Questa intervista con Paolo Pietrangeli l’ho realizzata nel 2011 per il mio libro “Il Tempo della musica”. La ripropongo qui perché, come tutte le interviste ai protagonisti di Cantacronache e del Nuovo Canzoniere Italiano, rappresenta una preziosa testimonianza di un mondo che non c’è più.
Una laurea in filosofia. Una storia musicale iniziata nel 1966, con l’assassinio di Paolo Rossi. “Grazie a quella canzone ho fatto un mestiere straordinario, ho conosciuto persone che altrimenti non avrei mai incontrato, ho visto luoghi che non avrei mai visitato”. In quegli anni Paolo, figliolo del regista Antonio Pietrangeli, cominciava a sentire l’aria di rivoluzione che tirava dopo gli anni del boom economico. Così iniziò a scrivere canzoni dal contenuto socio-politico, diventando a poco a poco uno dei rappresentanti della canzone di protesta. I giovani sessantottini lo adottarono come uno dei “loro” cantautori. Alcune canzoni divennero la colonna sonora delle agitazione. Paolo Pietrangeli scrisse quelli che divennero gli inni della contestazione universitaria, “Valle Giulia” e “Contessa”. Le due canzoni videro l’interpretazione, come seconda voce, di Giovanna Marini. La prima fu ispirata dagli scontri tra studenti e forze dell’ordine all’interno della facoltà di architettura dell’università di Roma. Quel grave episodio, avvenuto il primo marzo 1968, fu il focolaio di una rivolta molto più ampia che sarebbe scoppiata dopo pochi mesi. La canzone descrisse, senza lasciare troppo spazio alle metafore, cosa avvenne in quella giornata. Uno scontro aspro e inusuale, visto che gli studenti fino a quel momento non erano mai arrivati a un contatto così diretto con le forze di polizia. Non siam scappati più, non siam scappati più, recitava il ritornello. In quel momento Pietrangeli si trovava in facoltà insieme ad altri giovani “rivoluzionari”. Ma la canzone cult del repertorio di Paolo Pietrangeli, che ancora oggi sopravvive all’usura del tempo e delle rivoluzioni, è certamente “Contessa”. L’intramontabile colonna sonora del ’68 italiano fu ispirata da un episodio casuale, una conversazione captata in uno sciccoso caffè di Roma. “Contessa” rappresenterà uno degli esempi di canzone popolare, che sottolinea l’avvicinamento e il muoversi in maniera coordinata delle lotte studentesche e quelle operaie. Nel 1969, infatti, sarà la volta dell’autunno caldo che “incendierà” le fabbriche. Pietrangeli, dopo il grande successo di “Contessa”, continuò a scrivere canzoni. Ma verso la fine degli anni Sessanta cominciò a occuparsi anche di cinema. Fu aiuto regista di Mauro Bolognini, per poi lavorare, negli anni successivi, con Luchino Visconti e Federico Fellini. Il suo nome, ancora oggi, è saldamente legato a “Contessa”. Una profonda sensibilità e una malcelata timidezza. La lotta. L’intolleranza per l’ingiustizia sociale. Pare che di recente abbia anche dichiarato: “Tutti mi attribuiscono canzoni politiche, ma io credo di aver scritto sempre e solo brani su persone o fatti che mi stavano a cuore“.
Giovanni Straniero e Mauro Barletta raccolsero, qualche anno fa, una dichiarazione di Paolo Pietrangeli riguardante l’opportunità o meno di parole forti come quelle di Contessa e di altre sue canzoni. “È chiaro che quando scrissi Contessa – diceva Pietrangeli – non c’era il terrorismo. Adesso dovrei pesare più col bilancino le parole, ma all’epoca, se si diceva <<facciamo la rivoluzione>>, non è che si pensasse a sparare”.
Paolo, quando ha cominciato a scrivere canzoni?
Avevo quattordici anni. Cinquanta anni fa. Un’abitudine che risale alla mia adolescenza.
Come è venuto a contatto con la canzone sociale e di protesta?
Quando mio padre portò a casa i dischi di “Cantacronache”. Nel ’64, poi, quando era già nato il Nuovo Canzoniere Italiano, fecero lo spettacolo “Bella ciao”. E da lì cominciai a seguirli. Mi intrigò moltissimo quel modo di cantare. Era un periodo in cui la canzone italiana classica era insopportabile, una canzone smielata. C’era un velo di novità perché finalmente la canzone era legata alla realtà circostante. Nel ’66, i miei amici mi portarono alla libreria Rinascita dove il Nuovo Canzoniere Italiano presentava “La linea rossa”, una linea editoriale fatta su quarantacinque giri. Con quella produzione volevano conquistare un mercato che non si conquistò mai. Quel giorno registrai tutto quello che avevo a disposizione, ma persero il nastro. Così i miei amici, che erano più cocciuti di me, mi portarono a casa di Giovanna Marini. Lì registrammo di nuovo tutte le mie canzoni e passammo un bellissimo pomeriggio. Io registrai tutto quello che avevo fatto fino a quel momento. Questo nastro fu mandato a Milano. Appena lo ascoltò, Gianni Bosio disse a Giovanna di portarmi da lui. Siccome qualche giorno dopo a Venezia era in programma lo spettacolo “Terra e Acqua”, da Roma presi il treno per la città lagunare. Da quel treno non sono mai più sceso. Ecco come sono entrato nel Nuovo Canzoniere Italiano.
