Paolo Pietrangeli, tra Contessa e Valle Giulia – L’intervista

Questa intervista con Paolo Pietrangeli l’ho realizzata nel 2011 per il mio libro “Il Tempo della musica”. La ripropongo qui perché, come tutte le interviste ai protagonisti di Cantacronache e del Nuovo Canzoniere Italiano, rappresenta una  preziosa testimonianza di un mondo che non c’è più.

Da sinistra Francesco Guccini, Paolo Pietrangeli, Giovanna Marini.

Una laurea in filosofia. Una storia musicale iniziata nel 1966, con l’assassinio di Paolo Rossi. “Grazie a quella canzone ho fatto un mestiere straordinario, ho conosciuto persone che altrimenti non avrei mai incontrato, ho visto luoghi che non avrei mai visitato”. In quegli anni Paolo, figliolo del regista Antonio Pietrangeli, cominciava a sentire l’aria di rivoluzione che tirava dopo gli anni del boom economico. Così iniziò a scrivere canzoni dal contenuto socio-politico, diventando a poco a poco uno dei rappresentanti della canzone di protesta. I giovani sessantottini lo adottarono come uno dei “loro” cantautori. Alcune canzoni divennero la colonna sonora delle agitazione. Paolo Pietrangeli scrisse quelli che divennero gli inni della contestazione universitaria, “Valle Giulia” e “Contessa”. Le due canzoni videro l’interpretazione, come seconda voce, di Giovanna Marini. La prima fu ispirata dagli scontri tra studenti e forze dell’ordine all’interno della facoltà di architettura dell’università di Roma. Quel grave episodio, avvenuto il primo marzo 1968, fu il focolaio di una rivolta molto più ampia che sarebbe scoppiata dopo pochi mesi. La canzone descrisse, senza lasciare troppo spazio alle metafore, cosa avvenne in quella giornata. Uno scontro aspro e inusuale, visto che gli studenti fino a quel momento non erano mai arrivati a un contatto così diretto con le forze di polizia.  Non siam scappati più, non siam scappati più, recitava il ritornello. In quel momento Pietrangeli si trovava in facoltà insieme ad altri giovani “rivoluzionari”. Ma la canzone cult del repertorio di Paolo Pietrangeli, che ancora oggi sopravvive all’usura del tempo e delle rivoluzioni, è certamente “Contessa”. L’intramontabile colonna sonora del ’68 italiano fu ispirata da un episodio casuale, una conversazione captata in uno sciccoso caffè di Roma. “Contessa” rappresenterà uno degli esempi di canzone popolare, che sottolinea l’avvicinamento e il muoversi in maniera coordinata delle lotte studentesche e quelle operaie. Nel 1969, infatti, sarà la volta dell’autunno caldo che “incendierà” le fabbriche. Pietrangeli, dopo il grande successo di “Contessa”, continuò a scrivere canzoni. Ma verso la fine degli anni Sessanta cominciò a occuparsi anche di cinema. Fu aiuto regista di Mauro Bolognini, per poi lavorare, negli anni successivi, con Luchino Visconti e Federico Fellini. Il suo nome, ancora oggi, è saldamente legato a “Contessa”. Una profonda sensibilità e una malcelata timidezza. La lotta. L’intolleranza per l’ingiustizia sociale. Pare che di recente abbia anche dichiarato: “Tutti mi attribuiscono canzoni politiche, ma io credo di aver scritto sempre e solo brani su persone o fatti che mi stavano a cuore“.

Giovanni Straniero e Mauro Barletta raccolsero, qualche anno fa, una dichiarazione di Paolo Pietrangeli riguardante l’opportunità o meno di parole forti come quelle di Contessa e di altre sue canzoni. “È chiaro che quando scrissi Contessa – diceva Pietrangeli – non c’era il terrorismo. Adesso dovrei pesare più col bilancino le parole, ma all’epoca, se si diceva <<facciamo la rivoluzione>>, non è che si pensasse a sparare”.

Paolo Pietrangeli nel 2019

Paolo, quando ha cominciato a scrivere canzoni?

Avevo quattordici anni. Cinquanta anni fa. Un’abitudine che risale alla mia adolescenza.

Come è venuto a contatto con la canzone sociale e di protesta?

Quando mio padre portò a casa i dischi di “Cantacronache”. Nel ’64, poi, quando era già nato il Nuovo Canzoniere Italiano, fecero lo spettacolo “Bella ciao”. E da lì cominciai a seguirli. Mi intrigò moltissimo quel modo di cantare. Era un periodo in cui la canzone italiana classica era insopportabile, una canzone smielata. C’era un velo di novità perché finalmente la canzone era legata alla realtà circostante. Nel ’66, i miei amici mi portarono alla libreria Rinascita dove il Nuovo Canzoniere Italiano presentava “La linea rossa”, una linea editoriale fatta su quarantacinque giri. Con quella produzione volevano conquistare un mercato che non si conquistò mai. Quel giorno registrai tutto quello che avevo a disposizione, ma persero il nastro. Così i miei amici, che erano più cocciuti di me, mi portarono a casa di Giovanna Marini. Lì registrammo di nuovo tutte le mie canzoni e passammo un bellissimo pomeriggio. Io registrai tutto quello che avevo fatto fino a quel momento. Questo nastro fu mandato a Milano. Appena lo ascoltò, Gianni Bosio disse a Giovanna di portarmi da lui. Siccome qualche giorno dopo a Venezia era in programma lo spettacolo “Terra e Acqua”, da Roma presi il treno per la città lagunare. Da quel treno non sono mai più sceso. Ecco come sono entrato nel Nuovo Canzoniere Italiano.

Che ricordo ha di Gianni Bosio?

Era una persona che mi metteva in soggezione. Devo dire molto severa. Poi, conoscendolo, negli anni ho capito che la sua era timidezza. Uno storico di grande spessore, molto acuto. Uno dei primi a capire che la storia non era fatta solo di trattati di pace e guerre, ma di usi, costumi, tradizioni. Fu illuminante. Così nacque una bella amicizia, che si interruppe presto perché morì per un attacco di appendicite.

