La musica ribelle di Eugenio Finardi

Negli anni duemila ho intervistato Eugenio Finardi diverse volte: prima per Il Fatto Quotidiano, poi per Leiweb, nei giorni della sua partecipazione al Festival di Sanremo del 2012. Tra le due occasioni, nel 2011 ci sentimmo anche per un’intervista che sarebbe finita nel mio libro “Il tempo della musica ribelle. Da Cantacronache ai grandi cantautori italiani”. Desideravo infatti sapere da lui quanto le realtà musicali di Cantacronache e del Nuovo Canzoniere Italiano avessero influenzato la sua di “musica ribelle”. Come sempre Finardi fu molto sincero, non risparmiando anche qualche critica all’approccio di alcuni membri del Nuovo Canzoniere Italiano. A distanza di tredici anni ripropongo quell’intervista in cui emergeva un interessante spaccato della nostra storia musicale.

Eugenio, tu sei entrato nel mondo della discografia nei primi anni Settanta. Che ricordo hai dell’ambiente musicale dell’epoca?

Sono entrato nel mondo discografico nel 1973. A quei tempi ci si ritrovava alla Galleria del Corso, come ha raccontato anche Pagani nel suo libro, e lì si creavano formazioni musicali nuove. C’erano degli appartamentini, dove attualmente ci sono le Messaggerie Musicali e la Sugar, con delle stanzette e in ognuna c’era un pianoforte, un compositore e un paroliere. Qualcuno arrivava e magari chiedeva di un bassista da inserire nel proprio gruppo. Io fui scelto, nel lontano 1971, come chitarrista di Marino Marini ed entrai nell’ambiente dove poi ho conosciuto Mauro Pagani, Alberto Camerini e altri amici. Nel 1973 fui preso dalla Numero Uno di Battisti. È lì che conobbi Lucio, Lavezzi, Mogol, il produttore Claudio Fabi, papà di Niccolò. La direttrice artistica era Mara Maionchi. Proprio nelle stanze della Numero Uno incontrai Demetrio Stratos. Tra di noi nacque una bella amicizia. Fu lui a presentarmi Gianni Sassi. E da lì iniziò il mio percorso artistico.

Il tuo primo album, “Non gettate alcun oggetto dai finestrini“, uscì nel 1975. Il disco conteneva la cover “Saluteremo il signor padrone”, canto popolare lanciato da Cantacronache. Come mai scegliesti di inserire questa canzone nell’album?

L’idea nacque per gioco. A me e ad Alberto Camerini divertiva molto riprendere brani che a livello musicale risultavano abbastanza noiosi. Così decidemmo di dare a questo pezzo una propulsione rock. Venimmo criticati tantissimo, soprattutto dalla Marini, per quel tipo di arrangiamento. Per loro era un sacrilegio rimaneggiare in versione rock quella canzone. A livello musicale eravamo troppo europei per essere compresi a pieno.

Quanto è stata influenzata la tua musica dal lavoro di riscoperta del canto sociale svolto da Cantacronache e dal Nuovo Canzoniere Italiano?

Noi eravamo influenzati moltissimo da Oreste Del Buono, il quale era proiettato in avanti, verso l’elaborazione e la personalizzazione della tradizione popolare. Ivan Della Mea e Giovanna Marini, invece, tendevano ad essere diffidenti verso questo tipo di approccio. Un atteggiamento buonissimo dal punto di vista filologico, ma che secondo me frenava l’evoluzione e la crescita. Il lavoro del Nuovo Canzoniere Italiano è stato grandioso dal punto di vista della ricerca e della riscoperta, ma un po’ meno da quello della rilettura della tradizione e della sperimentazione musicale. Noi volevamo fare rock italiano basato sulle nostre radici. Loro, invece, sono rimasti esageratamente fermi sulle loro posizioni senza risparmiare critiche a noi che invece volevamo sperimentare nuove soluzioni musicali. Questo, secondo me, è stato il loro grande limite.    

Sempre a metà degli anni Settanta, dopo l’uscita del tuo primo album, hai fatto da spalla prima a Fabrizio De Andrè e poi alla PFM. Quanto ha segnato quella esperienza la tua produzione discografica successiva?

Pochissimo. Lo so che sembrerà strano. Io e Alberto Camerini avevamo delle radici musicali che affondavano in Woodstock e l’Isola di Wight. Eravamo figli dei Beatles e dei Rolling Stones. Per noi tutta la musica italiana era una cagata pazzesca, a parte la musica popolare, che appunto prendevamo dal Nuovo Canzoniere Italiano. Dietro questa nostra posizione c’era una motivazione ideologica legata alla possibilità di edificare, dalla tradizione musicale popolare, il nuovo rock italiano. La mia amicizia con De Andrè non nacque da un’affinità artistica. Io conoscevo pochissimo del suo repertorio e quel poco non mi piaceva nemmeno particolarmente. E lui apprezzava questo fatto. Era contento che io non lo trattassi come una santa reliquia. Il nostro era un rapporto critico, ma molto costruttivo. Anche Dori (Ghezzi) lo ricorda bene. Spesso gli dicevo: “Fabrizio, perché voi cantautori ripetete la stessa frase alla fine della strofa, inventatene un’altra!” E lui mi spiegava che era un richiamo alla tradizione popolare. Così io comprendevo il suo mondo e la sua musica.

Gli anni Settanta sono stati anni molto difficili a livello sociale e politico. Tra i giovani c’era un fermento implacabile e spesso i cantautori venivano contestati. Anche De Gregori e De Andrè non rimasero immuni da questi attacchi. Questa contestazione toccò anche te?

