Kos, cronaca di un terremoto

20 luglio 2017. Un pomeriggio magnifico trascorso fra le isole greche con una piccola barca, sconfinando nelle acque della Turchia, limpide, azzurre, fredde. Rientriamo a Kos stanchi, soddisfatti e felici: una cena di pesce e via a dormire che il giorno dopo ci attende un’altra traversata. Paola è la prima a cedere, mentre io resisto fino al termine de I Supereroi di Pani e Mollica. C’è Paolo Conte che si racconta, l’appuntamento con il sonno è rimandato ancora di qualche minuto. Spengo la tv che l’una di notte è già passata, mi addormento con il pensiero che tra qualche ora ci dovremo svegliare per andare in Turchia, a Bodrum. Siamo stanchi ma eccitati all’idea di sbarcare nel cuore di quello che fu l’Impero Ottomano, in una terra bella e tormentata. Passano pochi minuti e ci svegliamo di soprassalto nel gorgo dell’inferno. Le pareti della stanza si muovono avanti e indietro, istintivamente ci abbracciamo, è l’unico movimento che riusciamo a fare nell’immediato, il frigobar danza, la porta finestra si spiomba. Dopo 30 secondi interminabili, riusciamo ad alzarci dal letto e a scappare giù per le scale, scalzi, in mutande, senza nulla di superfluo, solo le nostre vite. Sì, perché il terremoto ci riporta allo stato primordiale, ci spoglia delle certezze e dei beni materiali, ci restituisce l’essenza e la fragilità delle nostre vite. In quei momenti è come se la natura volesse riaffermare la propria supremazia sull’uomo. Nel giro di pochi secondi siamo tutti in strada, confusi e impauriti, nudi e disorientati. Ma siamo vivi.

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Kos, centro storico (Foto di tgcom24.it)

Paola urla che c’è qualcosa di strano nel mare. Io penso che sia solo spaventata e le dico di tranquillizzarsi. E invece ha ragione lei: le acque del porto stanno scendendo velocemente, alcune barche si piegano, i pontili mobili affondano. Poi le acque iniziano a salire, superano gli argini della banchina, invadono la strada, salgono le scale d’ingresso dell’albergo, entrano nella hall. Urla di panico e fuga generale. Uno tsunami! Corriamo tutti verso il retro dell’Hotel per sfuggire alla furia del mare. L’acqua, però, si ferma, il livello scende e lentamente rientra negli argini. I pescatori mollano gli ormeggi delle loro barche ed escono in mare aperto. Alcuni yacht, liberati dalla forza delle acque, danzano nel porto fuori controllo, in balia dei vortici, e girano su loro stessi con il rischio di scontrasi. Le acque del porto si abbassano nuovamente e poi tornano a salire, inondando strada e banchina. Questa volta non entrano in hotel, attendono fuori.

Alcune ragazze del nord Europa piangono, altre provano a chiamare un taxi per andare via, per raggiungere l’aeroporto e fuggire da questo inferno. Esce una famiglia norvegese dalla stanza, padre, madre e figlio, che, tra lo stupore generale, chiede: “Sapete cos’è successo?”.
“Il terremoto” rispondiamo basiti.
“Ma si ripeterà?” chiede il padre, provocando in noi un misto di stupore e ilarità. Non sanno cosa sia un terremoto, non l’hanno mai vissuto, sentito, percepito. Non possono nemmeno immaginare che nelle prossime ore ci saranno più di 160 scosse di assestamento. Così, appena il mare si ritira dalla strada, per sicurezza cercano un taxi e si dirigono in aeroporto per lasciare l’isola. Intanto arriva in hotel l’architetto che ha seguito la costruzione dell’edificio. É un tipo anziano, che racconta di aver studiato in Italia: ci dice che la struttura “sta bene”, è sicura e che non crollerà. Ma intanto le pareti hanno grosse crepe e il pavimento è pieno di cocci di bottiglie, bicchieri, tazze, vasi.

