Cosa resta di Lucio Dalla

Virgilio Notizie mi ha chiesto di raccontare cosa resta, secondo me, di Lucio Dalla a dieci anni dalla sua scomparsa. Gli album e i brani da ascoltare per comprendere la portata del suo contributo artistico.

L’intervista la potete leggere cliccando sull’immagine di Lucio.

Joe Amoruso: «Resta il rammarico di non aver realizzato altri inediti insieme»

Intervistai per l’ultima volta Joe Amoruso nell’estate 2015. Stavo finendo di scrivere il libro “Pino Daniele. Una storia di blues, libertà e sentimento” e mi sembrò indispensabile raccogliere la sua versione dei fatti, il suo racconto sul Naples Power (o Neapolitan Power) e sulla sintonia che si creò con Pino Daniele. Voglio riproporre qui quell’intervista che mi riempì il cuore e l’anima. Con un po’ di magone e tanta tenerezza…Ciao Joe!

È stato uno dei protagonisti del Naples Power, nonché membro del Supergruppo. Ma dopo ha collaborato anche con Vasco Rossi, partecipando al disco Cosa succede in città, e poi con Zucchero e Andrea Bocelli. Sto parlando di Giuseppe Amoruso, detto Joe, classe 1960, un ragazzino prodigio del pianoforte: a quindici anni infatti frequentava il conservatorio, ma già seguiva il programma dell’ottavo anno mentre tutti gli altri erano fermi su quello del quinto. Furono i militari delle basi Nato, che negli anni Settanta suonavano nei club in zona Porto, a ribattezzarlo Joe durante una jam session. «A Napoli negli anni Settanta avevamo questi locali frequentati da musicisti americani, e tu dovevi suonare tassativamente come loro, altrimenti ti buttavano fuori» mi ha raccontato Joe. «Organizzavano jam session e noi con la bocca aperta a impadronirci del loro modo di suonare». Dopo aver collaborato con Danilo Rustici degli Osanna, nel 1979 fu reclutato da Peppino Di Capri per la registrazione del disco Con in testa strane idee, che uscì poi l’anno successivo. Grazie a quella collaborazione venne chiamato a Milano dalla Polygram, che lo fece partecipare al programma televisivo condotto da Walter Chiari, Una valigia tutta blu, in onda su Rai Uno nell’estate del 1979. L’apparizione in tv ebbe il merito di diffondere velocemente il nome di Joe nell’ambiente musicale: lavorò così con Alberto Fortis per il disco Tra demonio e santità e, appena ventenne, entrò in contatto con Mauro Pagani e la PFM, gli Area e altre realtà che gravitavano nell’ambiente milanese.

E poi arrivò Pino?

Io ero a Milano a lavorare come session man e il mio nome cominciava a girare, ero considerato un enfant prodige. Con lui non ci eravamo mai incrociati, nonostante io, prima di partire per il capoluogo lombardo, avessi frequentato l’ambiente napoletano. Conoscevo James Senese e tutti gli altri, avevo vissuto la Napoli musicale degli anni Settanta e non perdevo occasione di suonare, ma Pino non avevo avuto mai modo di incontrarlo. All’inizio pensavo addirittura che fosse un neo-melodico, poi quando ascoltai il suo secondo disco, Pino Daniele, capii che era tutt’altra cosa e cominciò a crescere un’ammirazione da lontano. E intanto anche a lui avevano parlato del giovane tastierista Joe Amoruso. In realtà siamo nati insieme artisticamente io e Pino, solo che ci osservavamo a distanza.

Finché non ci fu l’incontro.

Nel 1979 fu lui a contattarmi. Io ero sceso a Napoli per fare un po’ di vacanza. Fu Agostino Marangolo a presentarmelo. Sapevo che ci saremmo incontrati, c’era già un’affinità a distanza tra di noi, una predestinazione artistica, ci siamo cercati come due fidanzati. A quel punto non tornai più a Milano. Mi invitò ad andare a Formia da lui, aveva appena fatto Nero a metà, ma stava rimettendo mano alla band per le ultime date live. Lo trovai da solo, seduto su di una sediolina al centro di una saletta che aveva fatto insonorizzare con la tela di sacco. Dopo le presentazioni di rito mi misi al piano senza però suonarlo. Continuavamo a parlare e si vedeva che lui era smanioso di sentirmi battere le dita sui tasti, ma non aveva il coraggio di dirmelo. A un certo punto mi chiese di provare il piano, io attaccai una cosa molto forte, perché avevo già capito cosa cercava lui. Fu subito entusiasta e iniziammo a far volare la musica, al punto che chiamò due suoi collaboratori che erano usciti fuori e li invitò ad ascoltare: «Venite cca, venite a sentì, chesta è la musica, parimmo n’orchestra». È cominciato tutto così.

