Negli anni duemila ho intervistato Eugenio Finardi diverse volte: prima per Il Fatto Quotidiano, poi per Leiweb, nei giorni della sua partecipazione al Festival di Sanremo del 2012. Tra le due occasioni, nel 2011 ci sentimmo anche per un’intervista che sarebbe finita nel mio libro “Il tempo della musica ribelle. Da Cantacronache ai grandi cantautori italiani”. Desideravo infatti sapere da lui quanto le realtà musicali di Cantacronache e del Nuovo Canzoniere Italiano avessero influenzato la sua di “musica ribelle”. Come sempre Finardi fu molto sincero, non risparmiando anche qualche critica all’approccio di alcuni membri del Nuovo Canzoniere Italiano. A distanza di tredici anni ripropongo quell’intervista in cui emergeva un interessante spaccato della nostra storia musicale.
Eugenio, tu sei entrato nel mondo della discografia nei primi anni Settanta. Che ricordo hai dell’ambiente musicale dell’epoca?
Sono entrato nel mondo discografico nel 1973. A quei tempi ci si ritrovava alla Galleria del Corso, come ha raccontato anche Pagani nel suo libro, e lì si creavano formazioni musicali nuove. C’erano degli appartamentini, dove attualmente ci sono le Messaggerie Musicali e la Sugar, con delle stanzette e in ognuna c’era un pianoforte, un compositore e un paroliere. Qualcuno arrivava e magari chiedeva di un bassista da inserire nel proprio gruppo. Io fui scelto, nel lontano 1971, come chitarrista di Marino Marini ed entrai nell’ambiente dove poi ho conosciuto Mauro Pagani, Alberto Camerini e altri amici. Nel 1973 fui preso dalla Numero Uno di Battisti. È lì che conobbi Lucio, Lavezzi, Mogol, il produttore Claudio Fabi, papà di Niccolò. La direttrice artistica era Mara Maionchi. Proprio nelle stanze della Numero Uno incontrai Demetrio Stratos. Tra di noi nacque una bella amicizia. Fu lui a presentarmi Gianni Sassi. E da lì iniziò il mio percorso artistico.
Il tuo primo album, “Non gettate alcun oggetto dai finestrini“, uscì nel 1975. Il disco conteneva la cover “Saluteremo il signor padrone”, canto popolare lanciato da Cantacronache. Come mai scegliesti di inserire questa canzone nell’album?
L’idea nacque per gioco. A me e ad Alberto Camerini divertiva molto riprendere brani che a livello musicale risultavano abbastanza noiosi. Così decidemmo di dare a questo pezzo una propulsione rock. Venimmo criticati tantissimo, soprattutto dalla Marini, per quel tipo di arrangiamento. Per loro era un sacrilegio rimaneggiare in versione rock quella canzone. A livello musicale eravamo troppo europei per essere compresi a pieno.
Quanto è stata influenzata la tua musica dal lavoro di riscoperta del canto sociale svolto da Cantacronache e dal Nuovo Canzoniere Italiano?
Noi eravamo influenzati moltissimo da Oreste Del Buono, il quale era proiettato in avanti, verso l’elaborazione e la personalizzazione della tradizione popolare. Ivan Della Mea e Giovanna Marini, invece, tendevano ad essere diffidenti verso questo tipo di approccio. Un atteggiamento buonissimo dal punto di vista filologico, ma che secondo me frenava l’evoluzione e la crescita. Il lavoro del Nuovo Canzoniere Italiano è stato grandioso dal punto di vista della ricerca e della riscoperta, ma un po’ meno da quello della rilettura della tradizione e della sperimentazione musicale. Noi volevamo fare rock italiano basato sulle nostre radici. Loro, invece, sono rimasti esageratamente fermi sulle loro posizioni senza risparmiare critiche a noi che invece volevamo sperimentare nuove soluzioni musicali. Questo, secondo me, è stato il loro grande limite.
Sempre a metà degli anni Settanta, dopo l’uscita del tuo primo album, hai fatto da spalla prima a Fabrizio De Andrè e poi alla PFM. Quanto ha segnato quella esperienza la tua produzione discografica successiva?
Pochissimo. Lo so che sembrerà strano. Io e Alberto Camerini avevamo delle radici musicali che affondavano in Woodstock e l’Isola di Wight. Eravamo figli dei Beatles e dei Rolling Stones. Per noi tutta la musica italiana era una cagata pazzesca, a parte la musica popolare, che appunto prendevamo dal Nuovo Canzoniere Italiano. Dietro questa nostra posizione c’era una motivazione ideologica legata alla possibilità di edificare, dalla tradizione musicale popolare, il nuovo rock italiano. La mia amicizia con De Andrè non nacque da un’affinità artistica. Io conoscevo pochissimo del suo repertorio e quel poco non mi piaceva nemmeno particolarmente. E lui apprezzava questo fatto. Era contento che io non lo trattassi come una santa reliquia. Il nostro era un rapporto critico, ma molto costruttivo. Anche Dori (Ghezzi) lo ricorda bene. Spesso gli dicevo: “Fabrizio, perché voi cantautori ripetete la stessa frase alla fine della strofa, inventatene un’altra!” E lui mi spiegava che era un richiamo alla tradizione popolare. Così io comprendevo il suo mondo e la sua musica.
Gli anni Settanta sono stati anni molto difficili a livello sociale e politico. Tra i giovani c’era un fermento implacabile e spesso i cantautori venivano contestati. Anche De Gregori e De Andrè non rimasero immuni da questi attacchi. Questa contestazione toccò anche te?
Noi eravamo parte attiva del Movimento. Io e Alberto Camerini abbiamo cominciato a cantare in italiano perché volevamo dare una mano. Quando iniziò il casino, ovvero quando fecero il processo a De Gregori, noi non smettemmo. Anche perché avevamo la coscienza pulita. Io non ero diventato ricco appoggiando il Movimento. Io avevo guadagnato qualche soldo facendo concerti. Quindi, al momento in cui molti miei colleghi smisero di suonare per il clima che si era creato intorno a loro, io continuai sulla mia strada, insieme agli Area e a qualcun altro. Furono comunque giorni molto duri.
Tu hai sempre avuto un’attività live intensissima. Anche negli anni Settanta hai fatto centinaia di concerti. Ricordi qualche episodio particolare accaduto durante una delle tue esibizioni?
Sì, certo. Ai tempi, i concerti spesso venivano interrotti per tenere comizi. Una volta ci trovavamo al mercato dei fiori di Brescia e un tipo salì sul palco, da solo. Lo lasciammo parlare perché sarebbe stato antidemocratico non dargli spazio. Ma lui, all’improvviso, fece il grande errore di prendere a calci i pedali del chitarrista. A quel punto, lo prendemmo in due e lo sbattemmo giù dal palco. Ci rimase in mano un’abbondante ciocca dei suoi folti capelli. Queste erano forme di narcisismo e di cialtroneria che non sopportavo.
Cosa ti spinse, alla fine degli anni Settanta, a rallentare con l’attività live e a “rifugiarti” fuori Milano?
Il clima a Milano era molto pesante. Io avevo subito varie intimidazioni. Mi bucarono le gomme della macchina. Addirittura una notte venni anche seguito. Insomma, non c’era una bella atmosfera. E poi un ulteriore episodio che mi convinse a uscire fuori Milano fu la nascita di mia figlia Elettra con la Sindrome di down. Da quel momento iniziò il mio percorso come cantautore, forse dall’esigenza di analizzare ciò che mi stava succedendo. I miei anni Ottanta sono stati molto più duri e meno romantici dei Settanta.
Incontrai Claudio Lolli nell’ottobre del 2011 mentre ero nel pieno della stesura del mio libro “Il tempo della musica ribelle – Da Cantacronache ai grandi cantautori italiani”. Claudio fu molto gentile, disponibile e ospitale. Mi chiarì i suoi rapporti con il repertorio di Cantacronache e del Nuovo Canzoniere Italiano per poi svelarmi un po’ di aneddoti sul suo percorso musicale non privo di ostacoli. Fu un incontro intenso, straordinario, che mi arricchì sia come autore sia come persona. L’intervista finì poi nel libro che stavo scrivendo.
Claudio è scomparso da quasi sei anni, ma ancora oggi porto con me il poco tempo trascorso insieme come un bagaglio pieno di storie e umanità. Per questo voglio riproporre qui la nostra chiacchierata.
È una mattina di fine ottobre 2011, nuvolosa ma non fredda. Sto per incontrare un altro dei grandi cantautori italiani che negli anni Settanta ha conosciuto il suo momento migliore. Un ribelle. Uno che non è mai sceso a compromessi. Uno a cui la musica ha dato, poi ha tolto e poi ha ridato. Sto parlando di Claudio Lolli, il cantautore bolognese. Ma anche il professore di italiano e latino. Per caso mi trovo nella sua Bologna. Fumo con avidità una sigaretta, anche se non dovrei farlo, e in mano ho la biografia di Claudio, “La terra, la luna e l’abbondanza”, e un numero del 1975 della rivista del Nuovo Canzoniere Italiano, miracolosamente scovata in un negozio di libri usati. Via Indipendenza alle 11 e 30 del mattino è così popolata da rendere difficile qualsiasi appuntamento. Nonostante il traffico fitto e incessante di pedoni, riconosco la barba e lo sguardo da sognatore di Claudio Lolli. Ci sediamo a un tavolo e cominciamo la nostra chiacchierata. Claudio ha molto in comune con Cantacronache e il Nuovo Canzoniere Italiano. Anche lui ha raccontato spicchi di storia del nostro Paese attraverso le proprie canzoni. Per questo e per altri motivi è sempre stato considerato un cantautore ingombrante. Da tutti. Dai partiti alle grandi case discografiche. Sì, perché Claudio, fin dai suoi esordi, ha rivolto una dura critica al mondo che lo circondava e alla classe sociale a cui apparteneva. Erano anni difficili quelli che tra la fine dei Sessanta e i Settanta. Anni in cui gli studenti contestavano. Ma anche gli operai. E i cantautori non potevano essere da meno. Non era permesso un rifiuto alla militanza. Chi non lottava, rischiava di essere contestato a sua volta. Erano tempi in cui nascevano il Movimento studentesco e Lotta Continua, una delle più importanti sigle della sinistra extraparlamentare italiana. Ma anche Avanguardia Operaia e Potere Operaio. In questo clima sociale incandescente, nacque “Aspettando Godot”, il primo album di Claudio Lolli. Il disco venne concepito in parte sui banchi del liceo. Passando per il salotto di casa Lolli, in cui un attento Piero Guccini decise di portare Claudio dal “fratellone” Francesco che gestiva al tempo l’Osteria delle Dame, locale che dava spazio agli artisti emergenti. Tutti quei musicisti che avevano qualcosa di nuovo da proporre, che volevano far ascoltare a un pubblico, anche solo di amici e conoscenti, le proprie canzoni. Su quel palco salì anche un Claudio Lolli poco più che ventenne. E così iniziò la sua carriera di cantautore. Poco tempo dopo arrivò l’album “Aspettando Godot”. Nel disco uno dei brani che ancora oggi resta il fiore all’occhiello della produzione di Lolli, “Borghesia”. Il cantautore bolognese rivelò subito la sua fame di verità, denunciando il punto di vista bigotto e individualista della borghesia. L’attenzione alla gestione e alla cura della propria ricchezza. L’esigenza spasmodica di affondare la lingua nelle pene altrui e di mantenere a tutti costi il proprio status quo. Una borghesia ottusa, per cui la più grande sventura era di ritrovarsi “una figlia artista” o “un figlio non commerciante”.
