Omar Camporese: talento, cuore e un dritto anomalo letale

Omar Camporese dopo la vittoria contro Ivan Lendl a Rotterdam

Dritto e servizio micidiali, talento, solidità mentale. È il breve ritratto di Omar Camporese, classe 1968, uno dei giocatori italiani più forti dei primi anni Novanta, il primo a tornare tra i top 20 nell’era post Panatta. Con un dritto anomalo letale, che Giampiero Galeazzi nelle sue telecronache ribattezza anche turbo-dritto, il tennista bolognese raggiunge il suo best ranking nel febbraio del 1992, la 18esima posizione della classifica mondiale, dopo aver acciuffato gli ottavi di finale agli Australian Open. Ma il suo periodo d’oro inizia nel 1990, grazie alla finale sulla terra rossa di San Marino, seguita l’anno dopo dal suo primo titolo ATP sul sintetico di Rotterdam, in cui supera nel match decisivo Ivan Lendl in una sfida indimenticabile che si conclude con il punteggio di 3-6, 7-6, 7-6 in favore di Omar. Nei tornei del Grande Slam raggiunge in più occasioni il terzo turno e, come detto prima, gli ottavi in Australia. Anche in doppio compie un percorso di tutto rispetto, vincendo cinque titoli e raggiungendo la posizione numero 27 del ranking. In quegli anni Omar è protagonista di incontri memorabili: come il secondo turno degli Australian Open del 1991, quando affronta Boris Becker, detto “Bum Bum”, grande dominatore del tennis mondiale. Il ventitreenne Camporese tiene in campo il campione tedesco per oltre cinque ore, arrivando a giocarsi il passaggio del turno al quinto set, dove andò in scena un pazzesco testa a testa: i due giocatori tengono i rispettivi turni di battuta fino al 10 pari (nel quinto non c’è tie-break), poi Becker mette a segno il break, portandosi sull’11-10 e preparandosi a servire per il match. Nel game che potrebbe essere decisivo, il tedesco ha tre palle per chiudere l’incontro, ma Camporese tira fuori dal cilindro alcune risposte fulminanti che gli fruttano il contro-break.

La battaglia continua: si strappano il servizio a vicenda, portandosi sul 12 pari. Poi Omar sembra sfruttare il suo turno di battuta, andando sul 40-0, ma qualcosa si spegne. “Bum Bum” riprende in mano il game e lo vince. Questa volta non si fa scappare l’occasione e chiude il match con il punteggio di 14-12. Raggiungono entrambi la rete per stringersi la mano e il tedesco alza anche il braccio di Omar, condividendo gli applausi del pubblico. Chiuso il 1991 al ventiquattresimo posto del ranking mondiale, il 1992 si prospetta un anno straordinario, che potrebbe diventare quello del salto tra i top ten. E in effetti inizia benissimo: vince il torneo indoor di Milano, giocando ad altissimi livelli. In semifinale supera il russo Cherkasov, ma durante l’incontro comincia ad accusare forti dolori al braccio destro. Stringe i denti e disputa la finale contro Goran Ivanisevic, amico e compagno di doppio, una sfida improntata sui rispettivi servizi, che vede trionfare Camporese al terzo set. Arriva così il suo secondo trionfo nel circuito maggiore, che lo prepara al grande salto verso l’olimpo del tennis. Ma proprio da quel momento i problemi al braccio cominciano a farsi seri. È il 1993, infatti, quando è costretto a rimanere sei mesi a riposo, si tratta di epicondilite. Basta così poco perché il tennis cambi: cominciano a emergere gli spagnoli e i sudamericani, giocatori muscolari che scambiano da fondo con colpi arrotati, sbagliando pochissimo. Quando torna in campo Omar non è più quello di prima dell’infortunio e si abitua con fatica a queste novità, per di più i suoi colpi potenti non sono più risolutivi come un tempo. Così la sua scalata in direzione della top ten si trasforma in una caduta libera verso il basso.