La canzone “Contessa” è stata il punto di riferimento della gioventù sessantottina. In che circostanze nacque?

Io ero studente di Filosofia. Ci fu l’uccisione di Paolo Rossi, che non era un calciatore, ma uno studente che venne gettato giù dalla scalinata della facoltà di Lettere e Filosofia e morì sbattendo la testa. Questo fatto incendiò le coscienze di tanti. Così cominciarono manifestazioni e occupazioni.  I fascisti, che fino a quel momento avevano spadroneggiato, vennero cacciati dall’università. Questa occupazione io non la vissi completamente perché i miei genitori erano molto severi. Erano contrari all’idea che io dormissi fuori. Quindi facevo un’occupazione part-time. E questo innescò nella mia coscienza parecchi sensi di colpa. Così scrissi questa canzone. Credo che sia l’ultimo esempio di canzone che si è tramandato di bocca in bocca, senza l’aiuto delle radio e dei mezzi di comunicazione.

L’episodio di via Veneto, che spesso si sente raccontare, è vero?

Non era in via Veneto, ma a piazza Istria. Vicino casa mia. Precisamente al bar Negresco, frequentato da generali in pensione e persone che non appartenevano certo al popolo. Insomma non dalla gente comune. In quei giorni, ogni volta che ci si affacciava al bar, si origliavano discorsi insopportabili nei confronti degli studenti che stavano occupando le università. Così scrissi”Contessa”.

Cosa la spinse a scrivere degli episodi di “Valle Giulia”?

La storia di Valle Giulia è molto semplice. Partecipai alla manifestazione e assistetti agli scontri. E appena tornato a casa cominciai a scrivere questa canzone che vide la sua versione definitiva dopo quattro cinque giorni.

Sia in “Valle Giulia” che in “Contessa” ‘appare’ sempre la voce di Giovanna Marini. Come mai?

Perché ai tempi non ero iscritto alla SIAE. Ecco perché fu coinvolta Giovanna, anche se poi divenne parte fondamentale di quella canzone con il suo riff di chitarra.

E dell’esperienza con il Nuovo Canzoniere Italiano che cosa ricorda?

Avevamo un modo di procedere straordinario. Da una parte c’eravamo noi che eravamo il cosiddetto braccio armato, andavamo a cantare e racimolavamo qualche soldo che poi davamo all’Istituto Ernesto de Martino per continuare questo lavoro di ricerca. Noi eravamo degli intellettuali che andavano in giro a cantare e non cantanti in cerca di un posto di lavoro. Le nostre riunioni milanesi ci facevano sentire parte di un gruppo. E poi, in un periodo in cui c’era una tendenza alla divisione della sinistra, noi tentavamo di tenere insieme tutta la sinistra, dai socialisti agli autonomi.

Torniamo alle sue canzoni. Come la prese la sua famiglia sapendo che lei era uno dei punti di riferimento musicali della protesta?

Inizialmente non capirono. Un giorno origliai un discorso tra mio padre e mia madre. Dicevano che io non avevo né arte né parte e che avrebbero dovuto camparmi loro per tutta la vita. Però li sentii dire, riferendosi a “Rossini”: “però quella canzone è piena di talento”. Questo è un ricordo bellissimo.

In quegli anni stavano uscendo fuori Fabrizio De Andrè e Francesco Guccini. Il primo si dichiarò anarchico, l’altro invece era molto più schierato. Come vedevate voi cantautori il loro ingresso nell’ambiente musicale?

Era un altro percorso, assolutamente legittimo. Li giudicavamo dalla simpatia e l’antipatia. Loro facevano un mestiere, quello di scrivere canzoni e testi. E cercavano di far fruttare la propria arte. Nessuno di noi, invece, aveva intenzione di fare il cantante, né credeva di esserne in grado.

Poco tempo fa è venuto a mancare Ivan Della Mea. Che ricordo ha di lui?

È come se fosse scomparso un pezzo di me, nonostante vivessimo in città diverse e avessimo spesso punti di vista contrastanti su molti argomenti. Una settimana prima che morisse ci eravamo fatti una cantata insieme a Montevarchi, a testimonianza che c’era un grandissimo legame tra di noi. Ivan era così, pieno di chiusure, ombroso, poi però era capace di grandissimi slanci. È stato un talentuoso poeta dialettale. Le cose che ha scritto sono le migliori della letteratura italiana, non solo della canzone.

Nonostante siano trascorsi molti anni, come spiega che ancora oggi una canzone come “Contessa” venga ricordata e cantata da molti giovani?

Perché non ne hanno fatte altre.

Giovanna Marini, una vita per il canto sociale – L’intervista

Giovanna Marini

6 ottobre 2009. Ore 16.45. Per le strade di Roma sembra primavera. Ho un appuntamento al bar di Testaccio con una delle musiciste più rappresentative del Nuovo Canzoniere Italiano e della musica popolare in generale: Giovanna Marini. Arrivo con dieci minuti di anticipo. Non voglio farla attendere. Anche lei arriva in anticipo. Così alle 17 siamo già seduti al tavolino del bar. Giovanna è conosciutissima dai clienti del bar, perché insegna alla scuola di musica popolare di Testaccio, che si trova proprio lì a pochi passi. Ogni persona che entra la saluta con affetto. Dopo aver ordinato il suo solito tè, cominciamo la nostra chiacchierata. Ma iniziamo dalla fine. Da Ivan Della Mea, un compagno, un amico scomparso da pochi mesi. Ne parla con rimpianto. “Eravamo tutti molto preoccupati per lui. L’avevo visto pochi giorni prima a Bergamo. Era amareggiato e stanco. La malattia l’aveva logorato”, mi dice, “i suoi erano problemi di salute anche gravi ma, se li avesse tenuti sotto controllo, poteva conviverci tranquillamente. E invece lui si è lasciato andare”. La sua voce è un misto di rabbia e commozione. Chiudo subito l’argomento perché vedo che Giovanna è commossa e mentre sorseggia il tè dice: “Dopo la morte di Ivan sono rimasta sola”.  Comincio così a farle un po’ di domande sulla storia del Nuovo Canzoniere Italiano.