Noi tiriamo il fiato e cominciamo a chiederci perché la natura, il più delle volte straordinaria e incantevole, possa diventare così ferale, violenta, colma di rabbia. Cominciano ad arrivare notizie dai giornali online e dalle tv: la scossa più forte, quella che ci ha sorpreso nel sonno, è di magnitudo 6.7, l’epicentro è nei pressi di Bodrum, nel tratto di mar Egeo che divide la Grecia dalla Turchia, a una profondità di 10 km. Arrivano notizie di morti e feriti nell’isola: all’inizio si parla di un pontile che è crollato, trascinando in mare diversi ragazzi. Poi scopriamo che, invece, è caduto il tetto di un locale notturno e due ragazzi, un turco e uno svedese, sono morti. Ci sono tanti i feriti, alcuni molto gravi: ce ne rendiamo conto quando alle 6 del mattino arriva in albergo un ragazzo, anche lui cliente, che si trovava in uno di questi locali. Ha ferite sul viso, è smarrito, spaventato, ma è vivo e può ringraziare il destino che l’ha graziato. Io e Paola ci scambiamo uno sguardo inequivocabile: dobbiamo fuggire da quella trappola di dolore e di morte che è diventata l’isola. Proviamo a contattare la compagnia aerea con cui tra quattro giorni dovremmo tornare in Italia. Ci rispondono che al momento l’aeroporto è inagibile, ma anche se lo fosse non avrebbero posto sui voli per l’Italia per i prossimi giorni. Valutiamo tutte le alternative, per mare e per aria, ma non ci sono molte possibilità: navi e traghetti non possono attraccare in porto e la nave da crociera in sosta fino a un’ora prima è salpata per evitare di essere danneggiata dai vortici d’acqua. Prendiamo tempo e cerchiamo di capire cos’è meglio fare. Intanto Paola chiama una ragazza di Fondi che lavora in un’agenzia di viaggi. Ci farà sapere se c’è un aereo, un aliante o un disco volante che ci possa strappare da quella che sembra un’isola appena bombardata.

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Un locale del centro storico (Foto di repubblica.it)

L’alba è arrivata e si respira una sinistra aria di quiete. Anche il vento, protagonista assoluto nei tre giorni precedenti che avevamo trascorso sull’isola, si è calmato. Intanto i clienti si sono addormentati sul retro dell’hotel, sui lettini intorno alla piscina, alcuni piegati in avanti in veranda. Avvolti dalle coperte cercano qualche ora di quiete, tra loro anche una ragazza con problemi motori e un anziano. Noi non riusciamo a riposare, anche perché le scosse continuano. Decidiamo di fare due passi. E in quel momento raggiungiamo la consapevolezza che nessuno avrebbe potuto convincerci a continuare la nostra vacanza a Kos. Il negozio di liquori e bibite ha gli scaffali vuoti e due inservienti raccolgono i cocci delle bottiglie ammucchiati sul pavimento. Operai sono al lavoro per liberare le strade dai calcinacci. La banchina si è alzata di una quarantina di centimetri rispetto alla strada che costeggia il porto. Il centro è completamente crollato: intorno a noi solo macerie e sofferenza, occhi colmi di terrore e preoccupazione. Mentre ci riempiamo gli occhi di devastazione, ci arriva una telefonata dall’Italia: la ragazza dell’agenzia di viaggi di Fondi ci ha trovato due posti, gli ultimi disponibili, su di un volo Meridiana per l’Italia, per Bergamo, che partirà con molte ore di ritardo, appena riaprirà l’aeroporto. Dopo averla ringraziata almeno un migliaio di volte, torniamo di corsa in albergo, chiamiamo un taxi, carichiamo i bagagli e andiamo all’aeroporto. Lì troviamo migliaia di persone che attendono di partire. Alcune non hanno il biglietto e probabilmente non riusciranno a lasciare l’isola. Alcune strutture dell’aeroporto sono ancora danneggiate, quindi la protezione civile greca fa sostare le persone sul piazzale antistante, prestandogli la massima assistenza. Chi ha il biglietto potrà partire nel tardo pomeriggio e saranno le hostess di ciascuna compagnia a uscire fuori e a raccattare a uno a uno i passeggeri del loro volo.