Un Camporese memorabile è certamente quello di Coppa Davis, competizione in cui regala prestazioni di altissimo livello: su 21 incontri disputati in singolare ne vince 12, mentre su 9 match di doppio ne conquista 6. Esordisce il 3 febbraio 1989 contro la Svezia, sul veloce indoor di Malmoe, chiamato a sostituire Paolo Canè. Omar batte Pernfors, in quel momento numero 19 della classifica mondiale, portando all’Italia l’unico punto di quella sfida. Nel 1990 c’è la rivincita con la Svezia sulla terra rossa di Cagliari, dove Camporese disputa un ottimo match contro il campione Mats Wilander, cedendo soltanto al quinto set. L’Italia vince comunque grazie a un Canè in grande spolvero. Nel 1991 affronta nuovamente Becker, dopo la memorabile sfida agli Australian Open, sul tappeto indoor di Dortmund per un’Italia – Germania di Davis che vede ovviamente gli azzurri sfavoriti. E invece sia Camporese che Canè danno filo da torcere ai campioni tedeschi: Omar liquida in tre set il gigante Michael Stich con il punteggio di 7-6, 6-1, 6-3, confermando di essere in grandissima forma, sia fisica che mentale. Nel doppio del sabato, infatti, lui e il mancino napoletano Diego Nargiso superano Becker e Jelen in cinque combattutissimi set per 4-6, 6-4, 7-6, 4-6, 6-3. Contro ogni pronostico, l’Italia è in vantaggio 2 a 1 sulla Germania. La domenica si affrontano per primi i due numeri uno: Omar Camporese e Boris Becker. Ancora cinque set indimenticabili, in cui succedono fatti che vanno oltre ogni immaginazione. La principale pietra dello scandalo è il giudice di sedia, che nel corso del match compie errori imperdonabili, dimostrando di non essere all’altezza di una sfida così importante e intensa: nel corso del terzo set fa ripetere a Becker un secondo servizio nettamente out, negando così il break all’italiano. Panatta e Camporese sono furiosi, ma anche al tedesco non piacciono le scelte dell’arbitro e glielo ‘comunica’ in maniera molto animata, arrivando ad arrampicarsi sul seggiolone. «Mandate via quest’uomo, è un incapace» dice Becker verso la tribuna autorità. Alla fine del terzo set viene sostituito il giudice di sedia, caso raro che pare sia accaduto una sola volta nel tennis che conta, precisamente al secondo turno degli US Open del 1979 in occasione di un incandescente match fra Ilie Nastase e John McEnroe. A Dortmund si ripete questo evento straordinario e il match riprende con Camporese che conduce per 2 set a 1, 6-3, 6-4, 3-6. Nel quarto e nel quinto il campione tedesco dà fondo a tutta la sua classe e riprende in mano l’incontro, portando a casa il punto del 2 pari. Purtroppo nel match decisivo Stich non lascia scampo a Paolo Canè, ma di questa sfida resta l’ennesima consapevolezza di aver trovato un nuovo campione: Omar Camporese. Lo conferma nel 1992, quando l’Italia affronta al primo turno la Spagna a Bolzano, sul veloce indoor. Camporese dà una lezione a Sergi Bruguera e a Emilio Sanchez, che in quel momento gravitano nelle parti alte della classifica mondiale, giocando un tennis perfetto, sensazionale, di un altro pianeta. Il primo a finire sotto i suoi colpi implacabili è Bruguera, che viene piegato in quattro set con il punteggio di 6-4, 6-1, 4-6, 6-1. Quel giorno fa il suo esordio in Davis Cristiano Caratti, reduce da un 1991 di risultati sorprendenti, su tutti i quarti di finale agli Australian Open e la vittoria al torneo indoor di Milano. L’italiano conferma di essere un osso duro sulle superfici veloci, perdendo soltanto al quinto set con Emilio Sanchez. Nel doppio Diego Nargiso regala una delle sue migliori prestazioni di sempre insieme a Omar, il quale parte in sordina ma esce alla distanza. Gli avversari sono Casal ed Emilio Sanchez, la tattica dettata da Panatta è chiara: giocare su Casal e sul rovescio di Sanchez. Lo fanno e vincono senza lasciare nemmeno un set alla coppia iberica: 7-6, 6-3, 6-4. Poi il terzo giorno Camporese affronta nel primo incontro Emilio Sanchez, da cui aveva sempre rimediato sconfitte. L’italiano gioca ancora un tennis perfetto, che stordisce lo spagnolo. Solo sul 6-0, 4-0 l’iberico riesce a portare a casa un game, ma Omar non molla un punto e alla fine vince 6-0, 6-2, 6-4. «Caspita che partita quella. Contro Emilio Sanchez credo di aver giocato la più bella partita della mia vita» racconta anni dopo Camporese a «La Nuova di Venezia e Mestre». «Lo vedevo di fronte a me, che non sapeva cosa poter fare perché non lo lasciavo neppure pensare. Un ricordo indelebile della mia carriera». Finisce 4 a 1 per l’Italia, che si qualifica per i quarti di finale contro il Brasile. Gli azzurri volano così a Maceiò, dove però si trovano a giocare in un campo improvvisato in riva al mare, esposto a forti raffiche di vento. Omar riesce a portare il punto iniziale, battendo al quinto set il brasiliano Luis Mattar, dopo sei ore e cinque minuti di battaglia. Poi gioca anche il doppio insieme a Nargiso, cedendo al quinto set. Sul 2 a 1 per il Brasile, la domenica Omar, dopo aver giocato per oltre dieci ore in due giorni, non riesce a scendere in campo per il singolare contro Oncins, lasciando il posto a Stefano Pescosolido, il quale non riesce a portare a termini il match per colpa dei crampi. Alla fine l’Italia è costretta a capitolare.