Come e quando è iniziata la tua avventura con il Nuovo Canzoniere Italiano?

È iniziata nel 1963. Con un incontro avuto con Roberto Leydi, che era venuto a Roma a sentirmi al Folkstudio. A quel tempo suonavo musica classica con la chitarra e ogni tanto mi azzardavo a cantare le ballate francesi e inglesi. Io ho trascorso gran parte dell’infanzia in Inghilterra, quindi ero molto influenzata da quel tipo di cultura musicale. In più avevo mia nonna che era francese. Quando venne Roberto ad ascoltarmi, cantai delle canzoni antiche dell’alta Savoia. Leydi rimase molto colpito e mi chiese di andare a Milano a registrarle. Da quel momento è iniziata la mia esperienza con il Nuovo Canzoniere Italiano. Ma io non sapevo nemmeno cosa fosse il canto popolare. Leydi mi aprì la porta su un mondo nuovo. Grazie a lui venni a contatto con Gianni Bosio e Ivan Della Mea, persone fondamentali per la mia crescita artistica.

Erano i primi anni Sessanta. Che clima c’era per le strade?

Ricordo poco del clima italiano dei primi anni Sessanta. Ero appena tornata dall’America. Mi ricordo che lì era appena morto Kennedy, cominciavano le prime contestazioni contro la guerra in Vietnam. Era un’America vivissima, interessante. Con le lotte razziali nel Sud. Tornando in Italia ho trovato un clima vivacissimo, in cui sembrava ci fosse spazio per un messaggio, per dire delle cose. A noi ci chiamò un funzionario del PCI di Torino, che ci voleva mettere a disposizione un camion per andare a cantare le canzoni del nostro repertorio davanti alle fabbriche. Oggi, una cosa del genere non potrebbe mai accadere.

Tu hai frequentato intellettuali del calibro di Pasolini. Ma più determinante di tutti gli altri è stato l’incontro con Peppino Marotto.

Sì. Peppino era un poeta. Io e Franco Coggiola lo andavamo a trovare spesso. L’ultima volta ho visto anche lui molto stanco, perché andare controcorrente logora. Nel suo paese erano cresciuti problemi legati all’abusivismo, all’invasione del cemento. Peppino lavorava alla Camera del Lavoro di Orgosolo. Era una persona che voleva fare le cose per bene. Chissà contro chi si era messo. Alla fine l’hanno ucciso con cinque colpi di fucile, due anni fa circa, mentre acquistava il giornale. Peppino è stata una delle persone che mi ha fatto appassionare al canto popolare, insieme a Matteo Salvatore e alla mamma di Luigi Chiriatti.

Il tuo esordio con il Nuovo Canzoniere Italiano risale allo spettacolo “Bella Ciao”, tenutosi a Spoleto. Cosa ricordi di quella esibizione?

È stata una scoperta per me. In quella occasione ho conosciuto Caterina Bueno e ho capito dove ero capitata. Fino a quel momento erano dei simpatici amici. Con “Bella Ciao” ho compreso il tipo di impegno politico e il lavoro di ricerca che svolgevano. È stato molto importante quello spettacolo per comprendere a pieno la strada intrapresa dal Nuovo Canzoniere Italiano. La cosa che mi colpì di più fu il clamore del pubblico. Non avrei mai pensato che fosse così indignante ciò che cantavamo. Si incazzarono proprio. Io ero stupitissima, anche perché, essendo musicista, non facevo molto caso alle parole, mi sono sempre interessata di più alla musica, all’armonia, alla linea melodica. In quel caso io sentivo tutti che urlavano e non capivo perché. Michele Straniero fu contestato appena cantò la strofa di “O Gorizia tu sei maledetta”, che diceva ‘traditori signori ufficiali’. Capirai, là era un mondo di ufficiali, della gente dell’alta borghesia che non concepiva gli si cantassero queste cose. Addirittura erano indignati pure per la presenza di Giovanna Daffini, perché era una contadina.

Poi c’è stato, alla fine del 1965, “Ci ragiono e canto”, diretto da Dario Fo.

A quello spettacolo parteciparono anche i pastori di Agius. Io mi affezionai molto a quelle persone perché erano molto diverse da me. Pure con Pietrangeli ci conoscemmo nel 1965. Lui arrivò con un codazzo di amici. Frequentava ancora il terzo liceo.

In un’occasione tu decidesti di non salire sul palco e venisti sostituita. Come mai?

Ah, sì. A Spoleto qualche anno dopo. Io dovevo fare la voce per uno spettacolo di Berio, ma non me la sentivo proprio. Da una parte la paura di non essere all’altezza, all’epoca arrivavo con la voce al si bemolle, dall’altra avevo i bambini e per di più insegnavo. Così gli scrissi una lettera per spiegargli il motivo della mia rinuncia, mettendo avanti una scusa ideologica dicendo che non sarei voluta tornare a Spoleto, dove qualche anno prima ci avevano contestato, nelle vesti di gregaria. Ma la motivazione reale era molto più semplice e pratica.

Come vedevate i nuovi cantautori che stavano uscendo in quegli anni?

