Da quarant’anni cantautore e operatore culturale, giornalista e produttore musicale. Ernesto Bassignano è stato uno di quei “quattro ragazzi con la chitarra e un pianoforte sulla spalla” che, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, hanno fatto la storia dell’indimenticabile Folkstudio, fucina di talenti romani e non solo. Ma è anche il fine intrattenitore che ha condotto per undici anni la trasmissione radiofonica Ho perso il trend, sulle frequenze di Radio 1 Rai, arrivando a conquistare mezzo milione di ascoltatori ogni giorno. Mesi fa, a tre anni dal suo precedente lavoro, Bassignano ha pubblicato l’album Il grande Bax!, prodotto da Mauro D’Angelo per l’etichetta Atmosfera. Un disco composto da nove brani d’autore, otto firmati dall’artista romano e uno scritto nel 1968 dal cantautore Duilio del Prete, scomparso ormai da 20 anni. Alcuni introspettivi e nostalgici, come Chi sono davvero, altri che raccontano con arguzia il nostro tempo senza rinunciare alla poesia, come Davanti a uno schermo e Gente di passaggio. Un album da sfogliare alla stregua di un libro fotografico, canzoni come istantanee di quarant’anni di vita e di arte.
Ernesto, sieti rimasti in pochi a far dischi di questo spessore poetico.
È vero, siamo rimasti in pochi. Quello che però mi fa incazzare da morire è che, nonostante le recensioni positive che il disco ha ricevuto, continuano a non invitarmi al Premio Tenco.
Come te lo spieghi?
Prima di tutto pago il fatto di essere considerato un giornalista che canta. Il problema poi è che io sono un ex funzionario del PCI e questo va a mio sfavore. Oltretutto non sono un anarchico, non ho mai fatto parlare il manager al mio posto, anzi, ci ho messo sempre la faccia. Per di più mi considerano un rompicoglioni perché dico sempre ciò che penso.
Un fatto che raccontano in pochi è che tu hai collaborato per tanti anni con un grande artista come Umberto Bindi.
Sì, ho scritto molte canzoni per lui. Quattro brani firmati da me sono nel disco Di coraggio non si muore, uscito nel 1996 per l’etichetta Fonopoli di Renato Zero. Per l’occasione scrissi anche un libro su di lui insieme a un mio amico che fa lo storico della canzone. Sia il libro che il disco non ricevettero una promozione adeguata. Renato poi volle portare Umberto al Festival di Sanremo insieme ai New Trolls, presentando il brano Letti. Il connubio non fu un granché. Quel brano avrebbe dovuto cantarlo per intero Bindi seduto al pianoforte, e invece Renato spinse per far entrare nella partita anche i New Trolls e il pezzo perse di efficacia. Comunque sono contento di aver collaborato per undici anni con Umberto.
Una persona non sempre rispettata nell’ambiente musicale, che ha sofferto tantissimo.
Perché era il più bravo di tutti. Secondo me Il nostro concerto, Arrivederci, La musica è finita e Il mio mondo sono le quattro canzoni più importanti della musica italiana. La sua è stata una perdita colossale per la musica, per la cultura e anche per me che gli volevo bene.
Parliamo del Folkstudio. Hai nostalgia di quegli anni?
Mi sembra di aver sognato. Un sogno fatto di fumo, di corridoi bui, di sangria. Un mondo straordinario in un’epoca rivoluzionaria. Entravano e uscivano artisti del calibro di Gato Barbieri, Mariangela Melato, Gian Maria Volontè, Elio Petri. Poi c’eravamo io, Antonello Venditti, Francesco De Gregori e Giorgio Lo Cascio. Fino al 1972 è stato bellissimo, poi loro hanno cominciato a fare dischi e io invece ho continuato a suonare alle Feste dell’Unità fino al 1976, guadagnando anche più dei miei colleghi, lo devo ammettere.
Avete scelto strade diverse.