L’abbraccio con Panatta durante l’impresa di Pesaro contro la Spagna

Nel 1997 la carriera di Omar sembra arrivata al termine: Camporese vince pochi match e la classifica ATP è impietosa. Ma a febbraio succede qualcosa di imprevedibile: viene convocato per il primo turno di Coppa Davis contro il Messico a Roma, sulla terra rossa del Foro Italico. Il nuovo uomo di punta della squadra italiana, Andrea Gaudenzi, ha dato forfait per un infortunio e capitan Panatta decide di puntare sul suo storico pupillo. Questa chiamata è una sorpresa che lascia sconcertato sia il pubblico che la stampa. D’altronde il gioco espresso ultimamente da Omar è lontano da quello degli anni d’oro, ma Adriano crede nella sua voglia di riscatto. Così comincia una preparazione che mira a riportarlo agli antichi fasti. L’impegno con il Messico è alle porte e questo percorso di ‘rinascita’ non è ancora completato. Camporese porta a casa il match contro il diciannovenne Hernandez in quattro set, ma fatica tantissimo. Poi Furlan batte Herrera e la sfida viene chiusa già il sabato con la vittoria in doppio della coppia Nargiso-Pescosolido contro Hernandez-Lavalle. Ad aprile nei quarti c’è la Spagna: sulla carta hanno già vinto, sono nettamente superiori. Per metterli in difficoltà Panatta sceglie di giocare a Pesaro sul tappeto indoor. In campo c’è ancora Camporese ma, se la sua prestazione è simile a quella contro il Messico, potrà fare poco contro gli spagnoli. In quella settimana Omar è numero 156 della classifica mondiale e nel singolare di apertura deve affrontare un certo Carlos Moya, numero 8 del ranking e fresco finalista agli Australian Open. I pronostici sembrano tutti a suo sfavore, perché lo spagnolo è in crescita, poi è giovane e affamato. I primi due set sono equilibrati: l’italiano gioca un ottimo tennis e sfoggia un servizio efficace. Ma non basta: i primi due set li vince l’iberico entrambi al tie-break, 6-7 (8-10), 6-7 (4-7). Nel primo tie break Camporese spreca addirittura due set point, uno con un doppio fallo e l’altro con un dritto a rete. A quel punto, dopo quasi due ore di gioco, l’incontro sembra avviarsi verso l’epilogo che in tanti immaginavano. Tutti pensano, compreso il sottoscritto (e sfido chiunque a dire il contrario), che dopo due set così combattuti, dispendiosi, tirati, il tennista italiano crolli sfinito al tappeto, per usare un termine pugilistico, sventolando bandiera bianca. «Omar fu impagabile» ricorda Adriano Panatta nella sua autobiografia. «[…] Gli scattò qualcosa dentro, ed era proprio quel qualcosa che io aspettavo e che sapevo che Omar portava in dote: un diritto terrificante e un gioco di prima scelta». Camporese non si arrende e continua a macinare campo: serve alla grande, lo spirito è quello di chi non ha più niente da perdere, di chi, seduto alla roulette di un casinò, punta tutto su se stesso. Conquista così il terzo set con il punteggio di 6-1, ma nessuno si illude: un attimo di rilassamento da parte di Moya può anche starci. La questione si fa seria quando vince anche il quarto set con il punteggio di 6-3, superando un crampo sul 4-2 che poteva sancire la resa. Invece torna in campo e vince anche il quinto: dopo circa tre ore e 45 minuti chiude con un altro 6-3, tra l’incredulità di tutti e probabilmente dello stesso Moya. Pesaro esplode: Camporese si conferma un campione, che purtroppo non ha potuto esprimere al meglio in questi anni le proprie potenzialità, mentre Panatta è un grande motivatore. «Il maggior diletto di un match come quello di Camporese non è solo che l’abbiamo vinto, ma che non abbiamo capito» scrive Gianni Clerici su «la Repubblica» con la solita onestà. «Non solo ci siamo sbagliati – tutti gli addetti, giù giù fino all’ultimo raccattapalle – ma ci siamo sbagliati più di una volta, e in modo sempre più clamoroso. E questa sequela di sbagli ha finito per produrre incredulità completa, e smarrimento non solo tra noi, ma anche tra i nostri amici spagnoli che conoscevano pochissimo Omar e credevano addirittura che si trattasse di un giocatore morto e sepolto […]». Dopo Camporese scende in campo Renzo Furlan che, accantonata un’iniziale timidezza che lo porta a subire lo spagnolo, diventa padrone del gioco e supera Carlos Costa al quinto set con il punteggio di 4-6, 6-3, 4-6, 6-4, 6-1. Il sabato c’è il doppio: la collaudata coppia formata da Camporese e Diego Nargiso si sbarazza in quattro set di Javier Sanchez e Francisco Roig, regalando all’Italia una nuova semifinale.