“Vecchia piccola borghesia per piccina che tu sia non so dire se fai più rabbia, pena, schifo o malinconia. Sei contenta se un ladro muore se si arresta una puttana se la parrocchia del Sacro Cuore acquista una nuova campana…..”
“….Non sopporti chi fa l’amore più di una volta alla settimana chi lo fa per più di due ore, chi lo fa in maniera strana. Di disgrazie puoi averne tante, per esempio una figlia artista oppure un figlio non commerciante, o peggio ancora uno comunista.”
“Sempre pronta a spettegolare in nome del civile rispetto sempre lì fissa a scrutare un orizzonte che si ferma al tetto. Sempre pronta a pestar le mani a chi arranca dentro a una fossa sempre pronta a leccar le ossa al più ricco ed ai suoi cani.”
Questa canzone rappresenta ancora oggi uno dei manifesti della produzione di Lolli.
Poi venne “Un uomo in crisi. Canzoni di morte, canzoni di vita”. Le canzoni del disco, pubblicato nel 1973, raccontavano un’umanità vittima di una crisi profonda, radicata soprattutto negli strati più bassi del tessuto sociale dell’epoca. Il disagio delle periferie, la lotta civile, la piaga dei suicidi nelle caserme italiane furono alcuni degli argomenti trattati nell’album. Nella canzone “Morire di leva – A un amico siciliano”, Claudio descrisse l’inadeguatezza di un ragazzo alla vita militare, le ombre che la leva aveva portato nella sua vita e il triste destino che gli aveva riservato. Il cantautore bolognese mise l’accento sull’ipocrisia dei superiori e la loro tendenza a ridurre a pura pazzia un gesto che poteva sottintendere responsabilità morali ben precise.
“Il colonnello, col fumo nella testa, va fino in fondo lui alla sua inchiesta. Non ci fu colpa, nessuno ebbe colpa alcuna, il suo cervello cercatelo sulla luna, il suo cervello cercatelo sulla luna. Perché non può altro che dirsi matto, colui che compie un così insano atto.
Il cappellano si associa al risultato, ricorda a tutti che uccidersi è un peccato, ricorda a tutti che uccidersi è un peccato. Porca Eva, proprio a te è toccato morire di leva.”
Nel 1975 fu la volta di “Canzoni di Rabbia”, un disco nato da un’esigenza catartica, la necessità di raccontare la propria rabbia. Quella che aveva provato poco tempo prima di incidere questo album, quando rimase rinchiuso dieci giorni nel carcere di Regina Coeli per aver dato del fascista a un poliziotto. Come lui stesso raccontò: “un poliziottovolgare e aggressivo”. Così nacque “Canzoni di rabbia”. Un album diviso in due parti: la prima in cui si parlava di rabbia solitaria, la seconda in cui cantava la rabbia lucida. Claudio non raccontò l’episodio con riferimenti diretti, ma con una sofferenza esistenziale che racchiuse tutto lo sconforto di quegli anni, il senso di inadeguatezza di fronte a quel mondo gonfio di arroganza e di violenza. Poco tempo dopo arrivò il suo disco di maggior successo, “Ho visto anche degli zingari felici”, pubblicato dall’EMI nel 1976. Un album straordinario, in cui si alternavano rabbia, indignazione, commozione, ironia e poesia. Mai come in questo lavoro il cantautore bolognese espresse la sua grande capacità di racconto della cronaca attraverso la canzone, sempre con un punto di vista personale, ma con quel sentimento diffuso di indignazione che accomunava in quei giorni tutti i cittadini feriti dallo scoppio di tanta violenza. L’album ebbe un successo sopra ogni aspettativa. Nel giro di pochi giorni vendette più di centomila copie, affacciandosi anche nella top ten nazionale. In quell’occasione dimostrò tutta la propria abilità nel raccontare uno spaccato della storia d’Italia. In “Agosto”, per esempio, rievocò la strage dell’Italicus. Dell’attentato terroristico che la notte del 4 agosto del 1974 causò 12 morti e 48 feriti. Quando il treno espresso Italicus, mentre si trovava all’altezza di San Benedetto Val di Sambro, in provincia di Bologna, venne dilaniato da una bomba posizionata nella vettura numero 5. Claudio riuscì a fermare in quella canzone tutte le controverse emozioni di quei giorni d’agosto. Compreso il sentire comune che fosse una strage “più o meno di Stato”.
“Agosto. Che caldo, che fumo, che odore di brace. Non ci vuole molto a capire che è stata una strage, non ci vuole molto a capire che niente, niente è cambiato da quel quarto piano in questura, da quella finestra. Un treno è saltato.”
In questa strofa Lolli fece anche un chiarissimo riferimento alla morte del Pinelli, di cui abbiamo già parlato prima. Pinelli salta dalla finestra e muore. L’Italicus salta in aria. Due drammi rimasti oscuri. Due “salti” che nascondevano qualche cosa di oscuro e, ancora oggi, assai misterioso.
“Agosto. Si muore di caldo e di sudore. Si muore anche di guerra non certo d’amore, si muore di bombe, si muore di stragi più o meno di Stato, si muore, si crolla, si esplode, si piange, si urla. Un treno è saltato.”
“Agosto” era la seconda traccia dell’album. Dopo veniva “Piazza, bella piazza”, brano che rappresentava un continuum con il precedente. Anche qui si parlava dei poveri e ignari passeggeri dell’Italicus e di una piazza, Piazza Maggiore a Bologna, quella che ospitò le bare delle vittime dell’attentato.
“Piazza, bella piazza, ci passò una lepre pazza…
Ci passarono dieci morti i tacchi, e i legni degli ufficiali, teste calve, politicanti un metro e mezzo senza le ali, ci passai con la barba lunga per coprire le mie vergogne, ci passai con i pugni in tasca senza sassi per le carogne.”
Claudio descrisse la rabbia verso le autorità che serpeggiava quel giorno tra la gente. Raccontò l’indignazione, l’impotenza e la vergogna, rammaricandosi di non avere in tasca i sassi da lanciare alle carogne, ovvero gli “ufficiali” e i “politicanti” presenti a quel funerale. E nella strofa successiva diede anche un nome a quelle presenze sgradite.
“E fu il giorno dello stupore e fu il giorno dell’impotenza, si sentiva battere il cuore, di Leone avrei fatto senza, si sentiva qualcuno urlare “solo fischi per quei maiali, siamo stanchi di ritrovarci solamente a dei funerali”.
Lolli citò nella canzone il Presidente della Repubblica di allora, Giovanni Leone, in carica dal 1971 al 1978, figura controversa nella storia del nostro Paese. Quel giorno anche lui partecipò al funerale insieme alle altre autorità. Il susseguirsi di stragi, morti, disperazione di quegli anni, infatti, condizionò tantissimo la celebrazione del rito di saluto. La stanchezza di ritrovarsi solo a dei funerali fu espressa con tutta la rabbia a disposizione dei cittadini di una Bologna annichilita dal dramma e dal dolore.
Alla luce di quanto finora raccontato, mi sembra impossibile non considerare anche Claudio Lolli un figlio di Cantacronache e del Nuovo Canzoniere Italiano. Per questo torniamo alla mattina di fine ottobre in cui l’ho incontrato in un bar di via Indipendenza. Davanti a un bicchiere di vino bianco, mi ha chiarito tanti dubbi e mi ha regalato tante preziose curiosità.
Claudio, partiamo dalla fine. C’è una continuità tra il lavoro di Cantacronache, del Nuovo Canzoniere Italiano e voi cantautori degli anni Settanta?
C’è una continuità indiretta e implicita, nel senso che questa attenzione alla realtà, al sociale, alla storia, agli ultimi della terra, certamente io l’ho appresa da loro. E, come me, molti cantautori di quegli anni. Anche se io non ho mai cercato di fare qualcosa che tendesse all’inno o al canto di protesta, alla canzone esplicitamente militante. Io ho cercato sempre di fondere questa mia attenzione per la realtà e per gli ultimi con un mio punto di vista fortemente personale. Per anni sono stato impegnato nei Movimenti, ma non ho mai avuto un legame stretto con la politica come lo avevano Cantacronache e il Nuovo Canzoniere Italiano. Io ho cercato di mantenere la mia originalità in quello che faccio. Anzi, credo che a loro avrebbe dato fastidio se noi cantautori ci fossimo messi a imitarli o ci fossimo improvvisati esperti di canti popolari.
Tu hai suonato insieme a Ivan Della Mea. Con Fausto Amodei, invece, hai condiviso addirittura un’intera serata. Cosa ricordi di quegli incontri?
Di Ivan mi ricordo che ogni volta che ci incrociavamo mi chiedeva sempre, con il suo fare apparentemente brusco: “Lolli, ce l’hai un mi cantino”. Perché lui puntualmente lo rompeva ad ogni concerto. Ha fatto grandi cose Ivan per la ricerca nell’ambito del canto sociale. Invece di Fausto Amodei ero un ascoltatore accanito. Mi piaceva tantissimo. I dischi ce li ho ancora. Con lui ci siamo visti due o tre volte. Poi abbiamo fatto una serata insieme a Torino. Era la fine degli anni Ottanta. Fu uno spettacolo in due tempi. Io feci il mio repertorio e lui fece il suo. Mi pare che insieme interpretammo “I morti di Reggio Emilia”. Poi ci vedemmo un’altra volta a Roma, al Folkstudio.