Sì, io scrivevo canzoni di lotta e le pubblicavo con la Ariston. Quando provai a entrare nel 1975 alla RCA con Moby Dick, prodotto da Rino Gaetano, purtroppo l’album venne male. Mentre veniva eseguito il missaggio del disco, infatti, io ero in campagna elettorale e Rino era sdraiato in un campo con le sue birre disperate. Ecco perché Moby Dick non ebbe la risonanza che meritava. E così divenne una sorta di canto del cigno. La verità è che io preferivo stare in giro, in mezzo alla gente. Avevo scelto la canzone politica come ‘fucile’. Mi accorsi che era tutto finito quando Berlinguer mi prese da parte, dicendomi che i Soviet in Italia non sarebbero arrivati mai e che forse avrei dovuto pensare di più alla mia carriera artistica. Ma ormai era troppo tardi. Un’epoca era alla fine: il PCI stava cambiando pelle. L’errore fu pensare che l’Italia diventasse rossa.
Quanto gli artisti di Cantacronache influenzarono la tua scrittura musicale?
All’inizio sono stato molto ispirato da loro. Io sono venuto da Cuneo con Duilio del Prete, quindi figurati. Amavo il mondo di Straniero, Bosio, Liberovici, Portelli, e io volevo essere un prosecutore del Cantacronache, che purtroppo nel frattempo era morto. Dalle sue ceneri erano nati Il Canzoniere Internazionale di Settimelli e il Nuovo Canzoniere Italiano di Giovanna Marini, Ivan Della Mea e Paolo Pietrangeli. Io in quegli anni mi ponevo a metà strada tra la canzone d’autore e quella di lotta. Ero un ‘tenchiano’: volevo una canzone poetica, lirica, ma impegnata. Venni sconfitto: da una parte era venuto fuori l’ermetismo di De Gregori, dall’altra c’era il pop. Una canzone ‘alla Tenco’ non c’era stata più. Io ero a metà tra la lotta e la canzone d’autore.
Hai qualche rimpianto?
Questa è una domanda terribile. Io vivo di rimpianti, mia moglie e i miei amici mi rimproverano molto per questo, dovrei guardare al futuro e fregarmene di tanta merda che mi hanno fatto mangiare. Comunque il rimpianto più grande è di non aver capito un po’ prima quello che stava succedendo. Ho fatto il militante ferreo fino alla fine e questo è stato sbagliato.
Daniele ‘Barny’ Bagni è uno di quei musicisti che per raccontarlo non basterebbe un libro. Sì, perché sono trent’anni che viaggia su e giù per la Penisola assetato di musica, alla costante ricerca di una nuova emozione. Ha suonato il suo basso prima nei Ladri di Biciclette e poi nei Litfiba, si è confrontato con musicisti del calibro di Billy Preston e Vinnie Colaiuta, si è esibito su ogni tipo di palco, da quello enorme del Festival di Sanremo alle pedane dei club. In questo piccolo spazio cerchiamo di ripercorrere insieme un pezzo della sua storia musicale, partendo dal presente, dagli EMOTU, la band di Parma con cui Barny ha appena pubblicato il disco Meccanismi Imperfetti, anticipato a dicembre dal singolo Ogni cent’anni. Otto brani caratterizzati da una marcata e gustosa impronta new wave, da testi e arrangiamenti elaborati con la sapienza dei veri artigiani della musica.
Daniele, partiamo dagli EMOTU e dal vostro Meccanismi imperfetti. Come e quando sei diventato parte di questo progetto?
L’incontro con gli EMOTU è avvenuto nel gennaio del 2016. Stavo curiosando sul web in un forum di musicisti quando ho letto l’annuncio: band di Parma cerca bassista per completare gli arrangiamenti del nuovo album, genere post-new wave/industrial con testi in italiano. Ho mandato un WhatsApp al numero di cellulare dell’annuncio e dopo circa 10 minuti mi ha risposto Maxx Rivara (cantante e tastierista della band). Abbiamo fissato un incontro anche con la Vitto e Genna (Vittoria Pezzoni, la batterista, e Gennaro Splenito, chitarre e sinth) per conoscerci e ascoltare quelle che erano le prime demo di Meccanismi Imperfetti. Ricordo che al ritorno verso casa, in auto, ascoltai ancora i brani e rimasi particolarmente colpito da quello che ora si intitola Eva su Marte. La mattina seguente iniziai subito a lavorarci sopra per trovare una linea di basso che “girasse bene” sull’arrangiamento ideato dai ragazzi. In serata avevo già qualcosa da fare sentire alla band. In realtà oltre al nuovo basso, proposi anche modifiche alla stesura delle varie parti della canzone, cosa che feci poi pure negli altri brani dell’album, perché sentivo che c’erano idee musicali molto belle ma dovevano essere, secondo me, posizionate nel punto giusto della canzone. Con mia grande felicità gli altri approvarono le mie proposte e a quel punto ero diventato un EMOTU.
