, capitano della squadra di Coppa Davis dal 1984 al 1997, che sicuramente aveva ragione a puntare in vari momenti nei più quotati Canè, Camporese e Gaudenzi, nell’era Bertolucci fu chiamato a vestire la maglia azzurra in quattro occasioni. La prima nel 1998 in semifinale contro gli USA, quando ebbe la meglio su Justin Gimelstob a punteggio acquisito, e la seconda in occasione della successiva drammatica finale persa con la Svezia, quando perse in due set, sempre a punteggio acquisito, con Magnus Gustafsson. L’anno successivo venne convocato per la sfida di primo turno con la Svizzera, contro cui venne schierato nel match della prima giornata, riuscendo a tenere testa all’ex numero 9 del mondo, Marc Rosset, che vinse tre set al fotofinish con il punteggio di 7-6, 6-4, 7-6. La domenica, quando ormai la Svizzera aveva messo in cascina la vittoria, Pozzi superò in due set un giovanissimo ma già promettente Roger Federer.
Nel 2000 Pozzi dimostrò a tutti che l’età anagrafica spesso non conta se c’è la salute fisica e la freschezza mentale. Quell’anno infatti, a 35 anni suonati, raggiunse le semifinali sull’erba del Queen’s, due settimane dopo si spinse fino agli ottavi di finale a Wimbledon, dove venne fermato dal tennista dello Zimbabwe, Byron Black, e in agosto partecipò ai giochi olimpici di Sydney, da cui venne eliminato al secondo turno. Grazie a questi e ad altri risultati, nel gennaio del 2001 raggiunse la posizione numero 40 della classifica mondiale, che rimarrà il suo best ranking. Solo nel 2004, all’età di 39 anni di cui 20 trascorsi a giocare a tennis da professionista, Pozzi decise di lasciare l’attività agonistica.
Gianluca Pozzi e altri membri dello staff dell’Accademia Tennis Bari
Come tanti ex giocatori che amano il tennis e non possono fare a meno di stare in campo, pena un’immensa sofferenza, da qualche anno Pozzi si dedica all’insegnamento. Dal 2014 fa parte dello staff dell’Accademia Tennis Bari, dove mette a disposizione dei tennisti in erba la sua storia e la sua esperienza, patrimonio del tennis italiano.
*Alcune informazioni contenute in questo pezzo sono state tratte dall’articolo “Pozzi, piccola storia italiana”, uscito il 1° ottobre 1991 su La Repubblica a firma di Gianni Clerici.
Internazionali BNL d’Italia 2018. Al primo turno Maria Sharapova affrontava l’australiana Ashleigh Barty sul campo della Next Gen Arena. Non potevo perdere l’occasione di veder giocare la russa così da vicino. Così mi sono seduto nella tribuna laterale per scrutarne meglio i movimenti, la gestualità e le espressioni del viso. Sono entrato così nel mondo di riti e abitudini che caratterizzano la tennista russa. A parte la sua nota ‘paura’ di mettere i piedi sulle righe del campo tra un punto e l’altro, pena la peggiore delle catastrofi tennistiche, la prima cosa che mi ha colpito è stata la preparazione della risposta al servizio: ogni volta Maria dava per qualche secondo le spalle all’avversaria e in quella frazione fissava un punto indecifrabile sul fondo del campo, stringendo il pugno per darsi la carica; poi si girava e si posizionava per rispondere. É come se in quei momenti focalizzasse qualcosa o liberasse la mente. Un’altra particolarità che ho notato durante l’incontro è legata al suo turno di servizio: le ero così vicino che pensavo di farle un primo piano con la fotocamera del telefonino. Mi sono detto: ‘La immortalo appena si gira verso il raccattapalle che sta dalla mia parte per farsi dare le palline’. Per tutto il primo set la Sharapova non le ha mai chieste a quel raccattapalle posizionato alla sua sinistra. Avrà voluto farmi un dispetto? Non credo. Un caso? Forse. Una scaramanzia? Molto probabile.