Noi eravamo parte attiva del Movimento. Io e Alberto Camerini abbiamo cominciato a cantare in italiano perché volevamo dare una mano. Quando iniziò il casino, ovvero quando fecero il processo a De Gregori, noi non smettemmo. Anche perché avevamo la coscienza pulita. Io non ero diventato ricco appoggiando il Movimento. Io avevo guadagnato qualche soldo facendo concerti. Quindi, al momento in cui molti miei colleghi smisero di suonare per il clima che si era creato intorno a loro, io continuai sulla mia strada, insieme agli Area e a qualcun altro. Furono comunque giorni molto duri.

Tu hai sempre avuto un’attività live intensissima. Anche negli anni Settanta hai fatto centinaia di concerti. Ricordi qualche episodio particolare accaduto durante una delle tue esibizioni?

Sì, certo. Ai tempi, i concerti spesso venivano interrotti per tenere comizi. Una volta ci trovavamo al mercato dei fiori di Brescia e un tipo salì sul palco, da solo. Lo lasciammo parlare perché sarebbe stato antidemocratico non dargli spazio. Ma lui, all’improvviso, fece il grande errore di prendere a calci i pedali del chitarrista. A quel punto, lo prendemmo in due e lo sbattemmo giù dal palco. Ci rimase in mano un’abbondante ciocca dei suoi folti capelli. Queste erano forme di narcisismo e di cialtroneria che non sopportavo.

Cosa ti spinse, alla fine degli anni Settanta, a rallentare con l’attività live e a “rifugiarti” fuori Milano?

Il clima a Milano era molto pesante. Io avevo subito varie intimidazioni. Mi bucarono le gomme della macchina. Addirittura una notte venni anche seguito. Insomma, non c’era una bella atmosfera. E poi un ulteriore episodio che mi convinse a uscire fuori Milano fu la nascita di mia figlia Elettra con la Sindrome di down. Da quel momento iniziò il mio percorso come cantautore, forse dall’esigenza di analizzare ciò che mi stava succedendo. I miei anni Ottanta sono stati molto più duri e meno romantici dei Settanta.          

Claudio Lolli, il cantautore scomodo

Incontrai Claudio Lolli nell’ottobre del 2011 mentre ero nel pieno della stesura del mio libro “Il tempo della musica ribelle – Da Cantacronache ai grandi cantautori italiani”. Claudio fu molto gentile, disponibile e ospitale. Mi chiarì i suoi rapporti con il repertorio di Cantacronache e del Nuovo Canzoniere Italiano per poi svelarmi un po’ di aneddoti sul suo percorso musicale non privo di ostacoli. Fu un incontro intenso, straordinario, che mi arricchì sia come autore sia come persona. L’intervista finì poi nel libro che stavo scrivendo.

Claudio è scomparso da quasi sei anni, ma ancora oggi porto con me il poco tempo trascorso insieme come un bagaglio pieno di storie e umanità. Per questo voglio riproporre qui la nostra chiacchierata.

È una mattina di fine ottobre 2011, nuvolosa ma non fredda. Sto per incontrare un altro dei grandi cantautori italiani che negli anni Settanta ha conosciuto il suo momento migliore. Un ribelle. Uno che non è mai sceso a compromessi. Uno a cui la musica ha dato, poi ha tolto e poi ha ridato. Sto parlando di Claudio Lolli, il cantautore bolognese. Ma anche il professore di italiano e latino. Per caso mi trovo nella sua Bologna. Fumo con avidità una sigaretta, anche se non dovrei farlo, e in mano ho la biografia di Claudio, “La terra, la luna e l’abbondanza”, e un numero del 1975 della rivista del Nuovo Canzoniere Italiano, miracolosamente scovata in un negozio di libri usati. Via Indipendenza alle 11 e 30 del mattino è così popolata da rendere difficile qualsiasi appuntamento. Nonostante il traffico fitto e incessante di pedoni, riconosco la barba e lo sguardo da sognatore di Claudio Lolli. Ci sediamo a un tavolo e cominciamo la nostra chiacchierata. Claudio ha molto in comune con Cantacronache e il Nuovo Canzoniere Italiano. Anche lui ha raccontato spicchi di storia del nostro Paese attraverso le proprie canzoni. Per questo e per altri motivi è sempre stato considerato un cantautore ingombrante. Da tutti. Dai partiti alle grandi case discografiche. Sì, perché Claudio, fin dai suoi esordi, ha rivolto una dura critica al mondo che lo circondava e alla classe sociale a cui apparteneva. Erano anni difficili quelli che tra la fine dei Sessanta e i Settanta. Anni in cui gli studenti contestavano. Ma anche gli operai. E i cantautori non potevano essere da meno. Non era permesso un rifiuto alla militanza. Chi non lottava, rischiava di essere contestato a sua volta. Erano tempi in cui nascevano il Movimento studentesco e Lotta Continua, una delle più importanti sigle della sinistra extraparlamentare italiana. Ma anche Avanguardia Operaia e Potere Operaio. In questo clima sociale incandescente, nacque “Aspettando Godot”, il primo album di Claudio Lolli. Il disco venne concepito in parte sui banchi del liceo. Passando per il salotto di casa Lolli, in cui un attento Piero Guccini decise di portare Claudio dal “fratellone” Francesco che gestiva al tempo  l’Osteria delle Dame, locale che dava spazio agli artisti emergenti. Tutti quei musicisti che avevano qualcosa di nuovo da proporre, che volevano far ascoltare a un pubblico, anche solo di amici e conoscenti, le proprie canzoni. Su quel palco salì anche un Claudio Lolli poco più che ventenne. E così iniziò la sua carriera di cantautore. Poco tempo dopo arrivò l’album “Aspettando Godot”. Nel disco uno dei brani che ancora oggi resta il fiore all’occhiello della produzione di Lolli, “Borghesia”. Il cantautore bolognese rivelò subito la sua fame di verità, denunciando il punto di vista bigotto e individualista della borghesia. L’attenzione alla gestione e alla cura della propria ricchezza. L’esigenza spasmodica di affondare la lingua nelle pene altrui e di mantenere a tutti costi il proprio status quo. Una borghesia ottusa, per cui la più grande sventura era di ritrovarsi “una figlia artista” o “un figlio non commerciante”.