Tu hai anche ripreso La ballata del Pinelli e l’hai personalizzata. Un altro caso insoluto legato alla strage di Piazza Fontana. La misteriosa morte di un anarchico che, a detta di chi lo conosceva, non si sarebbe mai gettato dalla finestra di sua spontanea volontà. Perché sentisti l’esigenza di riprendere questa canzone?
Mi piaceva moltissimo. Nei miei spettacoli c’è sempre stata particolare attenzione alla storia contemporanea. Poi da quell’episodio, secondo me, sono partiti i grandi misteri della storia d’Italia. Gli oscuri fatti che si nascondevano dietro la così detta strategie della tensione. Quasi nessuno dei miei ascoltatori, soprattutto quelli più giovani, sapeva niente di quel periodo. Il testo l’ho preso da un canzoniere di protesta di quegli anni. C’erano anche degli omissis che io ho riempito mettendo nomi e cognomi.
I tuoi anni Settanta furono splendidi. Dischi molto belli, tra cui il tuo capolavoro “Ho visto anche degli zingari felici” e tanti concerti. Il decennio successivo, invece, non fu molto fortunato dal punto di vista musicale. Un momento di svolta nella tua vita fu l’anno 1985, quando tu vincesti un concorso e cominciasti a insegnare. Il tuo primo incarico fu come supplente al liceo di Porretta Terme. Come mai prendesti la decisione di dedicarti all’insegnamento? Ci fu qualche episodio in particolare che ti portò a non considerare più la musica come unica fonte di sostentamento?
Accadde una cosa molto semplice: non mi chiamavano più a suonare. Erano gli anni di Craxi e della discomusic. Quello che io facevo era fuori moda, semplicemente fuori luogo. In quegli anni lì, io ho continuato a fare dischi. Ma dal vivo non suonavo quasi più. Facemmo uno spettacolo con Giampiero Alloisio, con la regia di Giorgio Gaber, che si intitolava “Dolci promesse di guerra”. Una cosa che sulla carta si presentava abbastanza prestigiosa. Lo spettacolo era ben fatto dal punto di vista musicale. Riuscimmo a fare a stento una quindicina di date con una scarsa partecipazione di pubblico. Così diventò imbarazzante, umiliante, proporre cose che nessuno voleva ascoltare. Mi trovai nel bel mezzo del così detto riflusso storico. E starci dentro non fu molto piacevole. L’ultimo anno, prima di iniziare a insegnare, dovetti fare cose veramente imbarazzanti, unicamente per soldi. Purtroppo campavo con la musica e non potetti dire di no. A quel punto feci il concorso per insegnare. Lo vinsi e mi assegnarono una cattedra. Andavo a suonare quando mi chiamavano, ma finalmente potevo dire anche di no.
È stato un modo per ricavarsi quello spazio di libertà che, per esempio, oggi è difficile da ottenere per un artista, tra major e obblighi promozionali. Non credi?
Non solo quello. A parte qualche grande nome, oggi i cantanti durano qualche anno. Ma dopo? Spesso ragazzi giovanissimi mi chiedono di ascoltare le loro registrazioni. Io cerco di incoraggiarli, ma anche di disincantarli un po’. Se uno viene da me e mi dice che vuole lasciare l’università perché sente che ha il talento per fare il cantante, io lo sconsiglio vivamente. Gli dico di fare sia l’uno che l’altro. Li invito a non diventare ricattabili, a non dipendere totalmente dagli altri. Io ho continuato a scrivere e a pubblicare. Poi ho anche incontrato dei musicisti con cui era possibile suonare così, nei ritagli di tempo. Tra cui il chitarrista Paolo Capodacqua, con cui in questi anni ho fatto una media di cinquanta serate l’anno.
Torniamo un attimo al tuo esordio nella Bologna dei primi anni Settanta, sul palco dell’Osteria delle Dame di Francesco Guccini. Cosa ricordi di quel momento?
C’era questo locale che Francesco gestiva a Bologna. E il sabato sera, dopo una certa ora, c’era una sorta di palco libero. Chi voleva, poteva salire sul palco e far sentire qualcosa. Io ci capitai un sabato che i suoi discografici della EMI erano venuti a trovarlo. Era appena uscito il suo disco “Radici” e stava vendendo tantissimo. I discografici ascoltarono alcuni miei pezzi e appena sceso dal palco mi dissero che dovevo assolutamente andare da loro a Milano per firmare un contratto. Così iniziò tutta la storia.
Tu sei stato uno dei cantautori più amati tra i giovani del Movimento. Ma i partiti, invece, come ti vedevano?
Non ero ben voluto a Bologna dai partiti. Sono sempre stati molto diffidenti nei miei confronti. Dopo il ’77, infatti, alle feste dell’Unità non mi chiamarono più. Se non qualche appassionato. Con il tempo sono diventato troppo scomodo.
In che senso?
Nel senso che politicamente non ero allineato. Nel ’77 a Bologna è stata dura. Ci fu un ferocissimo scontro tra il PCI e i movimenti di sinistra. Ai tempi non si capirono.
Poi è arrivato il successo con “Ho visto anche degli zingari felici”, l’album in cui hai raccontato la realtà che ti circondava in tutte le sue contraddizioni.
Sì, raccontai fatti veri, storie di piazza. Mescolati anche al mio privato.
A proposito di piazza. Come vedi oggi la piazza e il movimento studentesco?
Mi sembra che ci sia un risveglio delle coscienze, un bel segnale di partecipazione dal basso. È bello vedere che non ci sia più tanta anestesia nel nostro Paese. Riguardo agli scontri della fine del 2011, beh, non so cosa pensare perché non ho testimonianze dirette, se non quelle che si vedono in tv. Quindi è troppo facile condannarli ed è troppo semplice anche assolverli.
Tu ancora insegni?
Da quest’anno non più. Sono appena andato in pensione.
A me ha sempre destato curiosità il rapporto tra studente e il prof/cantautore. I ragazzi a cui insegnavi conoscevano il tuo passato?
Prima o poi arrivavano a scoprirlo. E a loro non dava fastidio. Anzi, gli faceva piacere. Il mondo della scuola è abbastanza asfittico. Si trovano professori che lavorano come impiegati, attenti alla verifica e alla somministrazione di nozioni e basta. Sapere che il loro insegnante avesse una vita anche al di fuori, che pubblicasse dischi e facesse concerti, era per loro stimolante. Ha funzionato molto bene dal mio punto di vista. Io ci sono stato benissimo nel mondo della scuola, soprattutto per il contatto con gli studenti. Loro mi hanno insegnato tanto, soprattutto a sconfiggere la mia timidezza. Una volta un mio collega mi disse: “Io senza registro sotto il braccio non mi sento nessuno.” Io, invece, senza registro ci stavo benissimo.
Questa intervista a Gualtiero Bertelli la realizzai nel 2010 sempre per il libro Il tempo della musica ribelle. Compositore e ricercatore, tra i protagonisti del Nuovo Canzoniere Italiano, Bertelli resta uno dei massimi cantori della condizione sociale e culturale veneta negli anni Sessanta.
Gualtiero Bertelli
La sua esperienza di ricercatore e compositore con il Nuovo Canzoniere Italiano iniziò nel 1964. Gualtiero cantava la sua Venezia, quella in cui è nato e vissuto per una vita. Ha raccontato la realtà sociale dell’epoca attraverso degli spaccati di vita vissuta, sempre influenzato dalla sua provenienza culturale. Bertelli, infatti, ha delle radici molto umili. Originario della Giudecca, noto quartiere di Venezia in cui era molto diffuso l’operaismo. Il padre operaio, la mamma casalinga. Una famiglia umile che viveva in un quartiere notoriamente di sinistra. A cinque anni venne iniziato dal padre allo studio della fisarmonica, strumento che caratterizzò la scelta di dedicarsi alla musica popolare. Anche se il suo primo complesso, nato in età adolescenziale, aveva una marcata connotazione rock. Studiò all’istituto magistrale, dedicandosi all’insegnamento elementare. L’amore per la canzone d’autore arrivò con il passare degli anni, soprattutto con il suo coinvolgimento nella politica. Ma alla fine del 1963, grazie all’incontro con alcuni componenti di Cantacronache, con cui era stato messo in contatto da Luigi Nono, Bertelli cominciò il suo percorso con il Nuovo Canzoniere Italiano. Proprio nell’ambito di questa esperienza formò, insieme a Luisa Ronchini e Alberto D’Amico, il primo nucleo del Canzoniere Popolare Veneto. Comincerà così, nel 1964, il lavoro di ricerca sulla musica popolare, sul canto sociale veneto e su quello di altre regioni italiane. Gualtiero ha cominciato scrivendo canzoni che raccontavano la realtà in cui viveva, usando il suo dialetto, la lingua della classe operaia. Si è occupato e si occupa tutt’oggi del recupero del repertorio musicale della tradizione popolare veneta e della composizione di nuovi brani in dialetto ispirati alla condizione sociale e culturale di Venezia. Lo spettacolo “Tera e aqua”, ambientato nella Venezia di quegli anni e proposto per la prima volta nel 1966, rappresentò l’esordio del Canzoniere Popolare Veneto. Dallo spettacolo venne tratto il disco Addio Venezia addio, pubblicato nel 1968 dall’etichetta Dischi del Sole. Quella fu una grande annata per Bertelli, infatti, nello stesso anno, pubblicò Nina ti te ricordi, una delle sue canzoni più celebri.
Gualtiero, domanda di rito, come è avvenuto il primo contatto con la musica di Cantacronache?
Ho sempre suonato la fisarmonica, fin da quando ero bambino. All’inizio mi esibivo in un complessino per ripagare le spese. In quegli anni frequentavo la scena culturale e politica veneziana. C’erano parecchi giovani che partecipavano. E proprio in quei giorni cominciarono ad arrivare alla libreria Internazionale, uno dei nostri luoghi di ritrovo, i dischi del Cantacronache. Mi appassionai subito a quel tipo di canzoni, a quel modo di comunicare. Così decisi di cominciare a scrivere canzoni che rappresentassero le mie convinzioni. Io abitavo alla Giudecca, un quartiere di Venezia, e proprio in quel periodo Liberovici e altri musicisti del Cantacronache vennero lì a fare un concerto. Così ebbi modo di conoscerli e apprezzarli. Così cominciai ad appassionarmi alla musica popolare e al canto sociale.