Nonostante queste grandi prestazioni in Coppa Davis, Camporese non riesce a riconquistare il posto che merita nei tornei e nelle classifiche ATP, così nel 2001 si ritira dall’attività agonistica. Oggi, come tanti suoi ex colleghi, continua a vivere di tennis, insegnandolo ai giovani.

Paolo Canè, l’uomo delle imprese

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Paolo Canè

Panatta l’ha definito «l’uomo delle imprese, dei match impossibili». Il tennista bolognese Paolo Canè, classe 1965, ha scritto il suo nome negli annali del tennis, giocando match memorabili in Coppa Davis e agguantando spesso vittorie contro ogni pronostico. Terminata l’era dei vari Panatta, Barazzutti, Bertolucci, Zugarelli, infatti, il movimento tennistico italiano maschile, nella prima metà degli anni Ottanta, vive una fase di smarrimento dovuta all’assenza di un ricambio generazionale. Proprio in quel periodo si affaccia sulla scena Paolo Cané, che gli appassionati, nei momenti di furore agonistico, chiamano Paolino. Fisico esile, asciutto, eppure ha un dritto potente ed efficace, un rovescio ribattezzato ‘turbo’, grande sensibilità nel gioco di volo e nel tocco di palla, capacità di variare il ritmo. Paolino possiede talento e classe da vendere, ma ha anche alcuni punti deboli: una schiena fragile, che a lungo andare gli crea parecchi problemi, passaggi a vuoto a livello mentale che lo rendono discontinuo e un carattere incandescente. Nelle giornate migliori è capace di tutto, anche di mettere all’angolo un fuoriclasse come Ivan Lendl. In questi anni spesso riesce a trasformare i suoi limiti caratteriali in punto di forza. Gli capita soprattutto quando gioca in Coppa Davis, competizione che esalta le sue caratteristiche di combattente, gladiatore nell’arena. Sia chiaro, non è che Canè non abbia combinato nulla nei tornei del circuito ATP. Anzi, in carriera ha vinto tre titoli in singolare, tutti sulla terra rossa, raggiungendo la ventiseiesima posizione del ranking mondiale. Ma nella memoria del grande pubblico, anche per motivi legati alla diffusione televisiva, resta principalmente ‘l’uomo Davis’, quello che, se c’è un’impresa impossibile da compiere, un solo tennista può portarla a termine: Paolo Canè. Su 17 incontri di Coppa disputati in singolare ne vince 9. Mentre in doppio le cose vanno peggio: su 9 match soltanto due vittorie. È viscerale, Cané, quando è in campo non riesce a estraniarsi totalmente da ciò che lo circonda. Non gli basta lanciare un’occhiataccia allo spettatore rumoroso di turno, lui lo prende di petto. Riesce a litigare anche con il proprio pubblico, quello di Roma, mandandolo più volte a quel paese. Ma, appena gli appassionati imparano a conoscerlo, non possono far altro che volergli bene.