“Vecchia piccola borghesia per piccina che tu sia
non so dire se fai più rabbia, pena, schifo o malinconia.
Sei contenta se un ladro muore se si arresta una puttana
se la parrocchia del Sacro Cuore acquista una nuova campana…..”

“….Non sopporti chi fa l’amore più di una volta alla settimana
chi lo fa per più di due ore, chi lo fa in maniera strana.
Di disgrazie puoi averne tante, per esempio una figlia artista
oppure un figlio non commerciante, o peggio ancora uno comunista.”

“Sempre pronta a spettegolare in nome del civile rispetto
sempre lì fissa a scrutare un orizzonte che si ferma al tetto.
Sempre pronta a pestar le mani a chi arranca dentro a una fossa
sempre pronta a leccar le ossa al più ricco ed ai suoi cani.”

Questa canzone rappresenta ancora oggi uno dei manifesti della produzione di Lolli.

Poi venne “Un uomo in crisi. Canzoni di morte, canzoni di vita”. Le canzoni del disco, pubblicato nel 1973, raccontavano un’umanità vittima di una crisi profonda, radicata soprattutto negli strati più bassi del tessuto sociale dell’epoca. Il disagio delle periferie, la lotta civile, la piaga dei suicidi nelle caserme italiane furono alcuni degli argomenti trattati nell’album. Nella canzone “Morire di leva – A un amico siciliano”, Claudio descrisse l’inadeguatezza di un ragazzo alla vita militare, le ombre che la leva aveva portato nella sua vita e il triste destino che gli aveva riservato. Il cantautore bolognese mise l’accento sull’ipocrisia dei superiori e la loro tendenza a ridurre a pura pazzia un gesto che poteva sottintendere responsabilità morali ben precise.

“Il colonnello, col fumo nella testa, va fino in fondo lui alla sua inchiesta.
Non ci fu colpa, nessuno ebbe colpa alcuna, il suo cervello cercatelo sulla luna, il suo cervello cercatelo sulla luna.
Perché non può altro che dirsi matto, colui che compie un così insano atto.

Il cappellano si associa al risultato, ricorda a tutti che uccidersi è un peccato, ricorda a tutti che uccidersi è un peccato.
Porca Eva, proprio a te è toccato morire di leva.”

Nel 1975 fu la volta di “Canzoni di Rabbia”, un disco nato da un’esigenza catartica, la necessità di raccontare la propria rabbia. Quella che aveva provato poco tempo prima di incidere questo album, quando rimase rinchiuso dieci giorni nel carcere di Regina Coeli per aver dato del fascista a un poliziotto. Come lui stesso raccontò: “un poliziotto volgare e aggressivo”. Così nacque “Canzoni di rabbia”. Un album diviso in due parti: la prima in cui si parlava di rabbia solitaria, la seconda in cui cantava la rabbia lucida. Claudio non raccontò l’episodio con riferimenti diretti, ma con una sofferenza esistenziale che racchiuse tutto lo sconforto di quegli anni, il senso di inadeguatezza di fronte a quel mondo gonfio di arroganza e di violenza. Poco tempo dopo arrivò il suo disco di maggior successo, “Ho visto anche degli zingari felici”, pubblicato dall’EMI nel 1976. Un album straordinario, in cui si alternavano rabbia, indignazione, commozione, ironia e poesia. Mai come in questo lavoro il cantautore bolognese espresse la sua grande capacità di racconto della cronaca attraverso la canzone, sempre con un punto di vista personale, ma con quel sentimento diffuso di indignazione che accomunava in quei giorni tutti i cittadini feriti dallo scoppio di tanta violenza. L’album ebbe un successo sopra ogni aspettativa. Nel giro di pochi giorni vendette più di centomila copie, affacciandosi anche nella top ten nazionale. In quell’occasione dimostrò tutta la propria abilità nel raccontare uno spaccato della storia d’Italia. In “Agosto”, per esempio, rievocò la strage dell’Italicus. Dell’attentato terroristico che la notte del 4 agosto del 1974 causò 12 morti e 48 feriti. Quando il treno espresso Italicus, mentre si trovava all’altezza di San Benedetto Val di Sambro, in provincia di Bologna, venne dilaniato da una bomba posizionata nella vettura numero 5. Claudio riuscì a fermare in quella canzone tutte le controverse emozioni di quei giorni d’agosto. Compreso il sentire comune che fosse una strage “più o meno di Stato”.

“Agosto. Che caldo, che fumo,
che odore di brace.
Non ci vuole molto a capire
che è stata una strage,
non ci vuole molto a capire che niente,
niente è cambiato
da quel quarto piano in questura,
da quella finestra.
Un treno è saltato.”