Fu lì che cominciaste a lavorare su Vai mò?

Non proprio, prima mi chiese di imparare in due giorni le canzoni della scaletta del concerto di Nero a metà. Per questo mi diede il soprannome di Nembo Kid. Poi, dopo il tour, cominciammo a lavorare sui pezzi di Vai mò, sempre a Formia, pianoforte e chitarra. Mangiavo e dormivo a casa sua, con lui e la sua famiglia. Io e Pino eravamo diventati praticamente fratelli. Lavoravamo in due sulle strutture dei pezzi e in seguito coinvolgevamo gli altri. Poi infatti si aggiunse Rino Zurzolo e dopo arrivò Tullio De Piscopo alla batteria. James Senese e Tony Esposito completarono la formazione. Ancora conservo le prime registrazioni di quei giorni in quartetto e ogni tanto le faccio ascoltare agli amici.

Il Supergruppo era fatto.

Praticamente sì, l’album ebbe un successo strepitoso e il tour lo stesso. Abbiamo sdoganato un nuovo modo di suonare il pop, effettuando una ricerca musicale che poi hanno seguito in tanti. Tra di noi c’era sintonia perché avevamo radici comuni, tutti venivamo dall’esperienza nei locali americani a Napoli, ecco perché i giornalisti lo definirono Naples Power o Neapolitan Power. Tra noi c’era una sintonia perfetta.

Poi però già con Bella ‘mbriana qualcosa cominciò a scricchiolare tra di voi.

Per quel disco Pino decise di chiamare musicisti americani. Mi dispiacque molto per Rino Zurzolo che rimase fuori da quell’album. Registrammo io, Pino e Tullio: suonammo con mostri del calibro di Wayne Shorter e Alphonso Johnson, abbiamo anche vissuto insieme, scoprendo l’umiltà di questi grandi musicisti. Quell’anno fu importante perché la musica di Pino fece un salto di qualità internazionale.

So che anche per Musicante tu e Pino lavoraste a stretto contatto.

Certo. Ma prima ci lanciammo in un’altra esperienza di prestigio: io arrangiai alcuni brani di Common Ground, disco di Richie Havens prodotto da Pino, il quale suonò e scrisse anche alcuni pezzi. Fu il mio battesimo da arrangiatore, un esame importante per la mia crescita artistica. Poi lavorammo su Musicante: fu un capolavoro, facemmo una full immersion e riuscimmo a raggiungere il momento più alto a livello spirituale. Credo che sia un disco raffinato, innovativo, filtrato dalla nostra cultura, con un intento quasi mistico. È un album da intenditori, che va digerito. In quegli anni ho messo a disposizione di quel progetto tutto il mio bagaglio culturale di ricercatore, sperimentatore, musicologo.

Quello, però, fu anche il momento in cui sfumò definitivamente il sogno di tenere uniti tutti i grandi talenti della musica napoletana.

Chiudemmo prima il cerchio con Sciò, una testimonianza live di anni intensi e prolifici. Nel frattempo ognuno stava pensando alla realizzazione di progetti personali: io cominciai a lavorare con Tony Esposito e scrivemmo Kalimba de luna, che arrivò lontano e gli diede tanto successo, facendoci diventare anche abbastanza ricchi in quel momento. Tullio De Piscopo era lanciato anche lui nella carriera da solista. Io dovevo seguire Tony che mi reclamava. Anche James era proiettato su altri progetti. Insomma, ognuno stava lavorando per la realizzazione personale, e giustamente anche Pino doveva andare avanti, quindi decise di coinvolgere altri musicisti, grandi nomi internazionali.

Per anni siete stati senza sentirvi?