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Paola e io sul volo Meridiana per Bergamo

Sono le 10 del mattino e siamo già stremati. Non abbiamo chiuso occhio e ogni tanto barcollo. Paola chiacchiera con due fidanzati olandesi, io intanto scrivo le parole che state leggendo. Poi alle 17 arriva una hostess di Meridiana che chiama i passeggeri del volo per Bergamo. Ci alziamo di corsa, commossi, stanchi, stremati. Imbarchiamo i bagagli ma ancora siamo in tensione. Alle 18 circa saliamo sull’aereo, poi il decollo e la fine di un incubo.

 

Ezio Vendrame, il calciatore a cui non piaceva fare il calciatore

Giampiero Boniperti lo paragonò a Kempes. Altri lo definirono il George Best del nostro calcio. Ma lui fu semplicemente Ezio Vendrame, un talento inespresso e a volte incompreso, genio e sregolatezza del calcio italiano. Nereo Rocco mi dava del pazzo, e la cosa, non lo nego, mi faceva enormemente piacere – ha dichiarato in un’intervista Vendrame – più semplicemente, io amavo giocare a pallone, ma non mi piaceva fare il calciatore.” Vendrame era capace di tutto. Una volta, a San Siro, fece un tunnel a Gianni Rivera e poi gli chiese subito scusa. “Perché Gianni era un artista del pallone, e umiliarlo così…mi dispiacque tantissimo. D’altra parte un po’ fu anche colpa sua, lui allargò le gambe, e chi allarga le gambe, nel calcio come nella vita, ti spinge sempre a fare qualche cosa”.

Classe 1947, sangue friulano, Vendrame esordì in serie A nel 1971, con il Lanerossi Vicenza. La sua aria da hippie, capelli lunghi e barba folta, lo fece diventare nel giro di poco tempo un idolo della tifoseria biancorossa. Ezio era capace di alternare giocate di alta classe a prestazioni sotto tono. Dopo tre anni con la maglia biancorossa passò al Napoli, con cui giocò appena tre partite in tutto il campionato. Pare che alla base di questa esclusione ci fosse il rapporto travagliato con l’allenatore Luis Vinicio. “Vinicio non sopportava che 20-30 mila napoletani venissero a vedermi allenare – ha raccontato Ezio qualche anno fa – e che alla domenica 80mila andassero in visibilio per le mie sgroppate”. E su Napoli ha aggiunto: “Una città meravigliosa, gente bellissima e poi mi sono scopato il meglio del meglio, questa allora come sempre una delle mie partite più sentite”.

Ma ciò che rimarrà negli annali del calcio, saranno le gesta di Ezio Vendrame sul rettangolo di gioco. Però sarà impossibile dimenticare anche la sua passione per le donne, che più di qualche volta compromise le sue prestazioni sportive. “Fare il calciatore ti poneva al centro dell’attenzione. Avere delle donne era facilissimo, e io non mi tiravo certo indietro, anzi…”. Parola di Ezio.

Uno dei tanti episodi di cui si rese protagonista accadde mentre giocava

Ezio Vendrame oggi

con il Vicenza. In un’azione di contropiede, Vendrame venne a trovarsi a centrocampo senza avere davanti compagni da servire. Allora salì con entrambi i piedi sulla palla e si portò le mani alla fronte per scrutare l’orizzonte. Ma l’episodio più noto risale alla stagione 1976-77, quando giocava in serie C con la maglia del Padova. La partita era Padova-Cremonese e il risultato era già stato concordato prima di scendere in campo. Ezio, insofferente a questo tipo di combine, trovò il modo per ravvivare un incontro noioso con una delle sue trovate eclatanti. E con il suo gesto causò involontariamente anche una tragedia. “Lo ricordo fin troppo bene. Giocavo nel Padova, contro la Cremonese. In campo avevano deciso la ‘torta’, che a me proprio non andava giù. Non potevo certo prendermela con gli avversari e puntare verso la loro rete. Così, dal centro del campo, feci dietro front e puntai verso la nostra area. Qualche compagno, ripresosi dallo spavento, mi si fece incontro ma io lo dribblai, fino a trovarmi a tu per tu con il nostro portiere. Solo a quel punto, e dopo aver fintato il tiro, stoppai invece il pallone con la pianta del piede. Ricordo il sospiro come di sollievo di tutto lo stadio… Solo a fine partita seppi del dramma: un tifoso si era spaventato a tal punto da morire di infarto.”