Flavia Pennetta
Questo per raccontarvi che tutti i tennisti ne hanno almeno una, confessabile o inconfessabile, evidente o impercettibile, dentro o fuori dal campo. Dal servire con la stessa pallina con cui si è vinto il punto precedente (molti lo fanno, tra questi Richard Gasquet) alle bottiglie d’acqua posizionate allo stesso modo a ogni cambio campo. Ci sono poi scaramanzie legate all’abbigliamento: negli anni ho sentito storie riguardanti i polsini, le scarpe, i cappellini messi al contrario. Pare che Panatta, quando vinse il Roland Garros nel 1976, abbia indossato in tutti i match la stessa maglietta, ovviamente facendola lavare ogni volta. In diverse occasioni ho intervistato i migliori giocatori italiani e la curiosità mi ha spinto a indagare: Fabio Fognini, per esempio, ha molti riti scaramantici, ma ha preferito non svelarli, rifugiandosi in un diplomatico “[…] Se inizio a elencarli potremmo stare qui per giorni. Ogni atleta ha le proprie manie”; Andreas Seppi, invece, mi ha raccontato che in campo non ha particolari scaramanzie, mentre fuori “l’unico gesto che mi concedo è quello di usare sempre la stessa doccia durante tutto il torneo”, abitudine che è anche di Paolo Lorenzi. Mentre Flavia Pennetta come rito portafortuna mi ha raccontato che raccoglieva i suoi capelli in due modi: “Uno chignon nel singolo e una coda nel doppio”.
Rafael Nadal
Ma veniamo ai riti dei campioni che spesso assumono la caratteristica di gesti compulsivi: il numero uno in questo senso è Rafa Nadal. Il suo ‘show’ inizia dall’entrata in campo che avviene rigorosamente con il borsone delle racchette sulla spalla destra e una racchetta nella mano sinistra. Al momento del sorteggio, nei pressi della rete con arbitro e avversario, non penso di averlo mai visto fermo: Rafa saltella ripetutamente sul posto, poi fa un passo avanti e uno indietro; terminato il sorteggio, si gira e fa uno scatto verso il fondo del campo. Durante il match sulla terra battuta non manca mai di dare una pulita alla riga di fondo, ma l’apice lo raggiunge quando serve o risponde: di solito parte con la cosiddetta ‘smutandata’, prima dietro e poi avanti, poi passa alla maglietta che solleva leggermente prima sulla spalla sinistra e poi su quella destra, infine mano destra sul naso, una passata dietro l’orecchio sinistro, poi di nuovo sul naso e poi una sistemata dietro quello destro. Vi invito infine a far caso al cambio di campo: Rafa è sempre il primo ad arrivare nei pressi della rete, ma si ferma e aspetta che il suo avversario passi prima di lui.
Novak Djokovic
Una menzione speciale la merita anche Novak Djokovic e i rimbalzi infiniti quando si tratta di servire prima o seconda palla. Anni fa il serbo aveva l’abitudine di trascorrere circa 25 secondi secondi a ‘batter’ la pallina ripetutamente sul terreno di gioco, con il risultato di snervare gli avversari ma anche il pubblico. Nel tempo ha corretto questo suo rito (secondo me involontario), anche per motivi regolamentari, riducendo il numero dei rimbalzi. Ogni tanto però ci ricasca, soprattutto quando il match si fa teso, come nel caso del quarto di finale del Roland Garros 2018 perso contro il nostro Marco Cecchinato: con tutto che voglio bene a Djokovic, nel corso del quarto set al milionesimo rimbalzo ammetto di aver perso la pazienza e di aver lanciato qualche imprecazione.
Anche Roger Federer, seppur per un breve periodo, non è rimasto immune da un piccolo rito: farsi passare la pallina sotto le gambe prima di servire. Ma possiamo considerarlo un peccato veniale rispetto alla complessa gestualità di Rafa Nadal.
N.B. Questo articolo non pretende di essere esaustivo. Anzi, se qualcuno ricorda altri episodi, riti scaramantici o abitudini anche di tennisti del passato non esiti a segnalarlo nei commenti