Tu hai una lunga storia musicale alle spalle, che affonda radici negli anni Ottanta, con i Ladri di Biciclette di Paolo Belli. Due album molto interessanti, Ladri di biciclette e Figli di un do minore, grandi successi di vendite ed enorme visibilità. Che anni furono quelli per te?
Nell’aprile del 1988 un mio caro amico Raffaele Chiatto, ora chitarrista di Umberto Tozzi, mi telefonò e mi propose di fare un provino con una band di Carpi in cui lui già suonava da un paio di mesi. Mi portò una ormai preistorica audiocassetta, che custodisco ancora tra le mie “reliquie musicali”, che conteneva, oltre ai provini dei brani che poi sarebbero diventati quelli del primo album Ladri di Biciclette, anche alcune canzoni di The Blues Brothers, Huey Lewis and The News, Kid Creole & The Coconuts e James Brown, che facevano parte in quel periodo del loro repertorio live. Ricordo che nel giro di una settimana imparai tutti i brani e il giorno dell’audizione, dopo la prova, capii che sarei diventato il loro nuovo bassista. L’anno dopo, nel 1989, partecipammo al Festival di Sanremo, arrivammo ultimi (o quasi) ma nel giro di pochi mesi diventammo conosciutissimi in tutta Italia per via dell’originalità, la positività e la simpatia che questo progetto musicale infondeva nel pubblico e negli addetti ai lavori. Furono circa 4 anni di attività ‘non stop….’, tra prove, concerti, trasmissioni televisive, km e km di autostrada, risate, tante soddisfazioni e progetti per il futuro. All’epoca non c’era il web e quindi la TV, le Radio e l’informazione giornalistica erano i mezzi pubblicitari più usati per la promozione musicale. Quindi tornammo a Festival di Sanremo duettando con l’inventore del “vocalese”, Jon Hendricks, e vincemmo il Festivalbar insieme a Francesco Baccini con Sotto Questo Sole. E tra le decine di trasmissioni ricordo con particolare emozione la nostra partecipazione alla mitica DOC di Renzo Arbore e Gegè Telesforo dove suonammo in una puntata nella quale era presente anche il Modern Jazz Quartet. Poi ci furono esibizioni memorabili come la prima edizione del Concertone del primo maggio nel 1990, in cui suonammo insieme al re del soul, Mr. Sam Moore, e l’anno dopo un duetto con Jimmy Winterspoon. Con il Ladri suonammo anche un’inedita versione di Get Back dei Beatles al fianco di Billy Preston. In quel momento mi sembrava di essere in paradiso, ero sul palco con colui che aveva suonato l’Hammond e l’inconfondibile piano Fender Rhodes con i Beatles nelle sessioni del loro ultimo disco, Let It Be. Insomma, furono anni incredibili. Dopo lo ‘split’ della band pensai che anche se non mi fosse più capitato di fare altre esperienze musicali importanti, dovevo ritenermi comunque molto soddisfatto di quelle che avevo vissuto in quegli incredibili 4 anni.
Che musica ascoltavi in quegli anni?
Ascoltavo e suonavo blues (Robben Ford, Robert Cray, ecc.) soul, funk e rhythm and blues (Stevie Wonder, Tower of Power, Level 42, ecc.), ma anche jazz/fusion (Miles Davis, Weather Report) e quando ascoltai per la prima volta Jaco Pastorius fui letteralmente catturato dal suo suono e dal suo magico linguaggio musicale, che ancora oggi mi trasmette bellissime e ineguagliabili emozioni a ogni ascolto. Ebbi anche la fortuna di stringere la sua enorme mano prima di uno dei suoi ultimi concerti in Italia. Era il 1986, a Bologna, e al suo fianco aveva il bravissimo Bireli Lagrene. Comunque devo dire che non ho mai avuto un genere musicale preferito, la musica mi ha sempre attratto emotivamente e nell’arco della giornata posso aver voglia di ascoltare Miles Davis la mattina e i Metallica nel pomeriggio. La musica che ascolto e che suono ha sempre avuto e continua ad avere su di me un effetto terapeutico.
Quanto ha contato l’esperienza con i Ladri di Biciclette sulla tua crescita umana e artistica?