Quanto ha influito su questa tua passione il fatto di appartenere a una famiglia operaia?
Tantissimo. Mio padre era un metalmeccanico e mia madre una casalinga. Abitavamo alla Giudecca, che ai tempi era la parte più povera della città. Una zona proletaria, con una tradizione comunista molto forte. L’antifascismo era alla base della nostra cultura. Io sono cresciuto in quell’ambiente e nelle mie canzoni ho messo il punto di vista di chi veniva da quella tradizione culturale.
Ho letto una bellissima presentazione che ti ha dedicato Straniero su di un numero della rivista Nuovo Canzoniere Italiano. La ricordi?
Sì, fu proprio Michele Straniero a introdurmi nel Nuovo Canzoniere Italiano. Lui mi venne a cercare allo studio in cui provavo e mi chiese di partecipare allo spettacolo “Bella ciao”, che si sarebbe tenuto a Spoleto.
Qual era il suo rapporto con Bosio e Leydi?
Bosio lo conobbi a Mantova. Assistette a una mia esibizione. Gli piacquero moltissimo le cose che raccontavo nelle mie canzoni. Parole legate alla mia terra, alla mia cultura e alle mie umili origini. Devo ammettere che sia lui che Leydi mi hanno molto valorizzato.
Nel frattempo avevi formato il Canzoniere Popolare Veneto.
Sì, lo fondai poco tempo dopo il mio ingresso nel Nuovo Canzoniere Italiano. La storia del Canzoniere Popolare Veneto iniziò dalla mia collaborazione con Luisa Ronchini. Poi arrivò D’Amico. Cominciammo con lo scavare nella tradizione veneta, nell’esplorare un mondo sconosciuto a molti.
Qualche mese fa è scomparso Ivan Della Mea. Che ricordo hai di lui?
Ivan è stato un punto di riferimento per me. Lui si distingueva per l’uso del dialetto milanese nelle sue canzoni. In questo senso il suo contributo è stato fondamentale. Per quanto mi riguarda mi ha dato coraggio per continuare sulla strada del dialetto.
Secondo te, da cosa è dipesa la fine del Nuovo Canzoniere Italiano?
La fine del Nuovo Canzoniere Italiano è stata caratterizzata da un processo lento, durato parecchi anni. Iniziò con la morte di Gianni Bosio, un duro colpo per tutti visto che lui era la coscienza cultura e politica del gruppo. Con il tempo venne meno anche il sostegno economico. La situazione politica italiana di fine anni Settanta diede il colpo di grazia a questa esperienza. Il terrorismo era diventato la nuova piaga da annientare. Il lavoro di ricerca del Nuovo Canzoniere venne considerato superato per i tempi che correvano.
Questa intervista con Paolo Pietrangeli l’ho realizzata nel 2011 per il mio libro “Il Tempo della musica”.La ripropongo qui perché, come tutte le interviste ai protagonisti di Cantacronache e del Nuovo Canzoniere Italiano, rappresenta una preziosa testimonianza di un mondo che non c’è più.
Da sinistra Francesco Guccini, Paolo Pietrangeli, Giovanna Marini.
Una laurea in filosofia. Una storia musicale iniziata nel 1966, con l’assassinio di Paolo Rossi. “Grazie a quella canzone ho fatto un mestiere straordinario, ho conosciuto persone che altrimenti non avrei mai incontrato, ho visto luoghi che non avrei mai visitato”. In quegli anni Paolo, figliolo del regista Antonio Pietrangeli, cominciava a sentire l’aria di rivoluzione che tirava dopo gli anni del boom economico. Così iniziò a scrivere canzoni dal contenuto socio-politico, diventando a poco a poco uno dei rappresentanti della canzone di protesta. I giovani sessantottini lo adottarono come uno dei “loro” cantautori. Alcune canzoni divennero la colonna sonora delle agitazione. Paolo Pietrangeli scrisse quelli che divennero gli inni della contestazione universitaria, “Valle Giulia” e “Contessa”. Le due canzoni videro l’interpretazione, come seconda voce, di Giovanna Marini. La prima fu ispirata dagli scontri tra studenti e forze dell’ordine all’interno della facoltà di architettura dell’università di Roma. Quel grave episodio, avvenuto il primo marzo 1968, fu il focolaio di una rivolta molto più ampia che sarebbe scoppiata dopo pochi mesi. La canzone descrisse, senza lasciare troppo spazio alle metafore, cosa avvenne in quella giornata. Uno scontro aspro e inusuale, visto che gli studenti fino a quel momento non erano mai arrivati a un contatto così diretto con le forze di polizia. Non siam scappati più, non siam scappati più, recitava il ritornello. In quel momento Pietrangeli si trovava in facoltà insieme ad altri giovani “rivoluzionari”. Ma la canzone cult del repertorio di Paolo Pietrangeli, che ancora oggi sopravvive all’usura del tempo e delle rivoluzioni, è certamente “Contessa”. L’intramontabile colonna sonora del ’68 italiano fu ispirata da un episodio casuale, una conversazione captata in uno sciccoso caffè di Roma. “Contessa” rappresenterà uno degli esempi di canzone popolare, che sottolinea l’avvicinamento e il muoversi in maniera coordinata delle lotte studentesche e quelle operaie. Nel 1969, infatti, sarà la volta dell’autunno caldo che “incendierà” le fabbriche. Pietrangeli, dopo il grande successo di “Contessa”, continuò a scrivere canzoni. Ma verso la fine degli anni Sessanta cominciò a occuparsi anche di cinema. Fu aiuto regista di Mauro Bolognini, per poi lavorare, negli anni successivi, con Luchino Visconti e Federico Fellini. Il suo nome, ancora oggi, è saldamente legato a “Contessa”. Una profonda sensibilità e una malcelata timidezza. La lotta. L’intolleranza per l’ingiustizia sociale. Pare che di recente abbia anche dichiarato: “Tutti mi attribuiscono canzoni politiche, ma io credo di aver scritto sempre e solo brani su persone o fatti che mi stavano a cuore“.
Giovanni Straniero e Mauro Barletta raccolsero, qualche anno fa, una dichiarazione di Paolo Pietrangeli riguardante l’opportunità o meno di parole forti come quelle di Contessa e di altre sue canzoni. “È chiaro che quando scrissi Contessa – diceva Pietrangeli – non c’era il terrorismo. Adesso dovrei pesare più col bilancino le parole, ma all’epoca, se si diceva <<facciamo la rivoluzione>>, non è che si pensasse a sparare”.
Paolo Pietrangeli nel 2019
Paolo, quando ha cominciato a scrivere canzoni?
Avevo quattordici anni. Cinquanta anni fa. Un’abitudine che risale alla mia adolescenza.
Come è venuto a contatto con la canzone sociale e di protesta?
Quando mio padre portò a casa i dischi di “Cantacronache”. Nel ’64, poi, quando era già nato il Nuovo Canzoniere Italiano, fecero lo spettacolo “Bella ciao”. E da lì cominciai a seguirli. Mi intrigò moltissimo quel modo di cantare. Era un periodo in cui la canzone italiana classica era insopportabile, una canzone smielata. C’era un velo di novità perché finalmente la canzone era legata alla realtà circostante. Nel ’66, i miei amici mi portarono alla libreria Rinascita dove il Nuovo Canzoniere Italiano presentava “La linea rossa”, una linea editoriale fatta su quarantacinque giri. Con quella produzione volevano conquistare un mercato che non si conquistò mai. Quel giorno registrai tutto quello che avevo a disposizione, ma persero il nastro. Così i miei amici, che erano più cocciuti di me, mi portarono a casa di Giovanna Marini. Lì registrammo di nuovo tutte le mie canzoni e passammo un bellissimo pomeriggio. Io registrai tutto quello che avevo fatto fino a quel momento. Questo nastro fu mandato a Milano. Appena lo ascoltò, Gianni Bosio disse a Giovanna di portarmi da lui. Siccome qualche giorno dopo a Venezia era in programma lo spettacolo “Terra e Acqua”, da Roma presi il treno per la città lagunare. Da quel treno non sono mai più sceso. Ecco come sono entrato nel Nuovo Canzoniere Italiano.
Che ricordo ha di Gianni Bosio?
Era una persona che mi metteva in soggezione. Devo dire molto severa. Poi, conoscendolo, negli anni ho capito che la sua era timidezza. Uno storico di grande spessore, molto acuto. Uno dei primi a capire che la storia non era fatta solo di trattati di pace e guerre, ma di usi, costumi, tradizioni. Fu illuminante. Così nacque una bella amicizia, che si interruppe presto perché morì per un attacco di appendicite.
La canzone “Contessa” è stata il punto di riferimento della gioventù sessantottina. In che circostanze nacque?
Io ero studente di Filosofia. Ci fu l’uccisione di Paolo Rossi, che non era un calciatore, ma uno studente che venne gettato giù dalla scalinata della facoltà di Lettere e Filosofia e morì sbattendo la testa. Questo fatto incendiò le coscienze di tanti. Così cominciarono manifestazioni e occupazioni. I fascisti, che fino a quel momento avevano spadroneggiato, vennero cacciati dall’università. Questa occupazione io non la vissi completamente perché i miei genitori erano molto severi. Erano contrari all’idea che io dormissi fuori. Quindi facevo un’occupazione part-time. E questo innescò nella mia coscienza parecchi sensi di colpa. Così scrissi questa canzone. Credo che sia l’ultimo esempio di canzone che si è tramandato di bocca in bocca, senza l’aiuto delle radio e dei mezzi di comunicazione.
L’episodio di via Veneto, che spesso si sente raccontare, è vero?
Non era in via Veneto, ma a piazza Istria. Vicino casa mia. Precisamente al bar Negresco, frequentato da generali in pensione e persone che non appartenevano certo al popolo. Insomma non dalla gente comune. In quei giorni, ogni volta che ci si affacciava al bar, si origliavano discorsi insopportabili nei confronti degli studenti che stavano occupando le università. Così scrissi”Contessa”.
Cosa la spinse a scrivere degli episodi di “Valle Giulia”?
La storia di Valle Giulia è molto semplice. Partecipai alla manifestazione e assistetti agli scontri. E appena tornato a casa cominciai a scrivere questa canzone che vide la sua versione definitiva dopo quattro cinque giorni.