Io ho conosciuto De Andrè, Guccini, De Gregori e Venditti. Con De Gregori c’è stata immediatamente una grande simpatia e lo mandai da Caterina Bueno a suonare la chitarra con il suo gruppo perché lui voleva uscire di casa e gli servivano i soldi. Lui scriveva canzoni e cercava da noi il lancio. Io gli dissi subito che il Nuovo Canzoniere non poteva permetterselo e che noi avevamo avuto la fortuna di ritrovarci sui giornali per il casino che era scoppiato a Spoleto, così eravamo riuscita a ottenere un po’ di pubblicità. Poi lui, in tempo di contestazione, si presentava con “Buonanotte fiorellino” perché Francesco è stato sempre bastian contrario. E lo è tutt’ora. Gli secca terribilmente essere all’unisono con gli altri. È il suo carattere. È una persona molto seria e onesta a cui voglio molto bene. Guccini l’ho conosciuto durante un Festival. Una persona molto colta, simpatica. Mentre De Andrè lo conobbi a Milano nello studio di Nanni Ricordi. Ero andata da Nanni per fargli ascoltare le mie canzoni. Lui mi disse che erano troppo colte, troppe distinte dal resto. E mi disse: “Giovanna, adesso ti faccio sentire uno che fa canzoni buone”. Era un giovane timidissimo, con la sua chitarra e i capelli che gli coprivano gli occhi. Era Fabrizio De Andrè. Ascoltai “Via del campo” e dissi a Nanni: “il testo è bellissimo, ma per la musica potrebbe fare di più ‘sto ragazzo’”. (Ride)

Come mai non avete mai ceduto alle lusinghe del mercato?

Devo dire la verità. Ai tempi mi chiamò la RCA per farmi un contratto, ma io rifiutai perché avevo paura di perdere i miei amici, che erano tutti puri e duri. Mi sentivo giudicabile. Soprattutto da Ivan (Della Mea). Quindi preferii restare con le Edizioni del Gallo. Non guadagnavo una lira con loro, però mi piaceva di più la situazione. Io sono contenta così. Non è una coerenza di tipo puro, ideologica, è legata ad alcune coincidenze.

Perché finì l’esperienza del Nuovo Canzoniere Italiano?

L’esperienza del Nuovo Canzoniere è andata scemando. Si è diluita. La morte di Gianni Bosio e di Giovanni Pirelli credo che siano state determinanti. Il primo aveva le idee, mentre il secondo investiva il denaro in questa avventura. La loro scomparsa ha accelerato molto la fine di questa esperienza. Adesso siamo rimasti io, Paolo, Bertelli e Portelli. La morte di Ivan è stata un duro colpo.

Insieme a Paolo Pietrangeli, tu sei l’unica che ha continuato a fare musica. Quanto è cambiato da allora l’approccio verso la musica popolare?

Moltissimo. I DAMS hanno permesso la formazione di giovani musicologi, i quali hanno portato il canto popolare nell’accademia. Svolgono ricerche, studi, non perdono di vista i cantori. Loro sono diventati dei professionisti nel campo. Noi basavamo le nostre ricerche più sui rapporti di amicizia che su basi professionali concrete.

In libreria la nuova edizione di “Franco Califano. Non escludo il ritorno”

A oltre dieci anni dalla scomparsa del Maestro, il 19 febbraio arriva in libreria e nei negozi on line la nuova edizione del mio libro “Franco Califano. Non escludo il ritorno” (Diarkos), arricchita di contenuti. In primo piano sempre i suoi capolavori raccontati di pari passo con la sua vicenda umana. Oltre alle testimonianze di Alberto Laurenti, Frank del Giudice e Pino Presti, questa nuova edizione contiene interviste inedite a vari artisti, ma soprattutto i ricordi speciali di Antonello Mazzeo e Donatella Diana, amici e collaboratori di Franco Califano, persone che hanno condiviso con lui gioie e dolori di una vita straordinaria. E oggi, attraverso la Trust Onlus e la casa-museo a lui intitolata, insieme ad altri storici collaboratori continuano a diffondere la sua arte e a far conoscere il vero volto del Califfo.

I cavalieri dell’intelletto: storia del discusso sodalizio tra Manlio Sgalambro e Franco Battiato

Da una parte un filosofo che si muoveva fuori dai classici schemi accademici, esistenzialista, eversivo, fatalista, che aveva pubblicato la sua prima opera, La morte del sole, a 55 anni; dall’altra un cantautore che aveva costruito il suo successo su testi criptici e colmi di citazioni, ma a tratti intrisi di ironia e dissacrazione. In comune la terra di origine, la Sicilia, e qualche amico. Quella tra Manlio Sgalambro e Franco Battiato è stata una delle collaborazioni più prolifiche della musica leggera, ma anche tra le più discusse. Questo sodalizio non convinse parte della critica musicale e tanti fan storici dell’artista, al punto che lo scrittore Aldo Busi una volta definì Sgalambro, in maniera scherzosa, come “la Yoko Ono di Battiato”. Ma anche il filosofo Massimo Cacciari, in occasione della scomparsa di Battiato, ribadì all’Ansa le perplessità su questa collaborazione: “Sgalambro era uno schopenhaueriano, era Schopenhauer. Non credo abbia fatto molto bene questo filone critico e sostanzialmente pessimistico a Battiato […]”. Ad altri, tra cui il sottoscritto, questa simbiosi non dispiacque.