È stata una scuola di vita preziosa e indispensabile. Dal punto di vista umano ho conosciuto e collaborato con tante persone, famose o sconosciute. L’umiltà è una delle doti che ho riscontrato nella maggioranza dei grandi artisti, colleghi o addetti ai lavori incontrati in quel periodo e anche negli anni successivi. Artisticamente l’esperienza con i Ladri mi ha sicuramente dato la possibilità di crescere professionalmente sia nei live sia in studio di registrazione, anche grazie al fatto che i 2 dischi che ho registrato con loro furono prodotti da Celso Valli, e quindi mi trovavo al posto giusto nel momento giusto per imparare il mestiere, perché Celso rimane tutt’oggi uno dei migliori produttori musicali in circolazione.
Cover di Spirito
Poi nel 1994 arrivarono i Litfiba. La sezione ritmica formata da te al basso e Franco Caforio alla batteria, con le irruzioni di Candelo alle percussioni, diede una spinta propulsiva al sound dei Litfiba. Quali brani dei dischi Spirito e Mondi Sommersi appezzasti di più dal punto di vista esecutivo?
Quando qualcuno mi chiede da chi abbia imparato a suonare il basso, oltre ai bravissimi musicisti Giuseppe La Monica, Ares Tavolazzi, Dino D’Autorio, Massimo Sutera, Domenico Lo Parco, che mi hanno insegnato tecnica e armonia, cito sempre anche i batteristi con cui ho suonato. Perché specialmente in fase creativa con loro ho appreso molto su come costruire una linea di basso efficace. Con Franco e Candelo, grazie anche alla supervisione artistica di Rick Parashar nell’album Spirito, e di Richard Jack-Guy in Mondi Sommersi, abbiamo disegnato la ritmica di questi due album, dando sicuramente quella spinta propulsiva di cui parlavi. I brani di Spirito a cui sono maggiormente affezionato sono Animale di zona, Spirito e Lo Spettacolo, che ho registrato con il mio Pedulla 5 corde, e Lacio Drom, dove ho praticamente risuonato la linea di basso della demo che mi avevano fatto ascoltare, adattandola però alla tecnica contrabassistica del contrabbasso elettrico Vandrè, che utilizzai in quella session. Di Mondi Sommersi invece mi piacciono molto Imparerò, Goccia a Goccia, Si può e Sparami. Però nel complesso sono molto soddisfatto del lavoro svolto in studio per tutti i brani di questi bellissimi album.
Come ti trovasti a lavorare con Piero e Ghigo all’apice del loro successo?
In quegli anni, dall’estate del 1994 fino al 1999, si materializzò il sogno di tanti bassisti italiani: suonare con i Litfiba, la rock band più famosa del Paese. Ricordo durante le varie prove, le pre-produzioni degli album, le registrazioni e i successivi tour, una grandissima energia positiva, molto impegno, lavoro e sudore di tutti con ampio spazio esecutivo e creativo richiesto e concesso da Piero e Ghigo anche a noi session players. E devo dire che, guardando le classifiche e i risultati artistici dei Litfiba di quegli anni, questo metodo di lavoro ha dato i suoi frutti.
Dopo la ‘separazione’ dei Litfiba, tu seguisti Pelù nella carriera da solista. C’è un album di quel periodo, tra quelli registrati con Piero, al quale sei particolarmente legato?
Sono affezionato a ogni brano su cui ho avuto l’onore di registrare un mio basso. In particolare durante la carriera solista di Piero, avendo partecipato alle registrazioni di cinque suoi album in studio, ho un ricordo speciale per ognuno di questi lavori. In particolare delle sessioni di U.D.S nel 2002, dove mi ritrovai a registrare le basi (basso e batteria) con uno dei migliori batteristi del mondo, Vinnie Colaiuta. L’umiltà di Vinnie e la sua estrema generosità artistica rimarranno per sempre impresse nella mia mente. Ho un ricordo preciso di quando durante le takes di registrazione dei brani dell’album, che abbiamo suonato in studio insieme uno di fronte all’altro, con uno sguardo mi anticipava i feel di passaggio da una parte all’altra della canzone, creando tra noi due un inter-play simile a quello di musicisti che suonano insieme da tanto tempo. E se ripenso al suo approccio sulla batteria giurerei che mi sembrava di suonare con un pianista per via della poliedricità di sfumature del suo suono, della tecnica, dell’intenzione e della musicalità. Anche in questo caso, come era successo anni prima dopo le incredibili esperienze con i Ladri, finite le sessioni di registrazione pensai: “Ok, ora posso smettere di suonare e potrò comunque dire di averlo fatto con un mio mito”. Dei brani registrati con lui in U.D.S. il mio preferito è sicuramente Dea Musica, che reputo anche una della canzoni più belle composte da Piero Pelù.