Un’altra volta, invece, dinanzi alla proposta di giocare male la partita contro l’Udinese, la sua ex squadra che stava lottando per la promozione dalla C alla B, inizialmente accettò un’offerta di 7.000.000 per una “prestazione scadente”. La sua squadra, il Padova, in quei giorni navigava in cattive acque finanziarie. I premi partita erano i minimi stabiliti dalla FIGC: 22.000 lire a punto. Una volta entrato in campo, però, Vendrame fu fischiato dai suoi ex tifosi. Così decise di “…punire quel pubblico di ingrati…affanculo i sette milioni, viva le 44.000 lire”. Ezio segnò una doppietta e il Padova vinse 3 a 2. Uno dei due goal lo realizzò dalla bandierina del corner, dichiarando al pubblico che avrebbe segnato. Ma prima di calciare si soffiò il naso con la bandierina. Qualche anno più tardi giustificò così quel gesto: “Vi pare bello vedere quei giocatori che si puliscono il naso con le mani? Ero lì per battere un calcio d’angolo, e mi sembrò più fine, se vuoi anche più educativo, usare la bandierina a mo’ di fazzoletto…. “

Dopo essersi ritirato dal calcio, Ezio si rifugiò nella campagna friulana a coltivare i suoi hobby. Ancora oggi scrive poesie e suona la chitarra. Ha

Copertina del libro “Se mi mandi in tribuna, godo”

pubblicato anche parecchi libri, che consiglio vivamente di leggere a chiunque volesse conoscere meglio la sua filosofia di vita. In questi anni ha allenato anche le squadre giovanili del Venezia e della San Vitese. Pare che, ogni volta che comincia ad allenare una nuova squadra, il discorso di iniziazione sia questo: “Cari ragazzi, buttate nel cesso le vostre playstation e rinchiudetevi nei bagni con un giornaletto giusto in bella vista. Quando uscite, innamoratevi di una bella figliola: il sesso fai da te è bello, ma quello con una coetanea è meglio”. Questo è Ezio Vendrame, genio e sregolatezza. Nel calcio e nella vita.

N.B. I virgolettati sono stati da me estrapolati dall’intervista rilasciata da Ezio Vendrame a Fabrizio Calzia e da una recensione di Sebastiano Vernazza.

La triste storia del portiere Giuliano Giuliani: dai trionfi alla malattia

A cavallo tra gli anni Ottanta e i Novanta, il mondo del cinema, della musica e dello sport non restarono immuni dall’incedere prepotente dell’AIDS. Nel 1985, l’attore Rock Hudson ammise pubblicamente di essere malato.

Giuliano Giuliani

Nel 1991, Freddy Mercury dichiarò di aver contratto l’AIDS e morì appena ventiquattro ore dopo l’annuncio. Anche il mondo dello sport venne toccato dal virus. Sempre nel 1991, il grande giocatore dell’NBA, Magic Johnson, annunciò al mondo di doversi ritirare dalle scene per aver contratto l’HIV. Oggi Johnson è ancora vivo e vegeto. Ed è uno dei maggiori sostenitori della lotta contro l’AIDS, nonché la prova vivente che le prospettive di vita dei contagiati si sono allungate.

Purtroppo, però, ci sono stati anche sportivi che non ce l’hanno fatta. Pochi giorni fa mi è capitato di leggere un articolo di qualche anno fa in cui si diceva che anche nel calcio italiano c’erano stati alcuni casi di AIDS. Allora mi sono ricordato di Giuliano Giuliani, portiere del Napoli dello scudetto nella stagione ‘ 89-90 e vincitore della coppa Uefa, che morì a metà degli anni Novanta nel silenzio più assoluto. Giuliani era una persona schiva, timida, introversa. Amava stare in disparte, coltivare interessi e lanciarsi in nuove attività. Era anche appassionato di pittura.