All’inizio ci cercavamo per un saluto e per sapere l’altro cosa stesse facendo. Poi negli anni Novanta ci perdemmo proprio di vista.

Fino al ritorno di fiamma del 2008 con Ricomincio da 30. Come accadde?

Pino voleva festeggiare i trent’anni di carriera, così pensò di rimettere insieme il Supergruppo. So solo che aspettavo la sua telefonata da tempo. Sapevo che ci saremmo ritrovati prima o poi. Finalmente la chiamata arrivò alla fine del 2007. E purtroppo di quella reunion resta il rammarico di non aver fatto di più. Ancora c’erano grandi potenzialità che non sono state espresse fino in fondo. Per l’occasione rifacemmo alcuni pezzi con arrangiamenti minimali, che a me piacquero moltissimo, ma avremmo potuto tirare fuori anche qualche inedito. Pino inizialmente era d’accordo, poi però, al termine di una serie di concerti, si tirò indietro. Non mi spiegò mai le motivazioni che lo spinsero a rinunciare. Eppure sentivo che il potenziale era ancora immenso. Resta l’amarezza di sapere che ora non possiamo più.

Rino Zurzolo: «La ricerca era continua, Pino voleva fare sempre un passo in avanti»

Oggi voglio ricordare un artista immenso come Rino Zurzolo, scomparso il 30 aprile 2017, riproponendo l’intervista che gli feci nel giugno del 2015 per il mio libro Pino Daniele. Una storia di blues, libertà e sentimento (Ottobre 2015). Ci sentimmo telefonicamente in una torrida mattinata di inizio estate, dopo esserci scambiati un paio di messaggi d’intesa. Grande musicista e persona molto garbata, insieme parlammo di come la sua storia musicale si intrecciò con quella dell’amico Pino Daniele. Della loro esigenza di compiere sempre un passo in avanti. Buona lettura!

La storia musicale del bassista e contrabbassista Rino Zurzolo affonda radici nella Napoli degli anni Settanta, dove incontrò altri ragazzi con la medesima passione per il blues, il jazz, lo swing: Rosario Jermano, Paolo Raffone, Enzo Avitabile e Pino Daniele. Ecco perché Pino, avviata la sua carriera da solista, nel 1977 lo volle per le registrazioni dell’album Terra mia. Questa collaborazione proseguì poi con il disco Pino Daniele e conobbe il momento più bello, fecondo, intenso nel 1981 con la pubblicazione di Vai mò e la nascita del Supergruppo. Nel frattempo Zurzolo si diplomò a pieni voti in contrabbasso al conservatorio San Pietro a Majella, portando avanti progetti musicali jazz. Nel 1984 infatti, oltre a suonare in Musicante, fondò il gruppo Rino Zurzolo Jazz da camera, sperimentando nuove sonorità e inedite soluzioni musicali. L’ultimo album che registrò con Pino negli anni Ottanta fu Ferryboat, poi la loro collaborazione si interruppe per parecchio tempo. Finché nel 2001 si ritrovarono per Medina e il successivo tour da cui fu ricavato il disco Concerto. Da quel momento il loro sodalizio riprese a pieno ritmo: dal tour che Pino fece con Francesco De Gregori, Ron e Fiorella Mannoia fino alla reunion di Nero a metà, passando per Ricomincio da 30, il tour di Passi d’Autore e i concerti internazionali. Oggi Zurzolo continua l’attività live, alternandola con l’insegnamento del contrabbasso al Conservatorio Nicola Sala di Benevento. Ma tanti erano i progetti che aveva ancora intenzione di realizzare con Pino.

Rino, galeotti furono Napoli e l’amore comune per la musica.