Tutto ebbe inizio dopo il successo dell’album Caffè de la Paix, quando Battiato decise di abbandonare la strada che lo aveva portato fin lì per affidarsi alla penna di Manlio Sgalambro, da quel momento autore della maggior parte dei versi delle sue canzoni. I due si erano conosciuti nel 1993 alla presentazione di un libro di poesie del comune amico Angelo Scandurra. Sgalambro aveva appena pubblicato il saggio Contro la musica, in cui poneva una questione metafisica sull’ascolto della musica. “Quel che vorrei fosse chiaro è che, con la musica, da un certo punto in poi l’Occidente ha trasformato una esperienza dello spirito in un fatto di cultura” scriveva Sgalambro. “Cioè in qualche cosa di amministrabile, di pianificabile, di storicizzabile. Ma lo spirito non si lascia né amministrare né pianificare né storicizzare”. Il filosofo colse l’occasione per regalarne una copia a Battiato, il quale rimase colpito dalla sua scrittura pungente, sovversiva, e decise di coinvolgerlo nella stesura dell’opera dedicata a Federico II di Svevia, Il cavaliere dell’intelletto, che gli era stata commissionata dalla Regione Siciliana. “[…] Mi portò un assegno di 60 milioni per fargli un libretto d’opera: accettai” raccontò Sgalambro nel gennaio 2014 al giornale siciliano FreeTime in quella che poi fu la sua ultima intervista. “Dopo poco gli dissi che, se avesse accettato lui, gli avrei scritto in venti giorni un album completo: così nacque L’ombrello e la macchina da cucire”. Da quel momento prese il via un sodalizio che durò quasi vent’anni e li vide realizzare insieme dischi come L’ombrello e la macchina da cucire, L’imboscata, Gommalacca, Ferro battuto, Dieci stratagemmi e Il vuoto, in cui il filosofo mescolò nichilismo e sarcasmo, fatalismo e lucido cinismo. Il primo fu L’ombrello e la macchina da cucire, che vedeva il volto di Sgalambro in primo piano sulla copertina, quasi a volerne sancire l’ingresso nel mondo di Battiato. Il disco era intriso di riferimenti e citazioni dirette e indirette, dalla scienza alla filosofia. Dai moti particellari di Robert Brown al pensiero di Guglielmo di Occam, passando per l’omaggio al madrigalista Gesualdo da Venosa. Con questo lavoro Battiato chiuse un’epoca, sia perché fu l’ultimo con la EMI sia perché, insieme al filosofo, cominciò a esplorare la realtà sociale e il rapporto tra gli uomini, raccontando l’essere umano calato in un’esistenza non sempre sferzante, motivante, adatta alla sua essenza. E il brano Breve invito a rinviare il suicidio fu il biglietto da visita di questa nuova prospettiva.

Va bene, hai ragione
Se ti vuoi ammazzare
Vivere è un’offesa
Che desta indignazione
Ma per ora rimanda
È solo un breve invito, rinvialo

“Cara amica, scrive Anatol, voi mi chiedete… di rispondervi su una questione sempre urgente come quella del suicidio… Procurerò di rispondervi, brevemente come decenza in queste cose. … Ascoltatemi, trattate i moti dell’animo come i moti dell’intestino. Un giorno bisognerà certo spararsi ma intanto viviamo […]” scriveva anni prima proprio Sgalambro in una sua opera. “Quanto al nostro discorso, sappiamo entrambi che per l’eroe morale esso – il suicidio – è sempre possibile, egli ha sempre aperte le porte del mondo da cui uscire come per una passeggiata. Sorride e tira alla tempia… Vi autorizzo a uccidervi, sì, ma solo in un momento di gioia”. Questo percorso continuò con il coinvolgimento sempre maggiore del filosofo anche nella registrazione dei dischi. L’imboscata, il successivo, si apriva infatti con la voce recitante di Sgalambro che introduceva il brano Di passaggio con alcuni versi di Eraclito, recitati in greco antico, sul tema della canzone, ovvero la fugacità della vita terrena, i veloci mutamenti che riguardano gli umani e il mondo che li circonda. Inutile ribadire che le vette più alte della loro collaborazione le raggiunsero con La cura, brano in cui furono capaci di vestire il sentimento di divino, il pop di straordinaria eleganza. E continuarono ancora per anni, viaggiando tra sperimentazione e divertimento. Come quando nel 2001 registrarono il primo album di Sgalambro, Fun Club, in cui il filosofo rivisitava grandi classici come Cheek to cheek, As time goes by, Moon river, Parlami d’amore Mariù, La mer e La vie en rose, lasciando spazio all’attualità di allora soltanto con la sua versione di Me gustas tu di Manu Chao. Era proprio quest’ultima, cantata spesso da Sgalambro nelle sue sortite sul palco di Battiato, a mandare in visibilio il pubblico. Proprio qualche mese fa Angelo Privitera, storico collaboratore del cantautore, ha ricordato in un’intervista a Rolling Stone la complicità che c’era tra i due: “[…] Sgalambro era geniale, e anche lui molto ironico. Un giorno ci trovavamo in Marocco, a Marrakech, per un concerto, e in giro per la città Sgalambro si stancò. Franco serenamente fermò un tizio col motorino, fece salire il filosofo dietro, come una volta facevano le donne sulle lambrette, per farlo accompagnare in hotel. Manlio non si scompose”.

Nonostante l’intesa umana e artistica, il rapporto tra Battiato e Sgalambro non fu tutto rose e fiori. Insieme dialogarono e si confrontarono tantissimo, ma litigarono anche, via fax, telefono o e-mail per una parola da cambiare, da togliere o da aggiungere, un sinonimo da ricercare. “Con Battiato abbiamo avuto lunghe liti, che duravano parecchio” dichiarò il filosofo sempre nell’intervista a FreeTime. “Poi uno dei due, in genere lui, telefonava e il rapporto riprendeva. Tutti i litigi erano per un rigo da cambiare in una canzone: io non accettavo le esigenze della musica e per lui questo era costoso”. Il loro sodalizio durò fino al 2012, poi decisero di prendere definitivamente strade differenti. Nell’ultimo periodo della sua vita Sgalambro parlò della sua esperienza nella musica come di una distrazione dalla sua attività principale, facendo trasparire anche un po’ di rammarico per averci speso troppo tempo. Battiato, invece, non si espresse mai pubblicamente sulla fine della loro collaborazione. Finché la mattina del 6 marzo 2014, alla soglia dei novant’anni, il cuore del filosofo si fermò improvvisamente mentre era impegnato in faccende domestiche. Se ne andò così, senza preavviso e senza clamore. Raggiunto dall’Ansa per un ricordo, un Battiato affranto non volle rispondere: “Non ho nulla da dire, è una cosa privata, è un dolore personale molto forte”. Il giorno del funerale fu uno dei primi ad arrivare nella chiesa del Crocifisso dei Miracoli, a Catania. Occhiali da sole a proteggere gli occhi lucidi dalla commozione, volto provato, altro non fece che rivendicare il diritto di restare in silenzio per onorare l’amico e sodale volato via, in mondi lontanissimi, in attesa della reincarnazione.