In questa strofa Lolli fece anche un chiarissimo riferimento alla morte del Pinelli, di cui abbiamo già parlato prima. Pinelli salta dalla finestra e muore.  L’Italicus salta in aria. Due drammi rimasti oscuri. Due “salti” che nascondevano qualche cosa di oscuro e, ancora oggi, assai misterioso. 

“Agosto. Si muore di caldo
e di sudore.
Si muore anche di guerra
non certo d’amore,
si muore di bombe, si muore di stragi
più o meno di Stato,
si muore, si crolla, si esplode,
si piange, si urla.
Un treno è saltato.”

“Agosto” era la seconda traccia dell’album. Dopo veniva “Piazza, bella piazza”, brano che rappresentava un continuum con il precedente. Anche qui si parlava dei poveri e ignari passeggeri dell’Italicus e di una piazza, Piazza Maggiore a Bologna, quella che ospitò le bare delle vittime dell’attentato.

“Piazza, bella piazza, ci passò una lepre pazza…

Ci passarono dieci morti
i tacchi, e i legni degli ufficiali,
teste calve, politicanti
un metro e mezzo senza le ali,
ci passai con la barba lunga
per coprire le mie vergogne,
ci passai con i pugni in tasca
senza sassi per le carogne.”

Claudio descrisse la rabbia verso le autorità che serpeggiava quel giorno tra la gente. Raccontò l’indignazione, l’impotenza e la vergogna, rammaricandosi di non avere in tasca i sassi da lanciare alle carogne, ovvero gli “ufficiali” e i “politicanti” presenti a quel funerale. E nella strofa successiva diede anche un nome a quelle presenze sgradite.

“E fu il giorno dello stupore
e fu il giorno dell’impotenza,
si sentiva battere il cuore,
di Leone avrei fatto senza,
si sentiva qualcuno urlare
“solo fischi per quei maiali,
siamo stanchi di ritrovarci
solamente a dei funerali”.

Lolli citò nella canzone il Presidente della Repubblica di allora, Giovanni Leone, in carica dal 1971 al 1978, figura controversa nella storia del nostro Paese. Quel giorno anche lui partecipò al funerale insieme alle altre autorità. Il susseguirsi di stragi, morti, disperazione di quegli anni, infatti, condizionò tantissimo la celebrazione del rito di saluto. La stanchezza di ritrovarsi solo a dei funerali fu espressa con tutta la rabbia a disposizione dei cittadini di una Bologna annichilita dal dramma e dal dolore.

Alla luce di quanto finora raccontato, mi sembra impossibile non considerare anche Claudio Lolli un figlio di Cantacronache e del Nuovo Canzoniere Italiano. Per questo torniamo alla mattina di fine ottobre in cui l’ho incontrato in un bar di via Indipendenza. Davanti a un bicchiere di vino bianco, mi ha chiarito tanti dubbi e mi ha regalato tante preziose curiosità.

Claudio, partiamo dalla fine. C’è una continuità tra il lavoro di Cantacronache, del Nuovo Canzoniere Italiano e voi cantautori degli anni Settanta?

C’è una continuità indiretta e implicita, nel senso che questa attenzione alla realtà, al sociale, alla storia, agli ultimi della terra, certamente io l’ho appresa da loro. E, come me, molti cantautori di quegli anni. Anche se io non ho mai cercato di fare qualcosa che tendesse all’inno o al canto di protesta, alla canzone esplicitamente militante. Io ho cercato sempre di fondere questa mia attenzione per la realtà e per gli ultimi con un mio punto di vista fortemente personale. Per anni sono stato impegnato nei Movimenti, ma non ho mai avuto un legame stretto con la politica come lo avevano Cantacronache e il Nuovo Canzoniere Italiano. Io ho cercato di mantenere la mia originalità in quello che faccio. Anzi, credo che a loro avrebbe dato fastidio se noi cantautori ci fossimo messi a imitarli o ci fossimo improvvisati esperti di canti popolari.

Tu hai suonato insieme a Ivan Della Mea. Con Fausto Amodei, invece, hai condiviso addirittura un’intera serata. Cosa ricordi di quegli incontri?

Di Ivan mi ricordo che ogni volta che ci incrociavamo mi chiedeva sempre, con il suo fare apparentemente brusco: “Lolli, ce l’hai un mi cantino”. Perché lui puntualmente lo rompeva ad ogni concerto. Ha fatto grandi cose Ivan per la ricerca nell’ambito del canto sociale. Invece di Fausto Amodei ero un ascoltatore accanito. Mi piaceva tantissimo. I dischi ce li ho ancora. Con lui ci siamo visti due o tre volte. Poi abbiamo fatto una serata insieme a Torino. Era la fine degli anni Ottanta. Fu uno spettacolo in due tempi. Io feci il mio repertorio e lui fece il suo. Mi pare che insieme interpretammo “I morti di Reggio Emilia”. Poi ci vedemmo un’altra volta a Roma, al Folkstudio.

Tu hai anche ripreso La ballata del Pinelli e l’hai personalizzata. Un altro caso insoluto legato alla strage di Piazza Fontana. La misteriosa morte di un anarchico che, a detta di chi lo conosceva, non si sarebbe mai gettato dalla finestra di sua spontanea volontà. Perché sentisti l’esigenza di riprendere questa canzone?

Mi piaceva moltissimo. Nei miei spettacoli c’è sempre stata particolare attenzione alla storia contemporanea. Poi da quell’episodio, secondo me, sono partiti i grandi misteri della storia d’Italia. Gli oscuri fatti che si nascondevano dietro la così detta strategie della tensione. Quasi nessuno dei miei ascoltatori, soprattutto quelli più giovani, sapeva niente di quel periodo. Il testo l’ho preso da un canzoniere di protesta di quegli anni. C’erano anche degli omissis che io ho riempito mettendo nomi e cognomi.