Sia in “Valle Giulia” che in “Contessa” ‘appare’ sempre la voce di Giovanna Marini. Come mai?
Perché ai tempi non ero iscritto alla SIAE. Ecco perché fu coinvolta Giovanna, anche se poi divenne parte fondamentale di quella canzone con il suo riff di chitarra.
E dell’esperienza con il Nuovo Canzoniere Italiano che cosa ricorda?
Avevamo un modo di procedere straordinario. Da una parte c’eravamo noi che eravamo il cosiddetto braccio armato, andavamo a cantare e racimolavamo qualche soldo che poi davamo all’Istituto Ernesto de Martino per continuare questo lavoro di ricerca. Noi eravamo degli intellettuali che andavano in giro a cantare e non cantanti in cerca di un posto di lavoro. Le nostre riunioni milanesi ci facevano sentire parte di un gruppo. E poi, in un periodo in cui c’era una tendenza alla divisione della sinistra, noi tentavamo di tenere insieme tutta la sinistra, dai socialisti agli autonomi.
Torniamo alle sue canzoni. Come la prese la sua famiglia sapendo che lei era uno dei punti di riferimento musicali della protesta?
Inizialmente non capirono. Un giorno origliai un discorso tra mio padre e mia madre. Dicevano che io non avevo né arte né parte e che avrebbero dovuto camparmi loro per tutta la vita. Però li sentii dire, riferendosi a “Rossini”: “però quella canzone è piena di talento”. Questo è un ricordo bellissimo.
In quegli anni stavano uscendo fuori Fabrizio De Andrè e Francesco Guccini. Il primo si dichiarò anarchico, l’altro invece era molto più schierato. Come vedevate voi cantautori il loro ingresso nell’ambiente musicale?
Era un altro percorso, assolutamente legittimo. Li giudicavamo dalla simpatia e l’antipatia. Loro facevano un mestiere, quello di scrivere canzoni e testi. E cercavano di far fruttare la propria arte. Nessuno di noi, invece, aveva intenzione di fare il cantante, né credeva di esserne in grado.
Poco tempo fa è venuto a mancare Ivan Della Mea. Che ricordo ha di lui?
È come se fosse scomparso un pezzo di me, nonostante vivessimo in città diverse e avessimo spesso punti di vista contrastanti su molti argomenti. Una settimana prima che morisse ci eravamo fatti una cantata insieme a Montevarchi, a testimonianza che c’era un grandissimo legame tra di noi. Ivan era così, pieno di chiusure, ombroso, poi però era capace di grandissimi slanci. È stato un talentuoso poeta dialettale. Le cose che ha scritto sono le migliori della letteratura italiana, non solo della canzone.
Nonostante siano trascorsi molti anni, come spiega che ancora oggi una canzone come “Contessa” venga ricordata e cantata da molti giovani?
6 ottobre 2009. Ore 16.45. Per le strade di Roma sembra primavera. Ho un appuntamento al bar di Testaccio con una delle musiciste più rappresentative del Nuovo Canzoniere Italiano e della musica popolare in generale: Giovanna Marini. Arrivo con dieci minuti di anticipo. Non voglio farla attendere. Anche lei arriva in anticipo. Così alle 17 siamo già seduti al tavolino del bar. Giovanna è conosciutissima dai clienti del bar, perché insegna alla scuola di musica popolare di Testaccio, che si trova proprio lì a pochi passi. Ogni persona che entra la saluta con affetto. Dopo aver ordinato il suo solito tè, cominciamo la nostra chiacchierata. Ma iniziamo dalla fine. Da Ivan Della Mea, un compagno, un amico scomparso da pochi mesi. Ne parla con rimpianto. “Eravamo tutti molto preoccupati per lui. L’avevo visto pochi giorni prima a Bergamo. Era amareggiato e stanco. La malattia l’aveva logorato”, mi dice, “i suoi erano problemi di salute anche gravi ma, se li avesse tenuti sotto controllo, poteva conviverci tranquillamente. E invece lui si è lasciato andare”. La sua voce è un misto di rabbia e commozione. Chiudo subito l’argomento perché vedo che Giovanna è commossa e mentre sorseggia il tè dice: “Dopo la morte di Ivan sono rimasta sola”. Comincio così a farle un po’ di domande sulla storia del Nuovo Canzoniere Italiano.
Come e quando è iniziata la tua avventura con il Nuovo Canzoniere Italiano?
È iniziata nel 1963. Con un incontro avuto con Roberto Leydi, che era venuto a Roma a sentirmi al Folkstudio. A quel tempo suonavo musica classica con la chitarra e ogni tanto mi azzardavo a cantare le ballate francesi e inglesi. Io ho trascorso gran parte dell’infanzia in Inghilterra, quindi ero molto influenzata da quel tipo di cultura musicale. In più avevo mia nonna che era francese. Quando venne Roberto ad ascoltarmi, cantai delle canzoni antiche dell’alta Savoia. Leydi rimase molto colpito e mi chiese di andare a Milano a registrarle. Da quel momento è iniziata la mia esperienza con il Nuovo Canzoniere Italiano. Ma io non sapevo nemmeno cosa fosse il canto popolare. Leydi mi aprì la porta su un mondo nuovo. Grazie a lui venni a contatto con Gianni Bosio e Ivan Della Mea, persone fondamentali per la mia crescita artistica.
Erano i primi anni Sessanta. Che clima c’era per le strade?
Ricordo poco del clima italiano dei primi anni Sessanta. Ero appena tornata dall’America. Mi ricordo che lì era appena morto Kennedy, cominciavano le prime contestazioni contro la guerra in Vietnam. Era un’America vivissima, interessante. Con le lotte razziali nel Sud. Tornando in Italia ho trovato un clima vivacissimo, in cui sembrava ci fosse spazio per un messaggio, per dire delle cose. A noi ci chiamò un funzionario del PCI di Torino, che ci voleva mettere a disposizione un camion per andare a cantare le canzoni del nostro repertorio davanti alle fabbriche. Oggi, una cosa del genere non potrebbe mai accadere.
Tu hai frequentato intellettuali del calibro di Pasolini. Ma più determinante di tutti gli altri è stato l’incontro con Peppino Marotto.
Sì. Peppino era un poeta. Io e Franco Coggiola lo andavamo a trovare spesso. L’ultima volta ho visto anche lui molto stanco, perché andare controcorrente logora. Nel suo paese erano cresciuti problemi legati all’abusivismo, all’invasione del cemento. Peppino lavorava alla Camera del Lavoro di Orgosolo. Era una persona che voleva fare le cose per bene. Chissà contro chi si era messo. Alla fine l’hanno ucciso con cinque colpi di fucile, due anni fa circa, mentre acquistava il giornale. Peppino è stata una delle persone che mi ha fatto appassionare al canto popolare, insieme a Matteo Salvatore e alla mamma di Luigi Chiriatti.
Il tuo esordio con il Nuovo Canzoniere Italiano risale allo spettacolo “Bella Ciao”, tenutosi a Spoleto. Cosa ricordi di quella esibizione?
È stata una scoperta per me. In quella occasione ho conosciuto Caterina Bueno e ho capito dove ero capitata. Fino a quel momento erano dei simpatici amici. Con “Bella Ciao” ho compreso il tipo di impegno politico e il lavoro di ricerca che svolgevano. È stato molto importante quello spettacolo per comprendere a pieno la strada intrapresa dal Nuovo Canzoniere Italiano. La cosa che mi colpì di più fu il clamore del pubblico. Non avrei mai pensato che fosse così indignante ciò che cantavamo. Si incazzarono proprio. Io ero stupitissima, anche perché, essendo musicista, non facevo molto caso alle parole, mi sono sempre interessata di più alla musica, all’armonia, alla linea melodica. In quel caso io sentivo tutti che urlavano e non capivo perché. Michele Straniero fu contestato appena cantò la strofa di “O Gorizia tu sei maledetta”, che diceva ‘traditori signori ufficiali’. Capirai, là era un mondo di ufficiali, della gente dell’alta borghesia che non concepiva gli si cantassero queste cose. Addirittura erano indignati pure per la presenza di Giovanna Daffini, perché era una contadina.
Poi c’è stato, alla fine del 1965, “Ci ragiono e canto”, diretto da Dario Fo.
A quello spettacolo parteciparono anche i pastori di Agius. Io mi affezionai molto a quelle persone perché erano molto diverse da me. Pure con Pietrangeli ci conoscemmo nel 1965. Lui arrivò con un codazzo di amici. Frequentava ancora il terzo liceo.
In un’occasione tu decidesti di non salire sul palco e venisti sostituita. Come mai?
Ah, sì. A Spoleto qualche anno dopo. Io dovevo fare la voce per uno spettacolo di Berio, ma non me la sentivo proprio. Da una parte la paura di non essere all’altezza, all’epoca arrivavo con la voce al si bemolle, dall’altra avevo i bambini e per di più insegnavo. Così gli scrissi una lettera per spiegargli il motivo della mia rinuncia, mettendo avanti una scusa ideologica dicendo che non sarei voluta tornare a Spoleto, dove qualche anno prima ci avevano contestato, nelle vesti di gregaria. Ma la motivazione reale era molto più semplice e pratica.
Come vedevate i nuovi cantautori che stavano uscendo in quegli anni?
Io ho conosciuto De Andrè, Guccini, De Gregori e Venditti. Con De Gregori c’è stata immediatamente una grande simpatia e lo mandai da Caterina Bueno a suonare la chitarra con il suo gruppo perché lui voleva uscire di casa e gli servivano i soldi. Lui scriveva canzoni e cercava da noi il lancio. Io gli dissi subito che il Nuovo Canzoniere non poteva permetterselo e che noi avevamo avuto la fortuna di ritrovarci sui giornali per il casino che era scoppiato a Spoleto, così eravamo riuscita a ottenere un po’ di pubblicità. Poi lui, in tempo di contestazione, si presentava con “Buonanotte fiorellino” perché Francesco è stato sempre bastian contrario. E lo è tutt’ora. Gli secca terribilmente essere all’unisono con gli altri. È il suo carattere. È una persona molto seria e onesta a cui voglio molto bene. Guccini l’ho conosciuto durante un Festival. Una persona molto colta, simpatica. Mentre De Andrè lo conobbi a Milano nello studio di Nanni Ricordi. Ero andata da Nanni per fargli ascoltare le mie canzoni. Lui mi disse che erano troppo colte, troppe distinte dal resto. E mi disse: “Giovanna, adesso ti faccio sentire uno che fa canzoni buone”. Era un giovane timidissimo, con la sua chitarra e i capelli che gli coprivano gli occhi. Era Fabrizio De Andrè. Ascoltai “Via del campo” e dissi a Nanni: “il testo è bellissimo, ma per la musica potrebbe fare di più ‘sto ragazzo’”. (Ride)
Come mai non avete mai ceduto alle lusinghe del mercato?