Quando nel 2009 Piero e Ghigo sono tornati a far musica insieme anche tu sei rientrato nella band, suonando nell’album di inediti Grande Nazione e nel live Stato libero di Litfiba. Cos’ha significato per te far parte di quella reunion?
Partecipare al tour di Stato Libero di Litfiba è stato un autentico orgasmo collettivo! Vedere, sentire e capire la gioia dei fan per la ritrovata “pace” tra Piero e Ghigo e suonare per circa un anno e mezzo di tournée in palazzetti dello sport quasi sempre sold out è stata un’esperienza che auguro ad ogni artista o session man.
Come mai non hai partecipato anche al successivo ‘Eutòpia’?
L’ultima volta che ho suonato pubblicamente con i Litfiba risale al 2012, in occasione del Festival O’Scià organizzato a Lampedusa da Claudio Baglioni. In seguito hanno ritenuto di non coinvolgermi più nei loro progetti musicali, e penso che sia una cosa normale il fatto che un artista abbia la necessità di interagire con nuovi musicisti e collaboratori.
Com’è cambiato il mondo musicale dai tuoi esordi a oggi?
Il mondo è in continua mutazione e quindi è logico che anche la musica sia diversa da come era 30 anni fa. La tecnologia ha stravolto il modo di creare, produrre, ascoltare e diffondere le canzoni. L’avvento e la diffusione dei social media hanno cambiato e stravolto anche il mondo dell’informazione e i rapporti tra le persone, però sono convinto che le parole entusiasmo, curiosità, umiltà e perseveranza abbiano ancora un significato per chi si avvicina al mondo musicale.
C’è qualche esperienza che non rifaresti nella tua carriera di musicista?
Penso che rifarei tutto esattamente quello che ho fatto perché anche le esperienze negative servono per crescere e per imparare a non ripetere gli stessi errori. Ho sempre seguito il mio istinto e i consigli che ho ritenuto importanti per la mia crescita umana e professionale.
Qual è il progetto musicale o la collaborazione, invece, che ti piacerebbe prima o poi realizzare?
Bella domanda! In realtà ho già diversi progetti artistici e collaborazioni che stanno procedendo con ottimi risultati, poi ho imparato che è importante tenere libero del tempo anche per altri importanti “obiettivi”: prima di tutto alla mia famiglia, che è il “progetto” più importante di tutti.
“È passato tanto tempo…”, inizia con questa frase Se cerchi un eroe…non sono io, il nuovo brano di Marcello Pieri. E in effetti di tempo ne è passato da quando l’artista romagnolo spopolava in radio con il suo pop-blues sfacciato e vitale. Erano gli anni Novanta e Pieri non sbagliava un brano: Se fai l’amore come cammini, Pio, Al ritorno dal mare. Ma anche pezzi meno commerciali come Due barchette di carta sul mare, Il cuore in pace, Il tempo, che mostravano un talento compositivo che era stato già captato dalle orecchie attente di Vasco Rossi e Gianna Nannini. Poi nel 1997 qualcosa si ruppe nell’ingranaggio che lo teneva legato al mondo discografico e si ritirò dalle scene. In questi anni di assenza Marcello non si è certo annoiato, ha avuto una vita molto movimentata e non ha mai smesso di scrivere canzoni. In questa intervista ripercorriamo insieme la sua storia: il successo, i sodalizi, le scelte e gli incontri, catapultandoci poi nel futuro senza rimpianti.
Marcello, partiamo da Se cerchi un eroe…non sono io. Cosa rappresenta per te questo nuovo brano?
Nasce in uno di quei momenti in cui metti in dubbio tutte quante le tue certezze: senti che non hai più voglia di combattere contro le ineguaglianze, e ti sembra quasi che abbiano ragione quelli che dicono io non vado a votare tanto son tutti uguali. Invece no, come canto nel brano, “non è più tempo di stare in silenzio”.