I tuoi anni Settanta furono splendidi. Dischi molto belli, tra cui il tuo capolavoro “Ho visto anche degli zingari felici” e tanti concerti. Il decennio successivo, invece, non fu molto fortunato dal punto di vista musicale. Un momento di svolta nella tua vita fu l’anno 1985, quando tu vincesti un concorso e cominciasti a insegnare. Il tuo primo incarico fu come supplente al liceo di Porretta Terme. Come mai prendesti la decisione di dedicarti all’insegnamento? Ci fu qualche episodio in particolare che ti portò a non considerare più la musica come unica fonte di sostentamento?

Accadde una cosa molto semplice: non mi chiamavano più a suonare. Erano gli anni di Craxi e della discomusic. Quello che io facevo era fuori moda, semplicemente fuori luogo. In quegli anni lì, io ho continuato a fare dischi. Ma dal vivo non suonavo quasi più. Facemmo uno spettacolo con Giampiero Alloisio, con la regia di Giorgio Gaber, che si intitolava “Dolci promesse di guerra”. Una cosa che sulla carta si presentava abbastanza prestigiosa. Lo spettacolo era ben fatto dal punto di vista musicale. Riuscimmo a fare a stento una quindicina di date con una scarsa partecipazione di pubblico. Così diventò imbarazzante, umiliante, proporre cose che nessuno voleva ascoltare. Mi trovai nel bel mezzo del così detto riflusso storico. E starci dentro non fu molto piacevole. L’ultimo anno, prima di iniziare a insegnare, dovetti fare cose veramente imbarazzanti, unicamente per soldi. Purtroppo campavo con la musica e non potetti dire di no. A quel punto feci il concorso per insegnare. Lo vinsi e mi assegnarono una cattedra. Andavo a suonare quando mi chiamavano, ma finalmente potevo dire anche di no.

È stato un modo per ricavarsi quello spazio di libertà che, per esempio, oggi è difficile da ottenere per un artista, tra major e obblighi promozionali. Non credi?

Non solo quello. A parte qualche grande nome, oggi i cantanti durano qualche anno. Ma dopo? Spesso ragazzi giovanissimi mi chiedono di ascoltare le loro registrazioni. Io cerco di incoraggiarli, ma anche di disincantarli un po’. Se uno viene da me e mi dice che vuole lasciare l’università perché sente che ha il talento per fare il cantante, io lo sconsiglio vivamente. Gli dico di fare sia l’uno che l’altro. Li invito a non diventare ricattabili, a non dipendere totalmente dagli altri. Io ho continuato a scrivere e a pubblicare. Poi ho anche incontrato dei musicisti con cui era possibile suonare così, nei ritagli di tempo. Tra cui il chitarrista Paolo Capodacqua, con cui in questi anni ho fatto una media di cinquanta serate l’anno.

Torniamo un attimo al tuo esordio nella Bologna dei primi anni Settanta, sul palco dell’Osteria delle Dame di Francesco Guccini. Cosa ricordi di quel momento?

C’era questo locale che Francesco gestiva a Bologna. E il sabato sera, dopo una certa ora, c’era una sorta di palco libero. Chi voleva, poteva salire sul palco e far sentire qualcosa. Io ci capitai un sabato che i suoi discografici della EMI erano venuti a trovarlo. Era appena uscito il suo disco “Radici” e stava vendendo tantissimo. I discografici ascoltarono alcuni miei pezzi e appena sceso dal palco mi dissero che dovevo assolutamente andare da loro a Milano per firmare un contratto. Così iniziò tutta la storia.

Tu sei stato uno dei cantautori più amati tra i giovani del Movimento. Ma i partiti, invece, come ti vedevano?

Non ero ben voluto a Bologna dai partiti. Sono sempre stati molto diffidenti nei miei confronti. Dopo il ’77, infatti, alle feste dell’Unità non mi chiamarono più. Se non qualche appassionato. Con il tempo sono diventato troppo scomodo.

In che senso?

Nel senso che politicamente non ero allineato. Nel ’77 a Bologna è stata dura. Ci fu un ferocissimo scontro tra il PCI e i movimenti di sinistra. Ai tempi non si capirono.

Poi è arrivato il successo con “Ho visto anche degli zingari felici”, l’album in cui hai raccontato la realtà che ti circondava in tutte le sue contraddizioni.

Sì, raccontai fatti veri, storie di piazza. Mescolati anche al mio privato.

A proposito di piazza. Come vedi oggi la piazza e il movimento studentesco?

Mi sembra che ci sia un risveglio delle coscienze, un bel segnale di partecipazione dal basso. È bello vedere che non ci sia più tanta anestesia nel nostro Paese. Riguardo agli scontri della fine del 2011, beh, non so cosa pensare perché non ho testimonianze dirette, se non quelle che si vedono in tv. Quindi è troppo facile condannarli ed è troppo semplice anche assolverli.

Tu ancora insegni?

Da quest’anno non più. Sono appena andato in pensione.

A me ha sempre destato curiosità il rapporto tra studente e il prof/cantautore. I ragazzi a cui insegnavi conoscevano il tuo passato?