Devo dire la verità. Ai tempi mi chiamò la RCA per farmi un contratto, ma io rifiutai perché avevo paura di perdere i miei amici, che erano tutti puri e duri. Mi sentivo giudicabile. Soprattutto da Ivan (Della Mea). Quindi preferii restare con le Edizioni del Gallo. Non guadagnavo una lira con loro, però mi piaceva di più la situazione. Io sono contenta così. Non è una coerenza di tipo puro, ideologica, è legata ad alcune coincidenze.
Perché finì l’esperienza del Nuovo Canzoniere Italiano?
L’esperienza del Nuovo Canzoniere è andata scemando. Si è diluita. La morte di Gianni Bosio e di Giovanni Pirelli credo che siano state determinanti. Il primo aveva le idee, mentre il secondo investiva il denaro in questa avventura. La loro scomparsa ha accelerato molto la fine di questa esperienza. Adesso siamo rimasti io, Paolo, Bertelli e Portelli. La morte di Ivan è stata un duro colpo.
Insieme a Paolo Pietrangeli, tu sei l’unica che ha continuato a fare musica. Quanto è cambiato da allora l’approccio verso la musica popolare?
Moltissimo. I DAMS hanno permesso la formazione di giovani musicologi, i quali hanno portato il canto popolare nell’accademia. Svolgono ricerche, studi, non perdono di vista i cantori. Loro sono diventati dei professionisti nel campo. Noi basavamo le nostre ricerche più sui rapporti di amicizia che su basi professionali concrete.
Da una parte un filosofo che si muoveva fuori dai classici schemi accademici, esistenzialista, eversivo, fatalista, che aveva pubblicato la sua prima opera, La morte del sole, a 55 anni; dall’altra un cantautore che aveva costruito il suo successo su testi criptici e colmi di citazioni, ma a tratti intrisi di ironia e dissacrazione. In comune la terra di origine, la Sicilia, e qualche amico. Quella tra Manlio Sgalambro e Franco Battiato è stata una delle collaborazioni più prolifiche della musica leggera, ma anche tra le più discusse. Questo sodalizio non convinse parte della critica musicale e tanti fan storici dell’artista, al punto che lo scrittore Aldo Busi una volta definì Sgalambro, in maniera scherzosa, come “la Yoko Ono di Battiato”. Ma anche il filosofo Massimo Cacciari, in occasione della scomparsa di Battiato, ribadì all’Ansa le perplessità su questa collaborazione: “Sgalambro era uno schopenhaueriano, era Schopenhauer. Non credo abbia fatto molto bene questo filone critico e sostanzialmente pessimistico a Battiato[…]”. Ad altri, tra cui il sottoscritto, questa simbiosi non dispiacque.
Tutto ebbe inizio dopo il successo dell’album Caffè de la Paix, quando Battiato decise di abbandonare la strada che lo aveva portato fin lì per affidarsi alla penna di Manlio Sgalambro, da quel momento autore della maggior parte dei versi delle sue canzoni. I due si erano conosciuti nel 1993 alla presentazione di un libro di poesie del comune amico Angelo Scandurra. Sgalambro aveva appena pubblicato il saggio Contro la musica, in cui poneva una questione metafisica sull’ascolto della musica. “Quel che vorrei fosse chiaro è che, con la musica, da un certo punto in poi l’Occidente ha trasformato una esperienza dello spirito in un fatto di cultura” scriveva Sgalambro. “Cioè in qualche cosa di amministrabile, di pianificabile, di storicizzabile. Ma lo spirito non si lascia né amministrare né pianificare né storicizzare”. Il filosofo colse l’occasione per regalarne una copia a Battiato, il quale rimase colpito dalla sua scrittura pungente, sovversiva, e decise di coinvolgerlo nella stesura dell’opera dedicata a Federico II di Svevia, Il cavaliere dell’intelletto, che gli era stata commissionata dalla Regione Siciliana. “[…] Mi portò un assegno di 60 milioni per fargli un libretto d’opera: accettai” raccontò Sgalambro nel gennaio 2014 al giornale siciliano FreeTime in quella che poi fu la sua ultima intervista. “Dopo poco gli dissi che, se avesse accettato lui, gli avrei scritto in venti giorni un album completo: così nacque L’ombrello e la macchina da cucire”. Da quel momento prese il via un sodalizio che durò quasi vent’anni e li vide realizzare insieme dischi come L’ombrello e la macchina da cucire, L’imboscata, Gommalacca, Ferro battuto, Dieci stratagemmi e Il vuoto, in cui il filosofo mescolò nichilismo e sarcasmo, fatalismo e lucido cinismo. Il primo fu L’ombrello e la macchina da cucire, che vedeva il volto di Sgalambro in primo piano sulla copertina, quasi a volerne sancire l’ingresso nel mondo di Battiato. Il disco era intriso di riferimenti e citazioni dirette e indirette, dalla scienza alla filosofia. Dai moti particellari di Robert Brown al pensiero di Guglielmo di Occam, passando per l’omaggio al madrigalista Gesualdo da Venosa. Con questo lavoro Battiato chiuse un’epoca, sia perché fu l’ultimo con la EMI sia perché, insieme al filosofo, cominciò a esplorare la realtà sociale e il rapporto tra gli uomini, raccontando l’essere umano calato in un’esistenza non sempre sferzante, motivante, adatta alla sua essenza. E il brano Breve invito a rinviare il suicidio fu il biglietto da visita di questa nuova prospettiva.
Va bene, hai ragione Se ti vuoi ammazzare Vivere è un’offesa Che desta indignazione Ma per ora rimanda È solo un breve invito, rinvialo
“Cara amica, scrive Anatol, voi mi chiedete… di rispondervi su una questione sempre urgente come quella del suicidio… Procurerò di rispondervi, brevemente come decenza in queste cose. … Ascoltatemi, trattate i moti dell’animo come i moti dell’intestino. Un giorno bisognerà certo spararsi ma intanto viviamo […]” scriveva anni prima proprio Sgalambro in una sua opera. “Quanto al nostro discorso, sappiamo entrambi che per l’eroe morale esso – il suicidio – è sempre possibile, egli ha sempre aperte le porte del mondo da cui uscire come per una passeggiata. Sorride e tira alla tempia… Vi autorizzo a uccidervi, sì, ma solo in un momento di gioia”. Questo percorso continuò con il coinvolgimento sempre maggiore del filosofo anche nella registrazione dei dischi. L’imboscata, il successivo, si apriva infatti con la voce recitante di Sgalambro che introduceva il brano Di passaggio con alcuni versi di Eraclito, recitati in greco antico, sul tema della canzone, ovvero la fugacità della vita terrena, i veloci mutamenti che riguardano gli umani e il mondo che li circonda. Inutile ribadire che le vette più alte della loro collaborazione le raggiunsero con La cura, brano in cui furono capaci di vestire il sentimento di divino, il pop di straordinaria eleganza. E continuarono ancora per anni, viaggiando tra sperimentazione e divertimento. Come quando nel 2001 registrarono il primo album di Sgalambro, Fun Club, in cui il filosofo rivisitava grandi classici come Cheek to cheek, As time goes by, Moon river, Parlami d’amore Mariù, La mer e La vie en rose, lasciando spazio all’attualità di allora soltanto con la sua versione di Me gustas tu di Manu Chao. Era proprio quest’ultima, cantata spesso da Sgalambro nelle sue sortite sul palco di Battiato, a mandare in visibilio il pubblico. Proprio qualche mese fa Angelo Privitera, storico collaboratore del cantautore, ha ricordato in un’intervista a Rolling Stone la complicità che c’era tra i due: “[…] Sgalambro era geniale, e anche lui molto ironico. Un giorno ci trovavamo in Marocco, a Marrakech, per un concerto, e in giro per la città Sgalambro si stancò. Franco serenamente fermò un tizio col motorino, fece salire il filosofo dietro, come una volta facevano le donne sulle lambrette, per farlo accompagnare in hotel. Manlio non si scompose”.
Nonostante l’intesa umana e artistica, il rapporto tra Battiato e Sgalambro non fu tutto rose e fiori. Insieme dialogarono e si confrontarono tantissimo, ma litigarono anche, via fax, telefono o e-mail per una parola da cambiare, da togliere o da aggiungere, un sinonimo da ricercare. “Con Battiato abbiamo avuto lunghe liti, che duravano parecchio” dichiarò il filosofo sempre nell’intervista a FreeTime. “Poi uno dei due, in genere lui, telefonava e il rapporto riprendeva. Tutti i litigi erano per un rigo da cambiare in una canzone: io non accettavo le esigenze della musica e per lui questo era costoso”. Il loro sodalizio durò fino al 2012, poi decisero di prendere definitivamente strade differenti. Nell’ultimo periodo della sua vita Sgalambro parlò della sua esperienza nella musica come di una distrazione dalla sua attività principale, facendo trasparire anche un po’ di rammarico per averci speso troppo tempo. Battiato, invece, non si espresse mai pubblicamente sulla fine della loro collaborazione. Finché la mattina del 6 marzo 2014, alla soglia dei novant’anni, il cuore del filosofo si fermò improvvisamente mentre era impegnato in faccende domestiche. Se ne andò così, senza preavviso e senza clamore. Raggiunto dall’Ansa per un ricordo, un Battiato affranto non volle rispondere: “Non ho nulla da dire, è una cosa privata, è un dolore personale molto forte”. Il giorno del funerale fu uno dei primi ad arrivare nella chiesa del Crocifisso dei Miracoli, a Catania. Occhiali da sole a proteggere gli occhi lucidi dalla commozione, volto provato, altro non fece che rivendicare il diritto di restare in silenzio per onorare l’amico e sodale volato via, in mondi lontanissimi, in attesa della reincarnazione.