Un premio per “Lucio Dalla. La vita, le canzoni, le passioni”

Non si scrive per i premi ma, quando una giuria decide di assegnarti un riconoscimento, il piacere è immenso e un sano compiacimento ti pervade. E’ ciò che mi è accaduto il 3 novembre 2023, quando la giuria dell’Aracnea Film e Book Festival, evento cinematografico e letterario che si tiene a Castellaneta, in provincia di Taranto, ha assegnato la menzione speciale “Cantanti e cantautori nel cinema” al mio libro Lucio Dalla. La vita, le canzoni, le passioni (Diarkos). Di seguito qualche foto della presentazione del libro al Museo Rodolfo Valentino e qualche immagine della premiazione all’Auditorium.

Syd Barrett, il diamante pazzo che smise di brillare

Su Syd Barrett, il fondatore e primo leader dei Pink Floyd, si è scritto e detto tanto negli ultimi cinquant’anni. Numerosi gli aneddoti sui suoi problemi psichici, tanto che intorno alla sua salute mentale sono nate leggende che hanno spesso messo in ombra il suo pur breve percorso musicale nei Pink Floyd. Una storia, quella di Syd, che è molto più drammatica che romantica, figlia di un profondo disagio. A questo proposito fu proprio David Gilmour a esprimere il suo disappunto al giornalista David Fricke in un’intervista apparsa su Rolling Stone nel 1982: il chitarrista affermava che quella di Barret era «una storia triste, che viene romanzata da persone che non ne sanno nulla. L’hanno resa affascinante, ma non è affatto così». Chi meglio di Gilmour poteva parlarne? Lui che era stato suo compagno di scuola e nel 1968 lo aveva sostituito nelle file dei Pink Floyd, quando ormai la caduta libera di Syd verso la follia era iniziata e la sua inaffidabilità aveva reso la permanenza nel gruppo impossibile da sostenere. I suoi compagni avevano deciso di scaricarlo con un gesto che ebbe poco di epico: semplicemente non lo passarono più a prendere a casa. Per molti era cominciata la leggenda di Barrett, per gli amici più prossimi, invece, era in atto il deterioramento irreversibile della sua condizione psichica. Molti l’avevano attribuito principalmente al consumo di LSD, trascurando l’ipotesi che la sostanza aveva semplicemente accelerato la caduta libera. A questo proposito fu proprio Gilmour a spiegare sempre a David Fricke il tracollo di Syd: «L’esperienza psichedelica può aver agito da catalizzatore. Ma credo che non riuscisse a gestire l’idea del successo e tutte le cose che comportava».

Un’immagine dei Pink Floyd nel periodo di transizione tra l’ingresso di David Gilmour (in alto a sinistra) e l’uscita di Syd Barrett (in alto a destra)

David non lo aveva abbandonato: nonostante Barrett fosse ormai fuori controllo, lui e Roger Waters lo aiutarono a realizzare due album da solista, The Madcap Laughs e Barrett, entrambi usciti nel 1970. Ma mentre il primo lavoro ricevette un buon riscontro dal pubblico e dalla critica, il secondo passò quasi inosservato, certamente anche per colpa di Barrett che non si impegnò minimamente per promuoverlo. La sua mente era ormai piena di ombre, momenti di assenza e di distacco dalla realtà. Nell’autunno del 1971 rilasciò la sua ultima intervista a Mick Rock, per Rolling Stone, nel giardino della casa di famiglia a Cambridge. In quell’occasione fu molto freddo nei confronti dei membri dei Pink Floyd, vecchi e nuovi: «Non ho niente a che fare con loro. A parte il fatto che hanno prodotto i miei dischi, il che è stato molto utile». Fu molto severo poi nel giudicare i suoi lavori da solista: «Ho fatto tre album e due non sono stati molto interessanti. Gli ultimi due sono stati così polverosi. E così inutili. Cosa puoi farci? Mi piacerebbe rimettere le cose a posto». Ma dal resto dell’intervista traspare un sentimento di rinuncia. Quando Rock gli chiese se non sentisse il bisogno di produrre nuovi pezzi, uno sconsolato Barrett lasciò intendere di essere stato scaricato dai discografici: «Lo faccio. Ma non mi è richiesto. Per cui non sento che c’è un motivo per continuare». Ecco perché Syd decise di tornare a Cambridge, rinchiudendosi nel seminterrato di casa di sua madre, nella solitudine più profonda. Prima di tutto si riappropriò del suo nome, tornando a essere Roger Barrett, ragazzo di venticinque anni. Un passo verso le certezze dell’infanzia, con l’abbraccio delle mura domestiche che l’avevano visto crescere e da cui, affacciandosi, poteva ancora scorgere la scuola che aveva frequentato da bambino. A Cambridge trascorreva tante ore a letto, circondato dai suoi quadri, dai dischi, dagli amplificatori e le chitarre che suonava sempre meno. Durante l’intervista si lasciò andare anche a considerazioni legate alla sfera sentimentale, ai suoi amori passati ma anche al proposito di sposarsi e avere dei bambini.

Syd Barrett il 5 giugno 1975

Negli anni che seguirono Barrett tornò a vivere a Londra, ma nel completo anonimato. Uno dei più noti avvistamenti risale al 5 giugno del 1975, quando un uomo sovrappeso e rasato a zero varcò la soglia degli studi dove i Pink Floyd stavano incidendo l’album Wish You Were Here. Quell’uomo irriconoscibile era proprio Syd Barrett. Tutti i componenti della band rimasero di stucco, traumatizzati dalla visione di quel ragazzo di appena 29 anni che sembrava un vecchio. «Scioccante è la parola giusta» raccontò Nick Mason, il batterista dei Pink Floyd, a proposito di quell’incontro.  «Io stavo lavorando in studio e quando sono entrato nella sala di regia ho trovato questo strano ed enorme ragazzo. Non l’avevo riconosciuto. È dovuto intervenire David che mi ha detto ‘Nick, non sai chi è questo ragazzo? È Syd’. A quel punto lo riconobbi ma non so come spiegare, è stato davvero scioccante».