Dopo lo scudetto dell’89’-90 e la Coppa Uefa, Giuliani fu costretto ad andare via da Napoli. Una serie di dicerie investirono la sua famiglia, la moglie Raffaella e la piccolissima figliola Jessica. Anche i compagni di squadra cominciarono a non avere più fiducia in lui. Secondo loro, Giuliani si allenava troppo poco e per questo non si sentivano sicuri con lui in porta. Così scappò da Napoli e si trasferì a Udine per giocare con l’Udinese.

Nel 1992, un quotidiano uscì con un titolo affilato più di una lama di coltello: “Giuliani ha l’Aids”. Il portiere non replicò e, dopo lo scalpore iniziale, la questione finì lì. Intanto Giuliani, nel 1993, venne arrestato per aver acquistato cocaina a fini di spaccio. Nello stesso anno si ritirò dal calcio giocato. Poi nel 1994 venne processato e poi assolto dalle accuse di spaccio di droga.

Intanto, però, il male lo consumava. Sempre nel silenzio, perché Giuliani era così timido che non ce l’avrebbe fatta a confessare al mondo che era malato. La mattina del 14 novembre del 1996, dopo aver accompagnato Jessica a scuola, il portiere dai lunghi capelli ricci si recò al Policlinico Sant’Orsola di Bologna, al reparto di malattie infettive per un improvviso peggioramento delle sue condizioni di salute. Nel corso di quell’anno era già stato ricoverato in altre due occasioni. Questa volta, però, Giuliani non uscì vivo dal policlinico. E morì a soli 38 anni. Le comunicazioni ufficiali parlarono di complicazioni polmonari. Nemmeno un cenno alla malattia che aveva generato queste complicazioni.

Pochi mesi fa l’ex moglie del portiere, Raffaella Del Rosario, che lo assistette negli ultimi giorni della sua vita, nonostante si fossero lasciati qualche anno prima, ha finalmente parlato della vicenda con un noto quotidiano italiano. «… forse a distanza di tanto tempo si può fare outing per la prima volta. Anche per chiarezza e informazione. Per aiutare i giovani a non sbagliare. Giuliano è morto di Aids», ha raccontato Raffaella Del Rosario, ex fotomodella con esperienze di conduttrice televisiva al fianco di Maurizio Mosca. La Del Rosario ha chiarito per la prima volta le voci che giravano nell’ambiente del calcio su come Giuliani avesse contratto la malattia. Tipo quella che si sarebbe ammalato al matrimonio di Maradona. «Potrebbe essere – racconta Raffaella – nessuno l’ha mai saputo. Nessuno lo saprà. Sicuramente è stato un contagio sessuale con una donna. La droga non c’entra nulla». Ma la cosa che fece male all’ex-moglie e alla famiglia di Giuliani fu la reazione di diffidenza, paura e distacco del mondo del calcio al momento della scomparsa del portiere. «Tuttora nessuno ricorda più Giuliano, – ha concluso Raffaella Del Rosario – nessuno parla più di lui. Solo perché l’Aids è una malattia scomoda, dà fastidio in un ambiente come quello del pallone. E tutto questo mi ferisce, mi amareggia. Non è giusto».

“Rock & Servizi segreti” – Quando Zappa fu arrestato per aver composto le musiche di un film porno.