Su Syd Barrett, il fondatore e primo leader dei Pink Floyd, si è scritto e detto tanto negli ultimi cinquant’anni. Numerosi gli aneddoti sui suoi problemi psichici, tanto che intorno alla sua salute mentale sono nate leggende che hanno spesso messo in ombra il suo pur breve percorso musicale nei Pink Floyd. Una storia, quella di Syd, che è molto più drammatica che romantica, figlia di un profondo disagio. A questo proposito fu proprio David Gilmour a esprimere il suo disappunto al giornalista David Fricke in un’intervista apparsa su Rolling Stone nel 1982: il chitarrista affermava che quella di Barret era «una storia triste, che viene romanzata da persone che non ne sanno nulla. L’hanno resa affascinante, ma non è affatto così». Chi meglio di Gilmour poteva parlarne? Lui che era stato suo compagno di scuola e nel 1968 lo aveva sostituito nelle file dei Pink Floyd, quando ormai la caduta libera di Syd verso la follia era iniziata e la sua inaffidabilità aveva reso la permanenza nel gruppo impossibile da sostenere. I suoi compagni avevano deciso di scaricarlo con un gesto che ebbe poco di epico: semplicemente non lo passarono più a prendere a casa. Per molti era cominciata la leggenda di Barrett, per gli amici più prossimi, invece, era in atto il deterioramento irreversibile della sua condizione psichica. Molti l’avevano attribuito principalmente al consumo di LSD, trascurando l’ipotesi che la sostanza aveva semplicemente accelerato la caduta libera. A questo proposito fu proprio Gilmour a spiegare sempre a David Fricke il tracollo di Syd: «L’esperienza psichedelica può aver agito da catalizzatore. Ma credo che non riuscisse a gestire l’idea del successo e tutte le cose che comportava».
Un’immagine dei Pink Floyd nel periodo di transizione tra l’ingresso di David Gilmour (in alto a sinistra) e l’uscita di Syd Barrett (in alto a destra)
David non lo aveva abbandonato: nonostante Barrett fosse ormai fuori controllo, lui e Roger Waters lo aiutarono a realizzare due album da solista, The Madcap Laughs e Barrett, entrambi usciti nel 1970. Ma mentre il primo lavoro ricevette un buon riscontro dal pubblico e dalla critica, il secondo passò quasi inosservato, certamente anche per colpa di Barrett che non si impegnò minimamente per promuoverlo. La sua mente era ormai piena di ombre, momenti di assenza e di distacco dalla realtà. Nell’autunno del 1971 rilasciò la sua ultima intervista a Mick Rock, per Rolling Stone, nel giardino della casa di famiglia a Cambridge. In quell’occasione fu molto freddo nei confronti dei membri dei Pink Floyd, vecchi e nuovi: «Non ho niente a che fare con loro. A parte il fatto che hanno prodotto i miei dischi, il che è stato molto utile». Fu molto severo poi nel giudicare i suoi lavori da solista: «Ho fatto tre album e due non sono stati molto interessanti. Gli ultimi due sono stati così polverosi. E così inutili. Cosa puoi farci? Mi piacerebbe rimettere le cose a posto». Ma dal resto dell’intervista traspare un sentimento di rinuncia. Quando Rock gli chiese se non sentisse il bisogno di produrre nuovi pezzi, uno sconsolato Barrett lasciò intendere di essere stato scaricato dai discografici: «Lo faccio. Ma non mi è richiesto. Per cui non sento che c’è un motivo per continuare». Ecco perché Syd decise di tornare a Cambridge, rinchiudendosi nel seminterrato di casa di sua madre, nella solitudine più profonda. Prima di tutto si riappropriò del suo nome, tornando a essere Roger Barrett, ragazzo di venticinque anni. Un passo verso le certezze dell’infanzia, con l’abbraccio delle mura domestiche che l’avevano visto crescere e da cui, affacciandosi, poteva ancora scorgere la scuola che aveva frequentato da bambino. A Cambridge trascorreva tante ore a letto, circondato dai suoi quadri, dai dischi, dagli amplificatori e le chitarre che suonava sempre meno. Durante l’intervista si lasciò andare anche a considerazioni legate alla sfera sentimentale, ai suoi amori passati ma anche al proposito di sposarsi e avere dei bambini.
Syd Barrett il 5 giugno 1975
Negli anni che seguirono Barrett tornò a vivere a Londra, ma nel completo anonimato. Uno dei più noti avvistamenti risale al 5 giugno del 1975, quando un uomo sovrappeso e rasato a zero varcò la soglia degli studi dove i Pink Floyd stavano incidendo l’album Wish You Were Here. Quell’uomo irriconoscibile era proprio Syd Barrett. Tutti i componenti della band rimasero di stucco, traumatizzati dalla visione di quel ragazzo di appena 29 anni che sembrava un vecchio. «Scioccante è la parola giusta» raccontò Nick Mason, il batterista dei Pink Floyd, a proposito di quell’incontro. «Io stavo lavorando in studio e quando sono entrato nella sala di regia ho trovato questo strano ed enorme ragazzo. Non l’avevo riconosciuto. È dovuto intervenire David che mi ha detto ‘Nick, non sai chi è questo ragazzo? È Syd’. A quel punto lo riconobbi ma non so come spiegare, è stato davvero scioccante».
Nei primi anni Ottanta finì definitivamente il periodo londinese di Barrett e la casa di Cambridge divenne la sua dimora stabile, condivisa con sua madre. Con molta frequenza capitava che i fan si recassero in città sulle tracce del loro beniamino, nonostante la famiglia cercasse sempre di proteggerlo, ricorrendo anche ad appelli pubblici con i quali invitarono i fan e i giornalisti a lasciarlo in pace. Ma proprio alcuni giornalisti uscirono a stanarlo per brevi e fugaci attimi, anche utilizzando stratagemmi poco professionali. Gli ultimi a parlarci, nel 1982, furono due reporter francesi che scrivevano per la rivista Actuel: si presentarono di fronte la casa di Cambridge e, con la scusa di restituirgli un borsone di suoi vestiti ottenuti dall’agente immobiliare che gestiva la casa londinese dove Barrett aveva soggiornato fino a poco tempo prima, suonarono al suo campanello. Syd gli aprì la porta, ma loro non si qualificarono come giornalisti. Gli restituirono i vestiti e lui li ringraziò, non immaginando che quel momento sarebbe rimasto impresso nella storia.
«[…] Ma di cosa ti occupi adesso? Dipingi?» aveva approfittato per chiedergli uno dei due reporter.
«No, ho avuto un’operazione di recente, ma niente di grave. Volevo tornare là. Ma devo aspettare. Poi c’è anche uno sciopero dei treni» aveva risposto Syd, manifestando il proposito di tornare a Londra, ostacolato da uno sciopero dei treni, che però era terminato ormai da circa due settimane, come gli fece notare uno dei reporter francesi.
«Cosa fai nella tua casa di Londra? Suoni la chitarra?» aveva continuato a incalzarlo il giornalista.
«No, no, guardo la tv, tutto lì» aveva detto Syd con ingenuo candore.
«E non hai più voglia di suonare?» aveva insistito il giornalista.
«No. Non proprio. Non ho tempo per fare molte cose ora. E poi devo trovarmi un altro appartamento a Londra. Non è facile. Dovrò aspettare. Sai, non pensavo che avrei riavuto questi vestiti indietro. Non riuscivo a scrivere. E non riuscivo a decidermi ad andare a recuperarli. Prendere il treno e tutta quella roba. Già. Non ho neppure scritto a quelle persone. Mamma mi ha detto che li avrebbe chiamati dal suo ufficio. Comunque, grazie». Dalla risposta di Barrett emergeva una certa confusione. Poi il giornalista aveva continuato a fargli domande, portandogli anche i saluti dei suoi amici londinesi, ma Syd, dopo avergli concesso di scattare una foto insieme, non ne volle più sapere di chiacchierare. Si salutarono con il proposito di rivedersi a Londra, ma Barrett non sarebbe più tornato a vivere nella capitale del Regno Unito. Rimase infatti nella casa di Cambridge anche dopo la morte della madre.
Cambridge, 1982, Syd Barrett (a destra) con uno dei reporter francesi
A fungere da punto di contatto con la realtà fu la sorella Rosemary. Il suo passato musicale lo volle rimuovere: pare che ne parlasse con fastidio e addirittura preferiva che nessuno glielo rammentasse. Fino all’ultimo giorno della sua vita continuò a percepire le royalties dei brani scritti con i Pink Floyd, i cui membri si accertarono sempre che gli arrivasse il denaro che gli spettava. Sulla sua morte si sa poco: si spense nella sua casa di Cambridge a 60 anni, il 7 luglio del 2006, pare che fosse stato colpito da un tumore al pancreas e soffrisse anche di diabete di tipo 2. Il suo funerale si tenne il 18 luglio 2006 al Cambridge Crematorium e nessun membro dei Pink Floyd presenziò al rito di saluto. Nei giorni seguenti i media locali diffusero la notizia che Barrett aveva lasciato a fratelli e sorelle un’eredità che superava il milione e mezzo di sterline, la maggior parte accumulate grazie alle royalties derivanti dalle raccolte, studio e live, di brani dei Pink Floyd pubblicate nel corso degli anni che includevano anche brani a sua firma. Subito dopo la morte, gli oggetti che gli appartenevano vennero messi all’asta, biciclette, dipinti, chitarre, e il ricavato fu devoluto in beneficienza.
Nel novembre del 2006 venne messa in vendita anche la sua casa di Cambridge, destando immediato interesse tra i fan, molti dei quali si finsero potenziali acquirenti solo per andarla a visitare. «A Roger piaceva molto la pace e la tranquillità della casa, sentire i bambini che giocavano in strada. Gli piaceva andare in bicicletta a fare la spesa» dichiarò sua sorella Rosemary, come riportato da Rockol. «Nella stanza che dava sulla strada disegnava e dipingeva, in quella sul retro si rilassava e ascoltava jazz». L’abitazione venne poi acquistata da una coppia francese, del tutto ignara di vivere nelle stanze del “diamante pazzo” dei Pink Floyd che troppo presto aveva smesso di brillare.
Virgilio Notizie mi ha chiesto di raccontare cosa resta, secondo me, di Lucio Dalla a dieci anni dalla sua scomparsa. Gli album e i brani da ascoltare per comprendere la portata del suo contributo artistico.
L’intervista la potete leggere cliccando sull’immagine di Lucio.