Nei primi anni Ottanta finì definitivamente il periodo londinese di Barrett e la casa di Cambridge divenne la sua dimora stabile, condivisa con sua madre. Con molta frequenza capitava che i fan si recassero in città sulle tracce del loro beniamino, nonostante la famiglia cercasse sempre di proteggerlo, ricorrendo anche ad appelli pubblici con i quali invitarono i fan e i giornalisti a lasciarlo in pace. Ma proprio alcuni giornalisti uscirono a stanarlo per brevi e fugaci attimi, anche utilizzando stratagemmi poco professionali. Gli ultimi a parlarci, nel 1982, furono due reporter francesi che scrivevano per la rivista Actuel: si presentarono di fronte la casa di Cambridge e, con la scusa di restituirgli un borsone di suoi vestiti ottenuti dall’agente immobiliare che gestiva la casa londinese dove Barrett aveva soggiornato fino a poco tempo prima, suonarono al suo campanello. Syd gli aprì la porta, ma loro non si qualificarono come giornalisti. Gli restituirono i vestiti e lui li ringraziò, non immaginando che quel momento sarebbe rimasto impresso nella storia.

«[…] Ma di cosa ti occupi adesso? Dipingi?» aveva approfittato per chiedergli uno dei due reporter.

«No, ho avuto un’operazione di recente, ma niente di grave. Volevo tornare là. Ma devo aspettare. Poi c’è anche uno sciopero dei treni» aveva risposto Syd, manifestando il proposito di tornare a Londra, ostacolato da uno sciopero dei treni, che però era terminato ormai da circa due settimane, come gli fece notare uno dei reporter francesi.

«Cosa fai nella tua casa di Londra? Suoni la chitarra?» aveva continuato a incalzarlo il giornalista.

«No, no, guardo la tv, tutto lì» aveva detto Syd con ingenuo candore.

«E non hai più voglia di suonare?» aveva insistito il giornalista.

«No. Non proprio. Non ho tempo per fare molte cose ora. E poi devo trovarmi un altro appartamento a Londra. Non è facile. Dovrò aspettare. Sai, non pensavo che avrei riavuto questi vestiti indietro. Non riuscivo a scrivere. E non riuscivo a decidermi ad andare a recuperarli. Prendere il treno e tutta quella roba. Già. Non ho neppure scritto a quelle persone. Mamma mi ha detto che li avrebbe chiamati dal suo ufficio. Comunque, grazie». Dalla risposta di Barrett emergeva una certa confusione. Poi il giornalista aveva continuato a fargli domande, portandogli anche i saluti dei suoi amici londinesi, ma Syd, dopo avergli concesso di scattare una foto insieme, non ne volle più sapere di chiacchierare. Si salutarono con il proposito di rivedersi a Londra, ma Barrett non sarebbe più tornato a vivere nella capitale del Regno Unito. Rimase infatti nella casa di Cambridge anche dopo la morte della madre.

Cambridge, 1982, Syd Barrett (a destra) con uno dei reporter francesi

A fungere da punto di contatto con la realtà fu la sorella Rosemary. Il suo passato musicale lo volle rimuovere: pare che ne parlasse con fastidio e addirittura preferiva che nessuno glielo rammentasse. Fino all’ultimo giorno della sua vita continuò a percepire le royalties dei brani scritti con i Pink Floyd, i cui membri si accertarono sempre che gli arrivasse il denaro che gli spettava. Sulla sua morte si sa poco: si spense nella sua casa di Cambridge a 60 anni, il 7 luglio del 2006, pare che fosse stato colpito da un tumore al pancreas e soffrisse anche di diabete di tipo 2. Il suo funerale si tenne il 18 luglio 2006 al Cambridge Crematorium e nessun membro dei Pink Floyd presenziò al rito di saluto. Nei giorni seguenti i media locali diffusero la notizia che Barrett aveva lasciato a fratelli e sorelle un’eredità che superava il milione e mezzo di sterline, la maggior parte accumulate grazie alle royalties derivanti dalle raccolte, studio e live, di brani dei Pink Floyd pubblicate nel corso degli anni che includevano anche brani a sua firma. Subito dopo la morte, gli oggetti che gli appartenevano vennero messi all’asta, biciclette, dipinti, chitarre, e il ricavato fu devoluto in beneficienza. 

Nel novembre del 2006 venne messa in vendita anche la sua casa di Cambridge, destando immediato interesse tra i fan, molti dei quali si finsero potenziali acquirenti solo per andarla a visitare. «A Roger piaceva molto la pace e la tranquillità della casa, sentire i bambini che giocavano in strada. Gli piaceva andare in bicicletta a fare la spesa» dichiarò sua sorella Rosemary, come riportato da Rockol. «Nella stanza che dava sulla strada disegnava e dipingeva, in quella sul retro si rilassava e ascoltava jazz». L’abitazione venne poi acquistata da una coppia francese, del tutto ignara di vivere nelle stanze del “diamante pazzo” dei Pink Floyd che troppo presto aveva smesso di brillare.

Zephyros, il vento di primavera soffia al Museo di Pietrarsa

Al Museo Ferroviario di Pietrarsa il 19 marzo arriva “Zephyros- Il soffio dell’anima”, una serata di musica, arte e cultura sul Golfo di Napoli organizzata dalla Fondazione FS Italiane. Un’ottima occasione per accogliere la primavera e l’arrivo di giorni più miti. A introdurci nella nuova stagione sarà il Maestro Ivana D’Addona che eseguirà al pianoforte brani tratti da colonne sonore di famosi film e sue composizioni originali. Nella performance, che si terrà nella sala delle locomotive, sarà accompagnata da Fabiana Sirigu al violino, Mauro Fagiani al violoncello, Paolo Di Lorenzo alla viola e Marco Gaudino al flauto. La serata sarà aperta dal coro polifonico Libentia Cantus, diretto dal Maestro Carlo Intoccia.