Prima o poi arrivavano a scoprirlo. E a loro non dava fastidio. Anzi, gli faceva piacere. Il mondo della scuola è abbastanza asfittico. Si trovano professori che lavorano come impiegati, attenti alla verifica e alla somministrazione di nozioni e basta. Sapere che il loro insegnante avesse una vita anche al di fuori, che pubblicasse dischi e facesse concerti, era per loro stimolante. Ha funzionato molto bene dal mio punto di vista. Io ci sono stato benissimo nel mondo della scuola, soprattutto per il contatto con gli studenti. Loro mi hanno insegnato tanto, soprattutto a sconfiggere la mia timidezza. Una volta un mio collega mi disse: “Io senza registro sotto il braccio non mi sento nessuno.” Io, invece, senza registro ci stavo benissimo.

La Venezia di Gualtiero Bertelli – L’intervista

Questa intervista a Gualtiero Bertelli la realizzai nel 2010 sempre per il libro Il tempo della musica ribelle. Compositore e ricercatore, tra i protagonisti del Nuovo Canzoniere Italiano, Bertelli resta uno dei massimi cantori della condizione sociale e culturale veneta negli anni Sessanta.

Gualtiero Bertelli

La sua esperienza di ricercatore e compositore con il Nuovo Canzoniere Italiano iniziò nel 1964. Gualtiero cantava la sua Venezia, quella in cui è nato e vissuto per una vita. Ha raccontato la realtà sociale dell’epoca attraverso degli spaccati di vita vissuta, sempre influenzato dalla sua provenienza culturale. Bertelli, infatti, ha delle radici molto umili. Originario della Giudecca, noto quartiere di Venezia in cui era molto diffuso l’operaismo. Il padre operaio, la mamma casalinga. Una famiglia umile che viveva in un quartiere notoriamente di sinistra. A cinque anni venne iniziato dal padre allo studio della fisarmonica, strumento che caratterizzò la scelta di dedicarsi alla musica popolare. Anche se il suo primo complesso, nato in età adolescenziale, aveva una marcata connotazione rock. Studiò all’istituto magistrale, dedicandosi all’insegnamento elementare. L’amore per la canzone d’autore arrivò con il passare degli anni, soprattutto con il suo coinvolgimento nella politica. Ma alla fine del 1963, grazie all’incontro con alcuni componenti di Cantacronache, con cui era stato messo in contatto da Luigi Nono, Bertelli cominciò il suo percorso con il Nuovo Canzoniere Italiano. Proprio nell’ambito di questa esperienza formò, insieme a Luisa Ronchini e Alberto D’Amico, il primo nucleo del Canzoniere Popolare Veneto. Comincerà così, nel 1964, il lavoro di ricerca sulla musica popolare, sul canto sociale veneto e su quello di altre regioni italiane. Gualtiero ha cominciato scrivendo canzoni che raccontavano la realtà in cui viveva, usando il suo dialetto, la lingua della classe operaia. Si è occupato e si occupa tutt’oggi del recupero del repertorio musicale della tradizione popolare veneta e della composizione di nuovi brani in dialetto ispirati alla condizione sociale e culturale di Venezia. Lo spettacolo “Tera e aqua”, ambientato nella Venezia di quegli anni e proposto per la prima volta nel 1966, rappresentò l’esordio del Canzoniere Popolare Veneto. Dallo spettacolo venne tratto il disco Addio Venezia addio, pubblicato nel 1968 dall’etichetta Dischi del Sole. Quella fu una grande annata per Bertelli, infatti, nello stesso anno, pubblicò Nina ti te ricordi, una delle sue canzoni più celebri.

Gualtiero, domanda di rito, come è avvenuto il primo contatto con la musica di Cantacronache?

Ho sempre suonato la fisarmonica, fin da quando ero bambino. All’inizio mi esibivo in un complessino per ripagare le spese. In quegli anni frequentavo la scena culturale e politica veneziana. C’erano parecchi giovani che partecipavano. E proprio in quei giorni cominciarono ad arrivare alla libreria Internazionale, uno dei nostri luoghi di ritrovo, i dischi del Cantacronache. Mi appassionai subito a quel tipo di canzoni, a quel modo di comunicare. Così decisi di cominciare a scrivere canzoni che rappresentassero le mie convinzioni. Io abitavo alla Giudecca, un quartiere di Venezia, e proprio in quel periodo Liberovici e altri musicisti del Cantacronache vennero lì a fare un concerto. Così ebbi modo di conoscerli e apprezzarli. Così cominciai ad appassionarmi alla musica popolare e al canto sociale.

Quanto ha influito su questa tua passione il fatto di appartenere a una famiglia operaia?

Tantissimo. Mio padre era un metalmeccanico e mia madre una casalinga. Abitavamo alla Giudecca, che ai tempi era la parte più povera della città. Una zona proletaria, con una tradizione comunista molto forte. L’antifascismo era alla base della nostra cultura. Io sono cresciuto in quell’ambiente e nelle mie canzoni ho messo il punto di vista di chi veniva da quella tradizione culturale.

Ho letto una bellissima presentazione che ti ha dedicato Straniero su di un numero della rivista Nuovo Canzoniere Italiano. La ricordi?

Sì, fu proprio Michele Straniero a introdurmi nel Nuovo Canzoniere Italiano. Lui mi venne a cercare allo studio in cui provavo e mi chiese di partecipare allo spettacolo “Bella ciao”, che si sarebbe tenuto a Spoleto.

Qual era il suo rapporto con Bosio e Leydi?

Bosio lo conobbi a Mantova. Assistette a una mia esibizione. Gli piacquero moltissimo le cose che raccontavo nelle mie canzoni. Parole legate alla mia terra, alla mia cultura e alle mie umili origini. Devo ammettere che sia lui che Leydi mi hanno molto valorizzato.

Nel frattempo avevi formato il Canzoniere Popolare Veneto.