I gesti inconsulti vengono cancellati da grandi prestazioni come quelle di Coppa Davis contro la Svezia nel febbraio del 1990, sulla terra rossa di Cagliari, al primo turno. Canè è ispirato e in forma smagliante: il primo giorno batte Jonas Svensson al quinto set, poi lui e Diego Nargiso superano in doppio Jarryd e Gunnarsson. Si va sul 2 pari e il singolare decisivo vede Paolino contro il campione Mats Wilander: l’italiano vince il primo e il secondo set, ma lo svedese risponde portandosi a casa il terzo e il quarto parziale per 3-6, 4-6. Nel quinto set, sul 2 pari, l’incontro viene sospeso per oscurità. Si riparte il lunedì a mezzogiorno con l’azzurro che fa il break e si porta sul 5-2. Potrebbe chiudere nel game successivo quando, sul servizio di Wilander, ha due match point che non riesce a sfruttare. Paolo si innervosisce per l’occasione mancata, ha un passaggio a vuoto e si fa riprendere dallo svedese sul 5 pari. L’azzurro torna al servizio e, sul 40-30, arriva lo scambio più spettacolare del match, quello che resterà nella memoria degli appassionati: dopo un’estenuante sfida da fondo campo, Canè attacca sul dritto di Wilander e va a rete, lo svedese tira un passante che sembra vincente, ma Paolino si oppone con una straordinaria volèe in tuffo, costringendo a rete l’avversario che appoggia la palla dall’altra parte pensando che l’italiano sia finito. E invece no: un generosissimo Canè torna verso la linea di fondo, recupera e spedisce ancora la palla dall’altra parte, l’incredulo Wilander la piazza al centro del campo in demi-volèe e Paolo lo castiga con un passante di rovescio che gli dà il punto del 6-5. L’azzurro cade a terra stremato, subito soccorso da capitan Panatta che lo aiuta ad alzarsi e lo accompagna in panchina. Il pubblico di Cagliari esplode, scandisce in coro il suo nome: Paolino è a un passo dall’impresa.

Nel quinto set non c’è il tie-break, quindi Wilander va a servire per prolungare l’incontro. Ma ora Paolo è più determinato del suo avversario e si porta sul 15-40, guadagnando due match point. Lui e Panatta si guardano, il capitano è teso, Canè non riesce a star fermo. Risponde benissimo alla prima di servizio di Wilander, poi si sposta e attacca con il dritto, seguendolo a rete. Lo svedese alza la palla, il primo smash di Paolo riesce a recuperarlo, il secondo chiude il match. L’Italia batte la Svezia grazie a uno splendido Canè. Panatta e i compagni corrono in campo ad abbracciarlo, viene portato in trionfo. Giampiero Galeazzi, che commenta l’incontro per la RAI, è emozionato: «Canè è riuscito a superare anche se stesso» dice, sottolineando come Paolino abbia preso in mano la squadra, portandola alla vittoria. E si lascia scappare anche un «sembra di essere tornati ai tempi di Panatta». Nella bolgia l’azzurro ha un tracollo e viene accompagnato a spalla da Nargiso fuori dal campo. «La sua vittoria a Cagliari contro Mats Wilander resta la più bella delle emozioni, e anche uno degli incontri più incredibili cui abbia assistito» ricorda Panatta nel libro Più dritti che rovesci. «Cuore e testa matta. Uno capace di guardare negli occhi lo svedese numero uno del mondo e fargli il vicht dopo ogni punto conquistato, lo stesso gesto che Wilander aveva reso famoso nel circuito».