Intorno alla metà degli anni sessanta, il rock spaventò l’establishment politico degli Stati Uniti. I governanti cominciarono a temere la capacità

Copertina del libro di Mimmo Franzinelli

aggregativa della musica e cercarono di impedire in qualsiasi modo che questa divenisse un veicolo di contestazione del sistema. Così molti musicisti finirono sotto tiro e divennero sorvegliati speciali. A riguardo Mimmo Franzinelli ha svolto un attento lavoro d’indagine raccolto nel libro “Rock & Servizi segreti – Musicisti sotto tiro: Da Pete Seeger a Jimi Hendrix a Fabrizio De André” (Bollati Boringhieri, pp. 232, euro 16,00). Analizzando le migliaia di pagine di rapporti redatti dalla CIA e dall’FBI, resi pubblici dopo trent’anni, lo scrittore ha ricostruito le operazioni di spionaggio e le campagne di discredito svolte dall’intelligence americana a discapito di musicisti del calibro di John Lennon, Jimi Hendrix, Frank Zappa, Pete Seeger, Jim Morrison e molti altri. Questi grandi esponenti della scena musicale mondiale vennero sospettati di essere promotori di campagne destabilizzanti per l’ordine pubblico degli Stati Uniti. Nei loro confronti ci fu un’autentica persecuzione, promossa e orchestrata dal Presidente Nixon con la complicità del discusso capo dell’FBI, Edgard Lee Hoover. Proprio quest’ultimo ebbe il compito di ostacolare in tutti i modi l’attività degli artisti “scomodi”. Anche con metodi illeciti. Alcuni di loro furono tratti in arresto con le scuse più banali. Frank Zappa, per esempio, fu imprigionato per aver composto le musiche di un film porno. Nei confronti di altri musicisti vennero inventate alcune prove ad hoc per screditarli o per metterli contro i giovani dei movimenti. Altri vennero spiati in maniera ossessiva. Spesso il controllo diventava così pressante ed evidente da indurre alcuni di loro al suicidio. Come nel caso del musicista Phil Ochs che, dopo aver raggiunto livelli incontrollati di depressione e paranoia, si tolse la vita. Nel libro viene evidenziato, sempre grazie ai documenti raccolti, come alcuni artisti godessero del favore dell’FBI. Tra questi anche Elvis Presley che, nonostante fosse un consumatore abituale di droghe, pare ambisse a un ruolo di agente segreto. Per quanto riguarda il nostro paese, nonostante ancora non sia caduto il segreto istruttorio, Franzinelli è riuscito a venire in possesso di documenti, redatti dai servizi segreti, riguardanti l’attività di Fabrizio De Andrè. Ai tempi, il cantautore genovese fu addirittura sospettato di essere un finanziatore delle Brigate Rosse. “Un’immagine totalmente fantastica, quella tratteggiata dai rapporti segnaletici – scrive Franzinelli a proposito – frutto di ottusità e pregiudizi, oltre che di abissale incomprensione per una tra le più straordinarie voci del nostro tempo”.

Astutillo Malgioglio, il volto pulito del calcio

Astutillo Malgioglio è stato un calciatore, un portiere di serie A. Ha giocato con squadre del calibro della Roma, della Lazio e dell’Inter. La sua carriera da professionista è durata circa quindici anni, dal 1977 al 1992. Un calciatore atipico: niente macchine potenti, niente ville sfarzose, niente donne facili. Astutillo decise di non dissipare il proprio denaro in beni e svaghi effimeri. Preferì fare qualcosa di utile per gli altri, dando una mano

Astutillo Malgioglio con la maglia dell’Inter

ai bambini affetti da distrofia muscolare. Dopo essersi specializzato nello studio dei problemi motori, nel 1977 cominciò ad accudire bambini affetti da distrofia muscolare. Per questo investì i propri soldi nel centro ERA 77, una palestra che attrezzò con macchine adeguate a prestare le cure a questi bambini.

Nel 1985 andò a giocare con la Lazio, dopo aver militato qualche anno nella Roma. I tifosi biancocelesti non potevano perdonargli l’affronto di aver vestito la maglia dell’odiatissima squadra rivale. Così, partita dopo partita, non perdevano occasione di stuzzicarlo, ricordandogli che era stato uno “sporco romanista”.