In scaletta anche letture sul tema interpretate dall’attore Antonio Gargiulo. Una di queste sarà un mio testo inedito scritto appositamente per questo appuntamento.

I biglietti sono acquistabili direttamente presso gli sportelli all’ingresso del Museo o sul sito http://www.azzurroservice.nt

John Deacon, anima fragile dei Queen

Il 24 novembre 1991, a circa 24 ore dal rilascio di un sofferto comunicato stampa con il quale annunciava di aver contratto l’AIDS, Freddie Mercury, il carismatico leader dei Queen, abbandonava questo mondo, entrando ufficialmente nella storia e nel mito. Come sappiamo, la sua scomparsa gettò nello sconforto milioni di fan, ma anche tante persone a lui vicine che, nonostante fossero a conoscenza delle sue precarie condizioni di salute, furono travolte dalla tragedia della sua prematura scomparsa. Una di queste fu certamente John Deacon, l’estroso e fragile bassista dei Queen. Da sempre schivo e di poche parole, Deacon rappresentava, insieme al batterista Roger Taylor, il motore della band, la solida base ritmica su cui poggiavano le chitarre di Brian May e la voce unica di Mercury. Memorabili i suo giri di basso in brani come Under Pressure, Crazy Little Thing Called Love, A Kind of Magic, Another One Bites the Dust, The Invisible Man e tanti altri. Quel 24 novembre, però, si spense la luce creativa di Deacon, probabilmente appena prese coscienza che Freddie non sarebbe stato più con loro. Da lì cominciarono i suoi tormenti e le domande che lo condussero ad abbandonare definitivamente i Queen nel 1997.

John Deacon e Freddie Mercury

In quei sei anni le sue apparizioni pubbliche con la band si possono contare sulle dita di una mano. La prima risale al 20 aprile 1992, in occasione dello storico concerto-tributo a Mercury che si tenne a Londra allo stadio di Wembley. Un evento entrato nella storia, che fu trasmesso in mondovisione e venne seguito da oltre un miliardo di persone, e di cui anche il bassista fu protagonista attivo. L’anno successivo Deacon partecipò a un appuntamento benefico promosso da Roger Taylor nel Sussex, poi insieme ai suoi compagni cominciò a lavorare su alcune parti vocali che Freddie aveva registrato negli anni che precedettero la sua morte, cercando di costruire arrangiamenti credibili e all’altezza dei loro precedenti lavori. Il risultato fu Made In Heaven, uscito nel 1995, un disco che non aggiunse nulla alla leggenda dei Queen. E probabilmente anche Deacon se ne accorse. Registrò così No-One But You (Only The Good Die Young), primo brano inedito composto dai Queen senza Freddie, e fece la sua ultima apparizione dal vivo con la band il 17 gennaio 1997, quando il gruppo partecipó alla cerimonia di apertura del Bejart Ballet al Teathre de Challot di Parigi, eseguendo The Show Must Go On con Elton John alla voce. “Non suonavamo insieme da anni, dovevamo fare un solo pezzo in un contesto per noi diverso e non avevamo un cantante. Ci siamo decisi a farlo quando abbiamo ricevuto un messaggio di Elton: facciamolo” ha raccontato Roger Taylor a proposito di quella serata, come riportato dal sito di Virgin Radio. Sulla performance musicale di Deacon nulla da ridire, ma sul palco appariva distante, ormai lontano da quel mondo.

“Il nostro amico John era lì con noi, ma in realtà non c’era” raccontò Brian May. “Tutto in lui quella sera trasmetteva un senso di disagio. È stata l’ultima volta che abbiamo suonato con lui in pubblico”. Proprio a May quella sera confidò di non riuscire più a esibirsi davanti al pubblico. Così decise di uscire di scena, abbandonando definitivamente i suoi compagni di musica.

May, Taylor e Deacon

Quando nel 2001 i Queen vennero introdotti nel Rock and Roll Hall of Fame, Deacon rifiutò di partecipare alla cerimonia. Tempo dopo, nel corso di un’intervista, Taylor dichiarò di non avere contatti con lui dal 2004. Pare che non abbia mai visto di buon occhio ciò che i Queen hanno realizzato in questi anni, dalla collaborazione con Robbie Williams al sodalizio con Adam Lambert

Di recente i suoi colleghi hanno cercato di trascinarlo nel progetto del film Bohemian Rhapsody, senza riuscirci. “John non vuole essere coinvolto” dichiarò Brian May a Rolling Stone. “Ha la sua dimensione e noi la rispettiamo. È un peccato, perché noi avremmo voluto averlo intorno ma lui non vuole più stare in quell’arena… semplicemente non vuole continuare a percorrere quelle strade”. Nella stessa intervista May dichiarava di sentire la mancanza di Deacon, sia a livello umano sia come musicista, “perché non c’è nessuno come John su quelle quattro corde”, confidando di aver saputo da persone a lui vicine che il bassista aveva letto la sceneggiatura e l’aveva approvata. Negli ultimi anni, infatti, i rapporti diretti tra Deacon e i suoi due colleghi sono praticamente inesistenti, se non per i comuni interessi finanziari legati ai Queen e all’utilizzo del nome.

John Deacon in una recente immagine

Pare che oggi John viva a Putney, un sobborgo di Londra, insieme a sua moglie. La coppia ha sei figli e conduce una vita molto riservata, lontano dalla musica e dai clamori dello show business. Ogni tanto viene avvistato in strada che passeggia come un settantenne qualunque, con la sigaretta tra le labbra e lo sguardo pensieroso. Ormai sono lontani i tempi del boato assordante del pubblico di Wembley che urlava il nome dei Queen. Gli restano soltanto i ricordi, le immagini e i suoni di una storia leggendaria. E penso che lui sia felice così.