Il 24 novembre 1991, a circa 24 ore dal rilascio di un sofferto comunicato stampa con il quale annunciava di aver contratto l’AIDS, Freddie Mercury, il carismatico leader dei Queen, abbandonava questo mondo, entrando ufficialmente nella storia e nel mito. Come sappiamo, la sua scomparsa gettò nello sconforto milioni di fan, ma anche tante persone a lui vicine che, nonostante fossero a conoscenza delle sue precarie condizioni di salute, furono travolte dalla tragedia della sua prematura scomparsa. Una di queste fu certamente John Deacon, l’estroso e fragile bassista dei Queen. Da sempre schivo e di poche parole, Deacon rappresentava, insieme al batterista Roger Taylor, il motore della band, la solida base ritmica su cui poggiavano le chitarre di Brian May e la voce unica di Mercury. Memorabili i suo giri di basso in brani come Under Pressure, Crazy Little Thing Called Love, A Kind of Magic, Another One Bites the Dust, The Invisible Man e tanti altri. Quel 24 novembre, però, si spense la luce creativa di Deacon, probabilmente appena prese coscienza che Freddie non sarebbe stato più con loro. Da lì cominciarono i suoi tormenti e le domande che lo condussero ad abbandonare definitivamente i Queen nel 1997.
John Deacon e Freddie Mercury
In quei sei anni le sue apparizioni pubbliche con la band si possono contare sulle dita di una mano. La prima risale al 20 aprile 1992, in occasione dello storico concerto-tributo a Mercury che si tenne a Londra allo stadio di Wembley. Un evento entrato nella storia, che fu trasmesso in mondovisione e venne seguito da oltre un miliardo di persone, e di cui anche il bassista fu protagonista attivo. L’anno successivo Deacon partecipò a un appuntamento benefico promosso da Roger Taylor nel Sussex, poi insieme ai suoi compagni cominciò a lavorare su alcune parti vocali che Freddie aveva registrato negli anni che precedettero la sua morte, cercando di costruire arrangiamenti credibili e all’altezza dei loro precedenti lavori. Il risultato fu Made In Heaven, uscito nel 1995, un disco che non aggiunse nulla alla leggenda dei Queen. E probabilmente anche Deacon se ne accorse. Registrò così No-One But You (Only The Good Die Young), primo brano inedito composto dai Queen senza Freddie, e fece la sua ultima apparizione dal vivo con la band il 17 gennaio 1997, quando il gruppo partecipó alla cerimonia di apertura del Bejart Ballet al Teathre de Challot di Parigi, eseguendo The Show Must Go On con Elton John alla voce. “Non suonavamo insieme da anni, dovevamo fare un solo pezzo in un contesto per noi diverso e non avevamo un cantante. Ci siamo decisi a farlo quando abbiamo ricevuto un messaggio di Elton: facciamolo” ha raccontato Roger Taylor a proposito di quella serata, come riportato dal sito di Virgin Radio. Sulla performance musicale di Deacon nulla da ridire, ma sul palco appariva distante, ormai lontano da quel mondo.
“Il nostro amico John era lì con noi, ma in realtà non c’era” raccontò Brian May. “Tutto in lui quella sera trasmetteva un senso di disagio. È stata l’ultima volta che abbiamo suonato con lui in pubblico”. Proprio a May quella sera confidò di non riuscire più a esibirsi davanti al pubblico. Così decise di uscire di scena, abbandonando definitivamente i suoi compagni di musica.
May, Taylor e Deacon
Quando nel 2001 i Queen vennero introdotti nel Rock and Roll Hall of Fame, Deacon rifiutò di partecipare alla cerimonia. Tempo dopo, nel corso di un’intervista, Taylor dichiarò di non avere contatti con lui dal 2004. Pare che non abbia mai visto di buon occhio ciò che i Queen hanno realizzato in questi anni, dalla collaborazione con Robbie Williams al sodalizio con Adam Lambert
Di recente i suoi colleghi hanno cercato di trascinarlo nel progetto del film Bohemian Rhapsody, senza riuscirci. “John non vuole essere coinvolto” dichiarò Brian May a Rolling Stone. “Ha la sua dimensione e noi la rispettiamo. È un peccato, perché noi avremmo voluto averlo intorno ma lui non vuole più stare in quell’arena… semplicemente non vuole continuare a percorrere quelle strade”. Nella stessa intervista May dichiarava di sentire la mancanza di Deacon, sia a livello umano sia come musicista, “perché non c’è nessuno come John su quelle quattro corde”, confidando di aver saputo da persone a lui vicine che il bassista aveva letto la sceneggiatura e l’aveva approvata. Negli ultimi anni, infatti, i rapporti diretti tra Deacon e i suoi due colleghi sono praticamente inesistenti, se non per i comuni interessi finanziari legati ai Queen e all’utilizzo del nome.
John Deacon in una recente immagine
Pare che oggi John viva a Putney, un sobborgo di Londra, insieme a sua moglie. La coppia ha sei figli e conduce una vita molto riservata, lontano dalla musica e dai clamori dello show business. Ogni tanto viene avvistato in strada che passeggia come un settantenne qualunque, con la sigaretta tra le labbra e lo sguardo pensieroso. Ormai sono lontani i tempi del boato assordante del pubblico di Wembley che urlava il nome dei Queen. Gli restano soltanto i ricordi, le immagini e i suoni di una storia leggendaria. E penso che lui sia felice così.
Charles Aznavour, all’anagrafe Chahnourh Varinag Aznavourian, non ha bisogno di presentazioni. Nella sua lunghissima carriera, durata più di settant’anni, il cantautore francese ha venduto oltre trecento milioni di dischi e ha cantato in novantaquattro paesi. Ha inciso più di 1200 canzoni in sette lingue diverse, tra cui l’italiano, senza contare tutti i brani che ha firmato per altri artisti. E ciò basterebbe a far di lui un cittadino del mondo, senza una nazionalità precisa. Eppure Charles, che è scomparso nel 2018 dopo 94 anni di intensa vita, ci ha sempre tenuto a sottolineare le sue origini armene. “Io sono armeno al cento per cento e sono francese al cento per cento” dichiarò qualche anno fa al quotidiano L’Avvenire. “Ho due culture, quella del cuore e dell’anima è armena, quella della scuola e del sapere è francese. Non mischio mai le due, ognuna resta un cento per cento”. Eproprio per il popolo armeno Aznavour ha fatto tanto, arrivando a spendere il suo denaro per salvarli dalla guerra e dalla persecuzione. Questo suo impegno è passato per anni in secondo piano, rimanendo spesso sconosciuto ai più. Qui racconto l’origine e l’evoluzione di un amore indissolubile.
Per scoprire le radici di questa attività umanitaria bisogna partire dal massacro e dalla deportazione dei cristiani armeni avvenuta a opera dei turchi tra il 1915 e 1916, come reazione alle sconfitte subite durante la prima guerra mondiale dall’esercito russo, in cui militavano anche gruppi di volontari armeni. Gli storici stimano che le vittime di quel genocidio furono certamente più di un milione. Altrettanti gli armeni deportati o fuggiti in altre parti del mondo in cerca della salvezza. Tra questi il padre e la madre di Charles, che trovarono riparo a Parigi dove, nel giro di poco tempo, riuscirono a raggiungere una nuova stabilità. Così qualche anno dopo, nel 1924, proprio nella capitale francese nacque quello che sarebbe diventato uno dei più grandi chansonnier d’oltralpe, che crebbe acquisendo la cultura francese, ma portando nel cuore sempre il popolo armeno, anche grazie ai racconti dei suoi genitori e al loro esempio. Durante la Seconda guerra mondiale infatti, nella Parigi occupata dai nazisti, la famiglia Aznavourian diede rifugio a undici ebrei nelle tre stanze che componevano la loro casa, salvandoli dalla deportazione.
Raggiunto il successo, appena ne ebbe la possibilità e quando ce ne fu bisogno, Charles si schierò al fianco del popolo armeno. Il primo grande contributo di Aznavour risale al 1988, quando un violento terremoto sconvolse la Repubblica Sovietica d’Armenia, in quegli anni ancora sotto il controllo russo, provocando oltre 25.000 morti e la distruzione di intere città. L’URSS si stava ormai sgretolando e, per affrontare le conseguenze catastrofiche del sisma, Mikhail Gorbaciov fu costretto a chiedere aiuto agli Stati Uniti. Charles decise di impegnarsi in prima persona per la ricostruzione del paese in cui affondavano le proprie radici. Decise così di incidere in francese il brano Pour toi Armenie, invitando novanta colleghi a pubblicarlo in altrettante lingue e stati. Il ricavato di questa iniziativa servì alla ricostruzione delle città armene. Ma il contributo di Aznavour non si fermò qui. Qualche anno più tardi fece un gesto ancora più grande.
L’URSS si era ormai dissolta, quando nei primi anni Novanta si scatenò un duro conflitto tra Armenia e Azerbaigian per la presenza di una piccola enclave in territorio azero chiamato Nagorno Karabakh. Si riaffacciò così l’incubo della guerra, della violenza, del genocidio. Questa volta Aznavour diede il proprio contributo nel silenzio, agendo dietro le quinte: organizzò a proprie spese un ponte aereo privato per portare migliaia di armeni in occidente. E questo enorme gesto gli fece guadagnare un posto speciale nel cuore della gente. Il governo armeno lo nominò suo rappresentante presso l’Unesco e poi ambasciatore in Svizzera. Divenne una sorta di eroe nazionale a cui vennero intitolate piazze e assegnati continui riconoscimenti. E lui non smise mai di contraccambiare questo amore: appena un anno prima della sua morte dichiarò a La Repubblica di avere in cantiere ancora progetti per l’Armenia: “Venti giorni fa a Erevan il governo armeno mi ha consegnato le chiavi del Museo Aznavour, ancora tutto da fare. E io, insieme a mio figlio Nicholas, ho annunciato la creazione della Aznavour Foundation, attraverso la quale continuerò ad aiutare il popolo armeno e aprirò la Charles Aznavour House. Non sarà soltanto un museo, ma anche luogo di spettacolo e cultura”. Sì, perché, oltre a salvare vite umane, Charles contribuì a diffondere attraverso le sue canzoni anche la musica e la cultura armena. L’ennesimo atto di amore nei confronti di un popolo che ancora oggi continua ad amarlo e a ricordarlo con affetto smisurato.