Il 9 marzo del 1986, come ogni domenica, Malgioglio scese in campo per difendere la porta della Lazio. Quel giorno i biancocelesti affrontavano il Vicenza. Ad accoglierlo, però, questa volta non furono solo i cori che gli sottolineavano ancora una volta la sua militanza nella Roma. Ci fu anche uno striscione: “Tornatene dai tuoi mostri”. I mostri erano i bambini assistiti da Astutillo. Posso solo immaginare cosa sia successo nella testa e nel cuore di Malgioglio. Il

Astutillo Malgioglio quando giocava nella Roma

tumulto che quello striscione avrà smosso dentro di lui.

No, il giocatore non poteva sopportare questo affronto ai suoi bambini. “Insultate me, ma lasciate stare i “miei” bambini”, avrà certamente pensato in quel momento. La partita ebbe inizio. Malgioglio, distratto e confuso dal disprezzo con cui era stato accolto, prese due goal ingenui, probabilmente evitabili. In quei minuti d’inferno, tra cori, striscioni e avversari che approfittavano di quella giornata no, prese la decisione di farla finita con il calcio. Non poteva sopportare che qualcuno toccasse i suoi “amici fragili”. Così, al fischio finale, Astutillo si tolse la maglietta della Lazio e ci sputò sopra. Poi la gettò verso la curva e uscì dal campo. Pochi giorni dopo rescisse il contratto con la Lazio. E decise di congedarsi per sempre dal mondo del calcio.

Passata da poco tempo quella brutta domenica, gli arrivò la telefonata di Giovanni Trapattoni. Lo voleva assolutamente all’Inter come vice di Walter Zenga. Dopo qualche titubanza, Malgioglio accettò. All’Inter ebbe modo di riscattarsi. Il suo impegno con i bambini distrofici venne appoggiato e incoraggiato da tutti. Dalla dirigenza ai compagni di squadra. Astutillo trovò addirittura alcuni compagni disposti a dargli una mano. Su tutti Jurgen Klinsmann, che fu coinvolto in diverse cene di beneficienza. Nel 1989 arrivò anche lo scudetto dell’Inter. Una grande soddisfazione per un atleta generoso, che era stato ingiustamente maltrattato dal mondo del calcio. Il giusto risarcimento per le sofferenze patite qualche anno prima.

Poi arrivò il ritiro definitivo dalla scena del calcio. Questa volta sul serio. Era il 1992. Astutillo aveva 34 anni e militava nell’Atalanta.

Dopo aver lasciato la carriera agonistica, Malgioglio continuò a gestire il suo centro per la riabilitazione dei bambini distrofici. Ma i soldi finirono in pochissimi anni. Così fu costretto a chiudere Era 77 e a regalare i costosissimi macchinari che aveva acquistato. Per un po’ continuò a fare assistenza gratuita a domicilio. Poi la salute smise di assisterlo e fu costretto ad abbandonare anche questo ultimo stralcio di attività.

Ancora oggi pare che la sua salute non sia delle migliori. Di lui si sa pochissimo. Ma una cosa è certa, quando vedo giocatori capricciosi che passeggiano per il campo, che sfrecciano sulle loro auto potenti, che si mettono in posa davanti ai fotografi con la velina di turno, beh, non posso fare a meno di pensare ad Astutillo Malgioglio. Sì, penso a lui. E mi consolo. Perché rivedo davanti agli occhi qualcosa di più di un atleta, un giocatore, un portiere. Vedo il volto pulito del calcio.

Mussolini stava tentando di fuggire in Spagna

Sul numero di ottobre della rivista dell’ANPI, “Patria indipendente”, è stato pubblicato il testo integrale dell’autopsia eseguita dal professor Cova sul Franco e Mussolinicorpo di Benito Mussolini poche ore dopo la sua morte. Nella tasca posteriore dei pantaloni indossati dal Duce al momento della fucilazione, il professor Cova rinvenne una busta gialla con una lettera scritta su carta  intestata del consolato spagnolo di Milano. Dalle informazioni contenute nella missiva pare che Mussolini e Claretta Petacci stessero tentando di fuggire in Spagna sotto falso nome e che la Svizzera fosse semplicemente una prima tappa per poi riparare nel paese di Franco.

Per chi volesse approfondire l’argomento…

http://www.anpi.it/media/uploads/patria/2010/patria_08_2010.pdf