Sì, lo fondai poco tempo dopo il mio ingresso nel Nuovo Canzoniere Italiano. La storia del Canzoniere Popolare Veneto iniziò dalla mia collaborazione con Luisa Ronchini. Poi arrivò D’Amico. Cominciammo con lo scavare nella tradizione veneta, nell’esplorare un mondo sconosciuto a molti.

Qualche mese fa è scomparso Ivan Della Mea. Che ricordo hai di lui?

Ivan è stato un punto di riferimento per me. Lui si distingueva per l’uso del dialetto milanese nelle sue canzoni. In questo senso il suo contributo è stato fondamentale. Per quanto mi riguarda mi ha dato coraggio per continuare sulla strada del dialetto.

Secondo te, da cosa è dipesa la fine del Nuovo Canzoniere Italiano?

La fine del Nuovo Canzoniere Italiano è stata caratterizzata da un processo lento, durato parecchi anni. Iniziò con la morte di Gianni Bosio, un duro colpo per tutti visto che lui era la coscienza cultura e politica del gruppo. Con il tempo venne meno anche il sostegno economico. La situazione politica italiana di fine anni Settanta diede il colpo di grazia a questa esperienza. Il terrorismo era diventato la nuova piaga da annientare. Il lavoro di ricerca del Nuovo Canzoniere venne considerato superato per i tempi che correvano.

Paolo Pietrangeli, tra Contessa e Valle Giulia – L’intervista

Questa intervista con Paolo Pietrangeli l’ho realizzata nel 2011 per il mio libro “Il Tempo della musica”. La ripropongo qui perché, come tutte le interviste ai protagonisti di Cantacronache e del Nuovo Canzoniere Italiano, rappresenta una  preziosa testimonianza di un mondo che non c’è più.

Da sinistra Francesco Guccini, Paolo Pietrangeli, Giovanna Marini.

Una laurea in filosofia. Una storia musicale iniziata nel 1966, con l’assassinio di Paolo Rossi. “Grazie a quella canzone ho fatto un mestiere straordinario, ho conosciuto persone che altrimenti non avrei mai incontrato, ho visto luoghi che non avrei mai visitato”. In quegli anni Paolo, figliolo del regista Antonio Pietrangeli, cominciava a sentire l’aria di rivoluzione che tirava dopo gli anni del boom economico. Così iniziò a scrivere canzoni dal contenuto socio-politico, diventando a poco a poco uno dei rappresentanti della canzone di protesta. I giovani sessantottini lo adottarono come uno dei “loro” cantautori. Alcune canzoni divennero la colonna sonora delle agitazione. Paolo Pietrangeli scrisse quelli che divennero gli inni della contestazione universitaria, “Valle Giulia” e “Contessa”. Le due canzoni videro l’interpretazione, come seconda voce, di Giovanna Marini. La prima fu ispirata dagli scontri tra studenti e forze dell’ordine all’interno della facoltà di architettura dell’università di Roma. Quel grave episodio, avvenuto il primo marzo 1968, fu il focolaio di una rivolta molto più ampia che sarebbe scoppiata dopo pochi mesi. La canzone descrisse, senza lasciare troppo spazio alle metafore, cosa avvenne in quella giornata. Uno scontro aspro e inusuale, visto che gli studenti fino a quel momento non erano mai arrivati a un contatto così diretto con le forze di polizia.  Non siam scappati più, non siam scappati più, recitava il ritornello. In quel momento Pietrangeli si trovava in facoltà insieme ad altri giovani “rivoluzionari”. Ma la canzone cult del repertorio di Paolo Pietrangeli, che ancora oggi sopravvive all’usura del tempo e delle rivoluzioni, è certamente “Contessa”. L’intramontabile colonna sonora del ’68 italiano fu ispirata da un episodio casuale, una conversazione captata in uno sciccoso caffè di Roma. “Contessa” rappresenterà uno degli esempi di canzone popolare, che sottolinea l’avvicinamento e il muoversi in maniera coordinata delle lotte studentesche e quelle operaie. Nel 1969, infatti, sarà la volta dell’autunno caldo che “incendierà” le fabbriche. Pietrangeli, dopo il grande successo di “Contessa”, continuò a scrivere canzoni. Ma verso la fine degli anni Sessanta cominciò a occuparsi anche di cinema. Fu aiuto regista di Mauro Bolognini, per poi lavorare, negli anni successivi, con Luchino Visconti e Federico Fellini. Il suo nome, ancora oggi, è saldamente legato a “Contessa”. Una profonda sensibilità e una malcelata timidezza. La lotta. L’intolleranza per l’ingiustizia sociale. Pare che di recente abbia anche dichiarato: “Tutti mi attribuiscono canzoni politiche, ma io credo di aver scritto sempre e solo brani su persone o fatti che mi stavano a cuore“.

Giovanni Straniero e Mauro Barletta raccolsero, qualche anno fa, una dichiarazione di Paolo Pietrangeli riguardante l’opportunità o meno di parole forti come quelle di Contessa e di altre sue canzoni. “È chiaro che quando scrissi Contessa – diceva Pietrangeli – non c’era il terrorismo. Adesso dovrei pesare più col bilancino le parole, ma all’epoca, se si diceva <<facciamo la rivoluzione>>, non è che si pensasse a sparare”.

Paolo Pietrangeli nel 2019

Paolo, quando ha cominciato a scrivere canzoni?

Avevo quattordici anni. Cinquanta anni fa. Un’abitudine che risale alla mia adolescenza.

Come è venuto a contatto con la canzone sociale e di protesta?

