Ieri in edicola, sul Corriere Romagna, un estratto del mio libro… Per ricordare il grande Lucio, a otto anni dalla sua scomparsa.
Categoria: Storie di musica
Intervista su Il Resto del Carlino
Lucio Dalla e il suo sosia: storia di un bizzarro sodalizio
“[…] E per cosa mi dovrei pentire di giocare con la vita e di prenderla per la coda, tanto un giorno dovrà finire”. Proprio così, come cantava in Siamo Dei nel 1980, a Lucio Dalla piaceva divertirsi con la vita, prenderla poco sul serio, sbeffeggiarla. E la storia che vi sto per raccontare ne è la prova lampante.
Immaginate una giornata dei primi mesi del 1991, una Bologna piovosa ma sempre viva, i portici, “lo stadio, il trotto, il Resto del Carlino”. Luca Carboni passeggia tranquillo in via Ugo Bassi, quando improvvisamente davanti a un fioraio crede di vedere il suo amico Lucio Dalla. I tratti somatici sono identici, le caratteristiche fisiche molto simili. Appena Luca lo focalizza bene capisce che non è lui, ma la somiglianza è impressionante. Si tratta di Vito D’Eri, imbianchino lucano che vive da diversi anni nel quartiere bolognese di San Donato. Carboni conosce bene Dalla e sa che l’idea di avere un sosia lo divertirebbe moltissimo. Così raccomanda a D’Eri di andarlo a conoscere. D’altronde Lucio non è difficile da trovare: vive in pieno centro a Bologna, in via Massimo D’Azeglio, e se si è fortunati lo si può incontrare durante una spensierata passeggiata verso Piazza Maggiore. Ma per chi non vive e non lavora in centro non è un’opzione così scontata.
L’occasione si crea nell’estate dello stesso anno, ma lontano da Bologna, quando Vito torna nella sua Basilicata, precisamente a Pisticci, per trascorrere le vacanze. Il caso vuole che a Policoro, il 12 agosto, si esibisca Dalla. Così D’Eri decide di cogliere al balzo l’opportunità e quella sera nella città lucana i due finalmente si conoscono. Al loro primo incontro pare che Lucio lo abbia scrutato con occhio indagatore e quell’aria sorniona di chi sta già partorendo qualche idea geniale. Probabilmente Dalla capisce subito che avere un sosia potrebbe essere un’esperienza divertente e vantaggiosa. E tra di loro parte un sodalizio che durerà fino alla scomparsa dell’artista, il 1° marzo del 2012.
Gradualmente Vito viene coinvolto nel percorso artistico di Lucio. Quando Dalla ha altri impegni o non ha voglia di presenziare lo spedisce al suo posto. La storia narra di un D’Eri protagonista di soundcheck in cui canta in playback, ospite di concerti di altri artisti negli stadi, ma anche al Festivalbar. “Intendiamoci, non è che cantassi e mi spacciassero per il Dalla vero” ha raccontato D’Eri a Repubblica, “ma durante le prove, io salivo sul palco in playback e simulavo la sua presenza mentre lui arrivava solo il giorno dell’esibizione. Oppure se non poteva proprio andare partivo io. Il pubblico andava in visibilio, poi veniva avvisato che ero solo il sosia. Si divertivano lo stesso. Bastava un gag per buttarla in ridere. Allo stadio Olimpico di Roma, Gigi D’Alessio ha fatto finta di essere sorpreso: tu bolognese tiri un pacco a me napoletano? Non esiste!”. Con il tempo D’Eri viene ribattezzato ‘Dalla 2’ e, oltre alla collaborazione, con Lucio nasce una bella amicizia. Nel 2007 appare addirittura nel video ufficiale di Lunedì, secondo singolo estratto dall’album Il contrario di me, nel quale appaiono anche altri amici di Lucio, tra cui Iskra Menarini, voce straordinaria e sua corista storica, e Tobia Righi, oltre ai suoi due Labrador. Nel video il Dalla reale incrocia il suo sosia al piano terra di un palazzo, prima di entrare in ascensore, mostrando una divertita perplessità (al minuto 3,33).