Che ricordo ha di Gianni Bosio?
Era una persona che mi metteva in soggezione. Devo dire molto severa. Poi, conoscendolo, negli anni ho capito che la sua era timidezza. Uno storico di grande spessore, molto acuto. Uno dei primi a capire che la storia non era fatta solo di trattati di pace e guerre, ma di usi, costumi, tradizioni. Fu illuminante. Così nacque una bella amicizia, che si interruppe presto perché morì per un attacco di appendicite.
La canzone “Contessa” è stata il punto di riferimento della gioventù sessantottina. In che circostanze nacque?
Io ero studente di Filosofia. Ci fu l’uccisione di Paolo Rossi, che non era un calciatore, ma uno studente che venne gettato giù dalla scalinata della facoltà di Lettere e Filosofia e morì sbattendo la testa. Questo fatto incendiò le coscienze di tanti. Così cominciarono manifestazioni e occupazioni. I fascisti, che fino a quel momento avevano spadroneggiato, vennero cacciati dall’università. Questa occupazione io non la vissi completamente perché i miei genitori erano molto severi. Erano contrari all’idea che io dormissi fuori. Quindi facevo un’occupazione part-time. E questo innescò nella mia coscienza parecchi sensi di colpa. Così scrissi questa canzone. Credo che sia l’ultimo esempio di canzone che si è tramandato di bocca in bocca, senza l’aiuto delle radio e dei mezzi di comunicazione.
L’episodio di via Veneto, che spesso si sente raccontare, è vero?
Non era in via Veneto, ma a piazza Istria. Vicino casa mia. Precisamente al bar Negresco, frequentato da generali in pensione e persone che non appartenevano certo al popolo. Insomma non dalla gente comune. In quei giorni, ogni volta che ci si affacciava al bar, si origliavano discorsi insopportabili nei confronti degli studenti che stavano occupando le università. Così scrissi”Contessa”.
Cosa la spinse a scrivere degli episodi di “Valle Giulia”?
La storia di Valle Giulia è molto semplice. Partecipai alla manifestazione e assistetti agli scontri. E appena tornato a casa cominciai a scrivere questa canzone che vide la sua versione definitiva dopo quattro cinque giorni.
Sia in “Valle Giulia” che in “Contessa” ‘appare’ sempre la voce di Giovanna Marini. Come mai?
Perché ai tempi non ero iscritto alla SIAE. Ecco perché fu coinvolta Giovanna, anche se poi divenne parte fondamentale di quella canzone con il suo riff di chitarra.
E dell’esperienza con il Nuovo Canzoniere Italiano che cosa ricorda?
Avevamo un modo di procedere straordinario. Da una parte c’eravamo noi che eravamo il cosiddetto braccio armato, andavamo a cantare e racimolavamo qualche soldo che poi davamo all’Istituto Ernesto de Martino per continuare questo lavoro di ricerca. Noi eravamo degli intellettuali che andavano in giro a cantare e non cantanti in cerca di un posto di lavoro. Le nostre riunioni milanesi ci facevano sentire parte di un gruppo. E poi, in un periodo in cui c’era una tendenza alla divisione della sinistra, noi tentavamo di tenere insieme tutta la sinistra, dai socialisti agli autonomi.
Torniamo alle sue canzoni. Come la prese la sua famiglia sapendo che lei era uno dei punti di riferimento musicali della protesta?
Inizialmente non capirono. Un giorno origliai un discorso tra mio padre e mia madre. Dicevano che io non avevo né arte né parte e che avrebbero dovuto camparmi loro per tutta la vita. Però li sentii dire, riferendosi a “Rossini”: “però quella canzone è piena di talento”. Questo è un ricordo bellissimo.
In quegli anni stavano uscendo fuori Fabrizio De Andrè e Francesco Guccini. Il primo si dichiarò anarchico, l’altro invece era molto più schierato. Come vedevate voi cantautori il loro ingresso nell’ambiente musicale?
Era un altro percorso, assolutamente legittimo. Li giudicavamo dalla simpatia e l’antipatia. Loro facevano un mestiere, quello di scrivere canzoni e testi. E cercavano di far fruttare la propria arte. Nessuno di noi, invece, aveva intenzione di fare il cantante, né credeva di esserne in grado.
Poco tempo fa è venuto a mancare Ivan Della Mea. Che ricordo ha di lui?
È come se fosse scomparso un pezzo di me, nonostante vivessimo in città diverse e avessimo spesso punti di vista contrastanti su molti argomenti. Una settimana prima che morisse ci eravamo fatti una cantata insieme a Montevarchi, a testimonianza che c’era un grandissimo legame tra di noi. Ivan era così, pieno di chiusure, ombroso, poi però era capace di grandissimi slanci. È stato un talentuoso poeta dialettale. Le cose che ha scritto sono le migliori della letteratura italiana, non solo della canzone.
Nonostante siano trascorsi molti anni, come spiega che ancora oggi una canzone come “Contessa” venga ricordata e cantata da molti giovani?
Perché non ne hanno fatte altre.