L'abbraccio di Firenze
Canè e Panatta, l’abbraccio di Firenze

Purtroppo l’Italia non riesce a dare seguito a questa grande vittoria: nel turno successivo perde infatti con l’Austria di Muster e Skoff. Prima di concludere, credo che sia doveroso citare anche l’impresa compiuta contro l’Australia a Firenze nel 1993, che non si concretizza nel passaggio del turno ma resta comunque un ricordo straordinario per il sottoscritto e per tutti gli appassionati. Dopo aver chiuso le prime due giornate sul 2 a 1 per l’Australia, con le vittorie nei singolari di Fromberg su Renzo Furlan e di Stefano Pescosolido su Woodford, nonché nel doppio della coppia Woodforde-Woodbridge su Canè-Nargiso, Paolo viene chiamato a sostituire uno spento Furlan contro Woodforde nel primo match della domenica, che potrebbe regalare la vittoria all’Australia o il 2 a 2 all’Italia. In quei giorni l’australiano gravita intorno alla ventesima posizione del ranking mondiale, mentre Canè è a pochi passi dalla duecentesima. Molti addetti ai lavori lo danno per spacciato, altri addirittura lo considerano già un ex giocatore. Non è dello stesso avviso Panatta, che lo conosce bene e punta su di lui. In una torrida domenica di luglio, l’azzurro viene chiamato nuovamente all’impresa: non molla un colpo, combatte, si esalta, litiga con i tifosi australiani, infiamma il pubblico di Firenze con il suo tennis, il carisma, la generosità. In quattro set piega il più quotato Woodforde e regala il 2 pari all’Italia. Alla fine del match abbraccia Panatta e scoppia in lacrime, l’emozione è fortissima, per lui e per noi che abbiamo seguito l’incontro. Purtroppo Pescosolido perde la sfida decisiva che lo vede opposto a Richard Fromberg. Resta però il ricordo di una grande prestazione di Paolo Canè, l’uomo delle imprese impossibili.

 

Thomas Muster: caduta e resurrezione «dell’animale»

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Thomas Muster

Ieri é iniziato il torneo ATP di Miami, uno dei Master1000 della stagione, appuntamento che tanti anni fa segnò l’esistenza del tennista Thomas Muster. Appena ventunenne e in piena ascesa, il campione austriaco vide la sua vita e la sua carriera scorrere veloce davanti ai propri occhi nel parcheggio dell’impianto di Miami. Ma prima di raccontare caduta, resurrezione e trionfi di quello che molti addetti ai lavori al tempo ribattezzarono ‘l’animale’, é il caso di spiegare ai più giovani chi é stato Muster negli anni Novanta, ovvero uno dei più grandi tennisti sulla terra battuta del decennio. Vincitore del Roland Garros nel 1995 e numero 1 del mondo nei primi mesi del 1996, Muster ha vinto quarantaquattro titoli ATP, di cui quarantuno sulla terra rossa. Atleta eccezionale, gambe e fiato da maratoneta, istinto animale, l’austriaco surclassava i propri avversari prima sul piano fisico, grazie a una solidità e una resistenza eccezionale, e poi su quello tecnico, imponendo i suoi colpi arrotati e martellanti da fondocampo. Non si distinse di certo per la bellezza del suo tennis, ma per l’efficacia sì.

Eppure la carriera di Thomas Muster il 1° aprile 1989 sembrava compromessa, addirittura al capolinea. Il tennista era impegnato proprio nel torneo di Miami, sull’isolotto di Key Biscayne, e aveva appena battuto in semifinale il francese Yannick Noah, dopo una fantastica rimonta che si era conclusa al quinto set con il punteggio 5-7, 3-6, 6-3, 6-3, 6-2.  Thomas aveva ventuno anni e si era già affermato come specialista della terra rossa, vincendo i primi tornei su quella superficie. Questa finale avrebbe rappresentato un’importante chance di consacrazione anche sul cemento, proiettandolo tra i protagonisti assoluti del circuito ATP. L’indomani avrebbe dovuto affrontare il campione Ivan Lendl per il titolo, ma quel match non si disputò mai. All’uscita dall’impianto infatti, mentre era intento a sistemare l’attrezzatura nel bagagliaio della propria auto, gli piombò addosso a tutta velocità una vettura guidata da un uomo ubriaco. Thomas fu sbalzato per alcuni metri e il ginocchio sinistro sembrò subito compromesso. Finì sotto i ferri e i dottori immediatamente furono molto scettici sulle condizioni della sua gamba e sulla possibilità di tornare a giocare.

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Muster si allena sulla panca, 1989