Vito gli tinteggia la casa alle Tremiti, poi si occupa anche dell’abitazione di Via D’Azeglio. Oltre a dargli visibilità nel mondo dello spettacolo, Lucio gli dimostra amicizia anche nel momento del bisogno, quando viene a sapere delle difficoltà economiche di D’Eri, di un mutuo che gli toglieva il sonno. “Il lunedì successivo, chiamai la banca e appresi che Lucio aveva versato 40 mila euro sul mio conto” ha raccontato a Kikapress. Ecco perché, quando Lucio muore lontano dalla sua Bologna, Vito resta annichilito, sconvolto, come se avesse perso un fratello: “Non volevo crederci. Passai tre giorni e tre notti sotto casa sua”. Oggi, quasi tutte le domeniche, D’Eri si reca al cimitero monumentale di Bologna sulla tomba di Lucio, per salutarlo e per rendergli omaggio ancora una volta. Per ringraziarlo di esserci stato. Un po’ come facciamo noi quando ascoltiamo ancora oggi la sua musica.
Il messaggio postumo di Alessandro Bono

Oggi voglio raccontare la storia del cantautore Alessandro Bono, all’anagrafe Alessandro Pizzamiglio, e di come per lui le luci del palcoscenico, nel maggio del 1994, si spensero prematuramente, lasciando fan e addetti ai lavori senza parole. Alessandro, infatti, era salito sul palco del Teatro Ariston tra i big della Festival di Sanremo appena tre mesi prima, presentando il brano Oppure no e, a parte il viso sbattuto, non aveva lasciato trasparire il sentore di una fine così imminente. Eppure lui sapeva tutto. Ma andiamo per gradi: prima bisogna spiegare chi era questo ragazzo dalla chioma bionda che nella seconda metà degli anni Ottanta riuscì a ritagliarsi uno spazio nel mondo della musica.
Alessandro era nato a Milano il 21 luglio del 1964 da Riccardo Pizzamiglio e Luisa Bono. Il papà era un tecnico del suono che vantava collaborazioni prestigiose, oltre a esperienze in case discografiche del calibro della Ricordi e della Numero Uno di Lucio Battisti. Per questo motivo Alessandro crebbe immerso nella musica, invaghendosi subito delle note e imparando a suonare chitarra e pianoforte. A 19 anni tentò di accedere nelle stanze della discografia italiana stabilendo un primo contatto con il produttore Alberto Salerno, che però non andò a buon fine. A lanciare Alessandro fu invece Mario Lavezzi, che nel 1985 lo fece esordire con il brano Walkie Talkie, scegliendo di presentarsi al pubblico con il cognome della madre giudicato più adatto al mondo musicale. Il brano non raccolse particolari consensi, così l’anno successivo provarono con un 45 giri contenente la cover della canzone Vendo casa di Lucio Battisti, ma anche in questo caso non ci fu un’adeguata risposta da parte del pubblico.
Ci pensò il Festival di Sanremo a portare Alessandro Bono all’attenzione di una grande platea. Nel 1987 venne infatti ammesso tra le nuove proposte con il brano Nel mio profondo fondo, un pezzo che raccontava la paura di darsi completamente all’altro, di vivere le proprie emozioni. Da quel momento cominciò il percorso di crescita del giovane cantautore milanese, che infatti nel 1988 pubblicò con la CBS il suo primo LP omonimo. L’album conteneva il singolo Gesù Cristo, uno sguardo su di una Milano infelice e volgare, vacua e banale. Il brano ebbe un buon successo di vendite, al punto che venne inciso anche per il mercato spagnolo. In quel periodo Bono aprì i concerti italiani di Bob Dylan, ma anche le esibizioni di Gino Paoli, Joan Baez e Francesco De Gregori. Parliamo della seconda metà degli anni Ottanta, anni in cui ancora tanti giovani curavano il vuoto e il male di vivere con l’eroina. In migliaia finirono in quella trappola, alcuni ne vennero fuori, altri non ce la fecero. Anche l’anima sensibile di Alessandro cadde in questa ‘buca’ da cui, però, fortunatamente riuscì a uscire e a riprendersi la propria vita, anche grazie alla musica, a una compagna, alla nascita della figlia.