Facciamo un passo indietro, torniamo agli anni Novanta, quando la tua musica passava quotidianamente in radio. Come vivesti quel successo esplosivo?
Furono anni molto belli, pieni di soddisfazioni. In pratica realizzai il mio sogno di quando ero bambino e cantavo davanti allo specchio con la spazzola in mano, al posto del microfono, chiuso dentro la mia cameretta. In quegli anni ho potuto anche aiutare i miei genitori a finire di pagare il mutuo del podere. Eravamo una famiglia molto unita quindi, come si dice dalle mie parti, ‘ce ne facevamo conto’.
Festival di Sanremo 1993: Marcello Pieri partecipò tra le Nuove Proposte con il brano Femmina – Questo è un fermo immagine del Dopofestival
È vero che apristi anche i concerti italiani di Bob Dylan?
Sì, è vero. Nel 1993 aprii i due concerti italiani di Dylan, il mio mito, a Milano e a Pisa. Che dire, un uomo molto riservato che girava dietro al palco con il cappuccio sulla testa. Ebbi la sensazione che si sentisse molto solo.
In quegli anni incassasti attestati di stima da più parti, su tutti da Vasco Rossi e Gianna Nannini, con i quali nacquero importanti collaborazioni.
Sì, loro si mostrarono interessati al il mio modo di scrivere. Con entrambi ci frequentammo per un periodo: io e Gianna scrivemmo insieme il brano Principe azzurro, da lei inciso nell’album Per forza e per amore, mentre con Vasco nacque La canzone per conquistare le ragazze da me registrata nel 1997. Poi con Vasco ebbi un feroce litigio che interruppe il nostro rapporto, da lì la mia decisione di lasciare l’ambiente musicale.
Nel 1997 hai scritto anche il brano In punta di piedi su richiesta di Marco Pantani. Come andò il vostro incontro?
Un giorno Marco Pantani mi telefonò chiedendomi una specie di suo ritratto in forma canzone perché voleva presentarsi a Sanremo. Aveva infatti una grande passione per il canto. Cosi ci frequentammo, anche perché lui era di Cesenatico e io di Cesena, appena 20 km di distanza, e conobbi un uomo dalla volontà eccezionale. Cercai di dipingerlo d’istinto e a lui piacque tanto la canzone In punta di piedi. La prima cosa che disse fu “Osta, ma questa dovrebbe cantarla Renato Zero”, di cui era grande fan. Incredibilmente una frase di quella canzone si rivelò profetica: “Io me ne andrò come sono arrivato…in punta di piedi”.
Poi a un certo punto sei sparito dalle scene musicali. Perché?
Nel 1997, dopo la pubblicazione con la EMI dell’album L’amore è sempre in giro e dopo il litigio con Vasco, decisi di fare altro, cosi partii per la Cina dove rimasi 7 anni a vendere tessuti.
Cos’altro hai fatto negli anni che sei stato lontano dagli studi di registrazione?
Terminata l’esperienza cinese, dopo la morte di mio padre e di mia sorella ho cominciato a occuparmi dell’azienda agricola di famiglia, dedicandomi all’agricoltura biodinamica e alla vendita diretta dei miei prodotti, senza mai però smettere di scrivere canzoni.
Marcello Pieri oggi
Qual è oggi il tuo rapporto con la musica in generale e con la canzone d’autore?
Oggi ascolto tanta musica di tanti generi. Tra gli italiani prediligo Ivano Fossati, Pino Daniele, Maurizio Fabrizio, Lucio Battisti, De André, De Gregori, Tiziano Ferro e naturalmente Marcello Pieri.
Cosa c’è nel tuo futuro?
C’è un album nuovo che esce quest’anno, a ventuno anni dal precedente, e poi tornerò a cantare nella mia cameretta davanti allo specchio, con la spazzola al posto del microfono.
Il video ufficiale di Se cerchi un eroe…non sono io
Siccome in questo periodo mi sto prendendo una pausa rigenerante, ho deciso di proporre qualche vecchia intervista a cui sono particolarmente legato. Quella che segue uscì nell’ottobre del 2012 su Leiweb. Celestini aveva da poco pubblicato il libro Incrocio di sguardi – Conversazione su matti precari, anarchici e altre pecore nere (Elèuthera), scritto a quattro mani con il cantautore Alessio Lega. In quell’occasione parlammo dei personaggi che popolano i suoi spettacoli e le sue narrazioni, della sua infanzia nella periferia romana, di suo padre e delle sue ansie di adulto. Ascanio fu sincero e onesto come sempre.