In quel momento uscì fuori l’animo del combattente, l’animale ferito che lotta fino all’ultimo respiro. Non poteva finire in questo modo. A un paio di mesi dall’incidente, Muster partecipò alla cerimonia di premiazione degli Internazionali d’Italia sul Centrale del Foro Italico, quell’anno vinti dall’argentino Alberto Mancini, una presenza quella dell’austriaco che sapeva tanto di riconoscimento consolatorio per una carriera terminata così presto. “Camminavo ancora con le stampelle” raccontò alla Gazzetta dello Sport nel 2015. “La gente si commosse, e quando dissi al microfono ‘Tornerò l’anno prossimo per vincere il torneo’ vidi che tutt’attorno erano risolini e facce piene di dubbi. È vero, era una scommessa un po’ azzardata, in realtà avrei potuto addirittura rimanere zoppo”. Probabilmente il pubblico non conosceva abbastanza il temperamento dell’austriaco, quindi prese le sue dichiarazioni come battute di buon auspicio, magari per farsi forza. Non sapevano che Thomas stesse già programmando il suo rientro. Si era fatto costruire da un falegname una sedia speciale che gli permise di riprendere gli allenamenti anche durante la riabilitazione. Ricominciò a giocare da seduto, allenando il busto e il braccio e mantenendo ferma e sollevata da terra la gamba ingessata. Compiendo un autentico miracolo, Muster fu pronto al rientro nel mese di settembre del 1989, ad appena cinque mesi e mezzo dall’incidente. E mantenne la promessa: partecipò all’edizione del 1990 degli Internazionali d’Italia, conquistando il torneo. In finale batté il russo Andrej Chesnokov con il punteggio di 6-1, 6-3, 6-1. Quella fu la sua resurrezione, l’inizio della sua nuova vita.

Dedizione e sacrificio fecero sì che l’austriaco si imponesse a metà degli anni Novanta come grande dominatore sulla terra rossa. Nel 1995 vinse 12 tornei e 40 match di fila sulla terra, record superato soltanto anni dopo da Rafa Nadal con le sue 81 vittorie sul rosso. Quell’anno vinse di nuovo gli Internazionali d’Italia, superando in finale un altro specialista come lo spagnolo Sergi Bruguera, poi conquistò gli Open di Francia, battendo in finale Michael Chang a cui non concesse nemmeno un set. Ma la vittoria più incredibile dell’annata fu quella ottenuta al torneo di Monte Carlo. Quella settimana Muster appariva più stanco del solito. Nonostante le condizioni non ottimali raggiunse la semifinale, dove incontrò il nostro Andrea Gaudenzi, amico e compagno di allenamenti. Il match fu molto tirato e carico di tensioni, assumendo nel finale toni drammatici: l’austriaco portò a casa la vittoria in due set, ma uscì in barella e fu ricoverato in ospedale, dove trascorse la notte attaccato a una flebo. Nell’altra semifinale il tedesco Boris Becker aveva avuto ragione in tre set del croato Goran Ivanisevic e aspettava in finale Muster. In molti avrebbero scommesso che quella sfida non si sarebbe giocata, considerate le condizioni dell’austriaco appena ventiquattro ore prima. Invece Thomas, uscito dall’ospedale il mattino dopo, decise di scendere in campo ugualmente contro “Bum Bum” Becker, in quel momento numero 2 del mondo, disputando un match memorabile. Muster sembrava rinato: correva da una parte all’altra senza sosta, costringendo Becker a una estenuante maratona. Nonostante tutto il tedesco si aggiudicò i primi due set per 6-4, 7-5, apparendo più lucido nei momenti decisivi. L’austriaco portò a casa agevolmente il terzo set per 6 giochi a 1, sfruttando un calo dell’avversario. Ma fu il quarto set a rappresentare il nodo cruciale del match: i due procedettero in equilibrio fino al 6 pari; nel tie-break Becker riuscì ad allungare sul 6-4, guadagnando due match point che però sciupò malamente con un doppio fallo e un dritto a rete. Da quel momento Muster salì in cattedra: vinse prima il tie-break per 6 a 8 e poi giocò un quinto set senza sbavature, rifilando un sonoro 6-0 a un Becker annichilito. Bum bum uscì dal campo furioso, e in conferenza stampa attaccò duramente Muster, gettando sospetti su questo suo rapido recupero. Thomas rispose sottoponendosi volontariamente al test antidoping, che risultò negativo, eliminando così qualsiasi sospetto sulla sua straordinaria vittoria.

Come ho già detto, nel febbraio del 1996 Muster diventò numero uno del mondo e a maggio si laureò di nuovo campione degli Internazionali d’Italia, battendo in finale l’olandese Richard Krajicek. A questo proposito nel 2015, sempre alla Gazzetta dello Sport, confessò: “Ho avuto da subito un rapporto particolare col vostro paese e il vostro pubblico, che ha sempre capito i miei sforzi e li ha apprezzati. Anche anni dopo, quando sono tornato al torneo, la gente mi fermava: ‘Ciao, Tommaso’. Mi riconoscevano più che in Austria”.