E nei primi anni Novanta la carriera di Alessandro viaggiava a gonfie vele: come autore, tra il 1991 e il 1992, scrisse canzoni per Ornella Vanoni e Loretta Goggi e collaborò con Riccardo Cocciante. Uscì poi il suo secondo album, Caccia alla volpe, che apriva la strada alla sua seconda partecipazione al Festival di Sanremo. Pochi mesi dopo infatti, a cinque anni dalla sua prima esperienza all’Ariston, Alessandro salì di nuovo sul palco tra le nuove proposte, quell’anno, il 1992, chiamata sezione Novità, insieme a un amico più navigato, ma curioso di provare per la prima volta l’ebrezza del Festival: Andrea Mingardi. Insieme cantarono il brano Con un amico vicino, firmato da Claudio Mattone, che celebrava l’importanza dell’amicizia nella vita di ogni essere umano. Alessandro appariva in forma, con la sua chioma bionda e un sorriso smagliante a illuminare il palco. Il duetto con Mingardi funzionò molto bene, con gli sguardi e l’interpretazione riuscirono a trasmettere al pubblico il senso profondo della canzone, che infatti si guadagnò il terzo posto nella classifica finale, suggellando l’ottimo momento artistico di Bono. L’album Caccia alla volpe venne ristampato con il brano del Festival e Alessandro poteva ormai smettere di considerarsi una nuova proposta.
Nel 1994, infatti, venne ammesso al Festival di Sanremo nella sezione Campioni con il brano Oppure no, interamente scritto dal cantautore milanese. Bono si presentò sul palco con i capelli corti e il viso sbattuto, appariva stanco, provato. Il pezzo era scritto molto bene, si trattava di una riflessione sul presente e sul futuro, sulle prospettive e le incertezze che lo popolano. Pubblico e critica non colsero nell’immediato la profondità del brano, complice anche un’interpretazione in cui inciampò in parecchie stonature. Il pezzo, infatti, si classificherà soltanto al 16° posto, ma il suo vero significato arriverà alle persone soltanto tre mesi dopo il Festival di Sanremo. Il 15 maggio del 1994, infatti, la vita presentò il conto ad Alessandro quando non aveva compiuto nemmeno trent’anni. Un conto salato per quell’errore legato all’eroina, che purtroppo aveva propiziato una malattia al tempo incurabile: l’AIDS. Il cantautore se ne andò in silenzio, sorprendendo tutti. E allora ecco che anche alcuni versi di Oppure no acquisirono un nuovo senso, trasmettendo brividi profondi soprattutto quando nel ritornello Alessandro cantava “ogni giorno che va via è un quadro che appendo”, chiudendo con un lapidario “mi piace vivere”, un pugno nello stomaco. Un urlo strozzato in una giornata di maggio.
A riascoltare il brano oggi, nel 2018, a distanza di 24 anni i versi iniziali risultano più che mai attuali, intrisi di profonda umanità e comprensione, e raccontano di quanto ancora Bono avrebbe potuto dare alla musica italiana. Ma mettono anche un certo magone per quel destino crudele che spesso non ti concede repliche. Con quell’ultima apparizione, avvenuta contro il parere dei medici, Alessandro volle lanciare un messaggio inequivocabile, che solo dopo è stato possibile decifrare: la vita va onorata fino all’ultimo respiro.
“Verrà un giorno in cui vivrò
in un paese senza più frontiere
dove non si guarderà al futuro
come chiuso sotto ad un bicchiere”.
Verrà un giorno e sentirò
il vento caldo dei nuovi cambiamenti
in un attimo saranno qui
ma poi saremo tutti quanti pronti?
Con fatica ma sapremo
capir davvero cos’è la religione
qualsiasi fede chiunque avrà
si accetterà perché va bene ed ha ragione”.