Buona lettura!
Ascanio Celestini: “Non mi piace chi ha il coltello dalla parte del manico”
“Mio padre era artigiano, faceva il restauratore. Certe volte lo aiutavo quando andava a lavorare nelle case delle persone ricche… Andavamo in case dove c’era l’entrata di servizio e l’entrata padronale, e noi prendevamo l’ascensore padronale solo quando c’era bisogno di lucidarlo”.
Ascanio, tra i tanti sguardi che ha incrociato nella vita, quale ricorda di più?
«Lo sguardo di un minatore di Perticara che mi ha fatto entrare dentro casa per fargli un’intervista. Oltre me e lui, c’era sua moglie seduta sul divano. Lui ha cominciato subito a parlare della miniera, poi è passato alla guerra. È tornato praticamente a piedi dalla Russia. Poi ha continuato con il paese, la musica e gli altri lavori che aveva fatto. La moglie lo guardava sorridendo assente. Così alla fine di questa storia è entrata anche lei nel racconto. Era stata operata al cervello, lui mi ha detto “gli hanno toccato due vene e non ricorda niente”. Così lui doveva ricordare anche per lei. Ma ce ne sono tanti altri di sguardi, anzi tutti. Quando insieme a mia moglie, per esempio, siamo andati da una cernitrice sarda che parlava solo in dialetto. Cercava di farsi capire, ma non c’era verso. Così s’è messa a pregare e a cantare. Tanto per non lasciarci senza niente».
Come dice Alessio Lega, anche lei è affetto “dalla malattia professionale di cantanti e attori”: ovvero l’ansia. Quando ha scoperto di essere ansioso?
«L’ansia non c’entra col lavoro che fai. Per me è un sintomo di una condizione di debolezza umana. Io sono una macchina che funziona male. Una macchina rotta. Troppo lenta, distratta. Una macchina che fa errori e spesso deve nasconderli, camuffarli, ripararli di nascosto per paura che venga rottamata. L’ansia sta tutta nella testa. Se la divide con tutte le altre cose che ci andiamo ad infilare. C’è il teatro, la cena da cucinare, mio figlio che sta a scuola, mio padre morto, l’assicurazione della macchina. Basta che il disordine cresca e la testa scoppia. Una volta sono finito all’ospedale. Ero immobilizzato, con le fitte al braccio e il cuore palpitante. Non solo io ero convinto di avere l’infarto, ma anche il medico che m’ha fatto passare avanti a tutti, m’ha strappato la maglietta e m’ha fatto l’elettrocardiogramma e le analisi del sangue in pochi minuti. Il fatto che stessi bene non significa quasi niente. Non è un problema di malattia. Da una malattia si guarisce, da una condizione no. Non ho scoperto di essere ansioso. Ho scoperto che la condizione che vivo ha quel nome».
Ascanio Celestini
Cosa le dà più ansia: il palcoscenico o la vita di tutti i giorni?
«Per me non c’è differenza. Né il teatro è una parentesi nella mia vita, né la vita è una parentesi in mezzo al mio teatro. Se parlo con una persona al bar e chiacchierando capisco come un veterinario considera la presenza di un cane sulla spiaggia nei giorni della sua vacanza al mare, entro nel punto di vista di qualcuno che vive in maniera differente dalla mia la presenza di animali sulla sabbia. Quella di un veterinario al mare può essere un’interessantissima esperienza letteraria. Mio padre era un artigiano, restaurava mobili. Le rarissime volte che entrava in chiesa vedeva solo mobili. Per lui il confessionale era potenzialmente un ottimo mobile-bar. Una volta rubarono un quadro nella casa di una sua cliente e venne interrogato da un carabiniere. Mio padre si stupiva del fatto che il tutore dell’ordine non capisse che lui non avrebbe mai potuto rubare un quadro. Diceva “quando entro in una casa guardo i mobili” e l’uomo in divisa “si ma lei si occupa di antiquariato e quello era un quadro antico”. Mio padre insisteva “appunto: era un quadro. E io vedo solo i mobili”. Anche una chiacchiera al bar può aprire una finestra sull’altro. Non sono una guardia che porta una divisa e arresta la gente solo quando è in servizio. Io cerco di fare del mio lavoro una maniera di stare nel mondo. Però è vero anche che salire in scena è comunque più compromettente di una chiacchiera al bar».