Sì, avevamo formato i Batracomiomachia agli inizi degli anni Settanta, io frequentavo il conservatorio e Pino stava all’istituto di ragioneria al centro di Napoli. Ci incontravamo il pomeriggio e si andava a provare. Io avevo tredici anni e Pino sedici. Avevamo una grande passione per la musica, quindi ci riunivamo anche senza idee ben precise, improvvisavamo, creavamo pezzi nuovi, registravamo. C’era la voglia di confrontarci. Io lo dico sempre ai miei allievi del Conservatorio: per fare il musicista ci vuole una forte passione che deve supportare tutto il resto. In quegli anni nacque anche un nostro linguaggio, basato su di un dialogo continuo che non è mai terminato. Anche quando io e Pino non collaboravamo, in settimana ci sentivamo sempre per un confronto. Avevamo il medesimo approccio alla musica, sintonia umana e artistica: entrambi amavamo tornare sempre al punto di partenza, rimettendo in gioco tutto. L’ultima volta ci eravamo sentiti i primi di gennaio perché ci volevamo dedicare a un progetto sul linguaggio musicale spagnoleggiante, tenendo presente i capiscuola di quel genere. Avevamo sempre bisogno di nuovi stimoli per accendere la luce e arrivare alle persone.

Su cosa si basava negli ultimi anni la ricerca musicale di Pino?

Avevamo questa comune esigenza di eliminare il superfluo, in termini musicali. Volevamo arrivare all’essenza, togliendo invece di aggiungere: attraverso una nota desideravamo comunicare come se avessimo suonato una melodia. Ci stavamo riuscendo, il nostro linguaggio musicale era infatti sempre più minimale. Pino poi aveva un magnetismo incredibile, bastava che aprisse bocca per accendere un mondo.

Il Supergruppo

Questa vostra sintonia vi permise di esplodere a suo tempo con il Supergruppo. Cosa ti è rimasto di quel periodo?

Fu una bella verifica. Raccogliemmo quanto avevamo seminato in quegli anni. Nel concerto finale a Napoli riuscimmo a radunare fan da tutte le città d’Italia. Nessuno se lo aspettava, infatti l’impianto non era all’altezza di uno spettacolo che aveva assunto proporzioni incredibili. Nei dischi e dal vivo ognuno doveva lasciare la propria impronta: con Pino c’era poi una sinergia spirituale. Anche dopo, quando nei dischi successivi abbiamo suonato con musicisti americani, Steve Gadd, Gato Barbieri, Wayne Shorter, tra noi si instaurava un rapporto prima spirituale e poi professionale. Pensa che, anche se questi musicisti non capivano le parole in dialetto, riuscivano a captare la forza etnica e della tradizione che era contenuta nel suo linguaggio musicale.

Quali furono le armi vincenti del Supergruppo?

Riuscimmo a unire diversi linguaggi. Ognuno aveva il proprio suono: mettendoli insieme ottenemmo un risultato ottimo, come gli ingredienti che formano un piatto gustoso. Se ne toglievi uno, perdevi la forza che avevamo in quel momento. Io lo consideravo un cerchio magnetico. Salivamo sul palco e senza parlarci ci capivamo. E alla gente, solo a vederci assieme, arrivava la nostra energia. Fu bellissimo.

Pino e Rino live

Dopo un lungo periodo di lontananza artistica, all’inizio del nuovo secolo vi siete ritrovati con l’album Medina.

Sì, io in quel periodo avevo fatto alcuni album etnici e spesso ci confrontavamo. Anche lui aveva intenzione di guardare verso il nord Africa. Così siamo andati addirittura in Marocco. È nato quindi un album molto interessante. Pino metteva sempre tutto in discussione, al momento in cui arrivava a un linguaggio compiuto, ripartiva da zero su di un altro binario. Non voleva suonarsi addosso. La ricerca era continua, voleva fare sempre un passo in avanti. Anche quando riprendemmo nell’ultimo periodo i pezzi storici, è stato bellissimo perché abbiamo riarrangiato ciò che avevamo suonato più di trent’anni fa, trovando sempre una nuova veste per proporli.

Secondo te, com’è cambiato l’approccio alla musica degli artisti di oggi rispetto ai vostri esordi?

Oggi la musica è più improntata al successo immediato, invece la nostra si basava sulla ricerca, avevamo il desiderio di proiettarci sempre in avanti. Con la scomparsa di Pino viene a mancare l’equilibrio e la potenza che lui rappresentava in questo lavoro di ricerca. Noi andavamo ad ascoltare Gesualdo da Venosa, Pergolesi, i baluardi della Napoli musicale del Seicento. Purtroppo ai napoletani manca la tutela del loro patrimonio artistico, spesso infatti si viene distratti da ciò che arriva da fuori e si finisce per non valorizzare la propria tradizione.