Ci racconta in cosa consiste il nuovo spettacolo che tra poco porterà in scena? So che si intitola Discorsi alla Nazione – Studi per lo spettacolo presidenziale.
«Sì, ma non ne so molto. Tra un mese incomincerò a portarlo in giro in forma di studio, ma non so quando debutterà. Lo stesso testo sarà anche in Belgio e Francia con un attore francese, David Murgia. Lavorerò con lui in questi mesi e debutterà al Festival de Liège in gennaio. Partiremo da alcuni discorsi che ho fatto quest’anno durante la trasmissione di Serena Dandini sul La 7. Nello spettacolo immagino un paese in guerra, una guerra civile che non è stata dichiarata, ma della quale sentiamo la presenza. Un paese dove piove sempre, dove la pioggia confonde tutto, ma diventa anche un alibi per non mettere il naso fuori di casa».
Nella presentazione dice che questi leader che interpreta “…parlano come parlerebbero i nostri tiranni democratici se non avessero bisogno di nascondere il dispotismo sotto il costume di scena della democrazia”. Si è ispirato a qualcuno in particolare?
«Ad uno qualunque e a tutti quanti. Con un coltello puoi tagliare una gola o una fetta di pane. Ma avere il coltello in mano ti mette in una condizione dominante. Per me il problema non è se chi comanda taglia le gole. Anche quando taglia un pezzo di pane è un potenziale assassino. Non mi piace chi ha il coltello dalla parte del manico».
Se Ascanio Celestini fosse nominato Presidente della Repubblica, cosa direbbe in occasione del suo primo discorso alla Nazione?
«Non mi piacciono i presidenti. Nella finzione teatrale posso essere un presidente o un gerarca nazista, un Papa o un pedofilo, ma nella realtà preferisco evitarli».
Da anni scivola e vola sulle acque con maestria, collezionando record e medaglie. Daniele Cassioli, campione di sci nautico paralimpico, è cieco dalla nascita, ma ciò non gli ha impedito di diventare il numero uno in questo sport. L’ho intervistato per il numero di giugno del magazine La Freccia.
Il 31 marzo è uscito il nuovo disco di Paola Turci, Il secondo cuore, caratterizzato da collaborazioni d’autore, tappeti elettronici, chitarre graffianti e momenti folk. E in questi giorni la cantautrice romana è già in tour nei teatri. L’ho intervistata per il numero 16 magazine Note.
Si avvicinano gli Internazionali BNL d’Italia di tennis, che si terranno al Foro Italico di Roma dal 10 al 21 maggio. Nell’attesa ho intervistato uno dei nostri ragazzi per il magazine La Freccia di maggio: il tennista altoatesino Andreas Seppi.
Oggi su Il Fatto Quotidiano (web) il mio contributo al Festival di Sanremo 2017: un’intervista a cuore aperto con il Maestro Peppe Vessicchio, il grande assente di questa edizione.
Per leggerla l’articolo cliccate sull’immagine sotto o su questo link: http://bit.ly/2kThOiz
Con L’amore e la violenza i Baustelle tornano alle origini, allo spirito di Sussidiario illustrato della giovinezza: ritmo, suoni sintetici e poesia. Un disco pop che racconta la contemporaneità e le sue contraddizioni. Li ho intervistati per il nuovo numero di Note.
In questi anni ho avuto a che fare con tanti artisti: alcuni capricciosi come bambini, altri arroganti e svogliati, che però cambiano “faccia” appena accendo il registratore. Altri, invece, artisti VERI, che non si risparmiano, che si concedono completamente senza pose né ipocrisie. In quest’ultima categoria ricade Renato Zero. L’ho intervistato per il nuovo numero del settimanale Note, in distribuzione da oggi. Abbiamo fatto una piacevole e interessante chiacchierata di circa 30 minuti sul nuovo lavoro, Arenà – Renato Zero si racconta, e sulla sua carriera. Purtroppo non ho potuto riportarla integralmente per motivi di spazio. Quando si ha a che fare con artisti di questa portata non basterebbe un intero numero per raccontarli. Buona lettura.