Quando mio padre portò a casa i dischi di “Cantacronache”. Nel ’64, poi, quando era già nato il Nuovo Canzoniere Italiano, fecero lo spettacolo “Bella ciao”. E da lì cominciai a seguirli. Mi intrigò moltissimo quel modo di cantare. Era un periodo in cui la canzone italiana classica era insopportabile, una canzone smielata. C’era un velo di novità perché finalmente la canzone era legata alla realtà circostante. Nel ’66, i miei amici mi portarono alla libreria Rinascita dove il Nuovo Canzoniere Italiano presentava “La linea rossa”, una linea editoriale fatta su quarantacinque giri. Con quella produzione volevano conquistare un mercato che non si conquistò mai. Quel giorno registrai tutto quello che avevo a disposizione, ma persero il nastro. Così i miei amici, che erano più cocciuti di me, mi portarono a casa di Giovanna Marini. Lì registrammo di nuovo tutte le mie canzoni e passammo un bellissimo pomeriggio. Io registrai tutto quello che avevo fatto fino a quel momento. Questo nastro fu mandato a Milano. Appena lo ascoltò, Gianni Bosio disse a Giovanna di portarmi da lui. Siccome qualche giorno dopo a Venezia era in programma lo spettacolo “Terra e Acqua”, da Roma presi il treno per la città lagunare. Da quel treno non sono mai più sceso. Ecco come sono entrato nel Nuovo Canzoniere Italiano.

Che ricordo ha di Gianni Bosio?

Era una persona che mi metteva in soggezione. Devo dire molto severa. Poi, conoscendolo, negli anni ho capito che la sua era timidezza. Uno storico di grande spessore, molto acuto. Uno dei primi a capire che la storia non era fatta solo di trattati di pace e guerre, ma di usi, costumi, tradizioni. Fu illuminante. Così nacque una bella amicizia, che si interruppe presto perché morì per un attacco di appendicite.

La canzone “Contessa” è stata il punto di riferimento della gioventù sessantottina. In che circostanze nacque?

Io ero studente di Filosofia. Ci fu l’uccisione di Paolo Rossi, che non era un calciatore, ma uno studente che venne gettato giù dalla scalinata della facoltà di Lettere e Filosofia e morì sbattendo la testa. Questo fatto incendiò le coscienze di tanti. Così cominciarono manifestazioni e occupazioni.  I fascisti, che fino a quel momento avevano spadroneggiato, vennero cacciati dall’università. Questa occupazione io non la vissi completamente perché i miei genitori erano molto severi. Erano contrari all’idea che io dormissi fuori. Quindi facevo un’occupazione part-time. E questo innescò nella mia coscienza parecchi sensi di colpa. Così scrissi questa canzone. Credo che sia l’ultimo esempio di canzone che si è tramandato di bocca in bocca, senza l’aiuto delle radio e dei mezzi di comunicazione.

L’episodio di via Veneto, che spesso si sente raccontare, è vero?

Non era in via Veneto, ma a piazza Istria. Vicino casa mia. Precisamente al bar Negresco, frequentato da generali in pensione e persone che non appartenevano certo al popolo. Insomma non dalla gente comune. In quei giorni, ogni volta che ci si affacciava al bar, si origliavano discorsi insopportabili nei confronti degli studenti che stavano occupando le università. Così scrissi”Contessa”.

Cosa la spinse a scrivere degli episodi di “Valle Giulia”?

La storia di Valle Giulia è molto semplice. Partecipai alla manifestazione e assistetti agli scontri. E appena tornato a casa cominciai a scrivere questa canzone che vide la sua versione definitiva dopo quattro cinque giorni.

Sia in “Valle Giulia” che in “Contessa” ‘appare’ sempre la voce di Giovanna Marini. Come mai?

Perché ai tempi non ero iscritto alla SIAE. Ecco perché fu coinvolta Giovanna, anche se poi divenne parte fondamentale di quella canzone con il suo riff di chitarra.

E dell’esperienza con il Nuovo Canzoniere Italiano che cosa ricorda?

Avevamo un modo di procedere straordinario. Da una parte c’eravamo noi che eravamo il cosiddetto braccio armato, andavamo a cantare e racimolavamo qualche soldo che poi davamo all’Istituto Ernesto de Martino per continuare questo lavoro di ricerca. Noi eravamo degli intellettuali che andavano in giro a cantare e non cantanti in cerca di un posto di lavoro. Le nostre riunioni milanesi ci facevano sentire parte di un gruppo. E poi, in un periodo in cui c’era una tendenza alla divisione della sinistra, noi tentavamo di tenere insieme tutta la sinistra, dai socialisti agli autonomi.

Torniamo alle sue canzoni. Come la prese la sua famiglia sapendo che lei era uno dei punti di riferimento musicali della protesta?

Inizialmente non capirono. Un giorno origliai un discorso tra mio padre e mia madre. Dicevano che io non avevo né arte né parte e che avrebbero dovuto camparmi loro per tutta la vita. Però li sentii dire, riferendosi a “Rossini”: “però quella canzone è piena di talento”. Questo è un ricordo bellissimo.

In quegli anni stavano uscendo fuori Fabrizio De Andrè e Francesco Guccini. Il primo si dichiarò anarchico, l’altro invece era molto più schierato. Come vedevate voi cantautori il loro ingresso nell’ambiente musicale?

Era un altro percorso, assolutamente legittimo. Li giudicavamo dalla simpatia e l’antipatia. Loro facevano un mestiere, quello di scrivere canzoni e testi. E cercavano di far fruttare la propria arte. Nessuno di noi, invece, aveva intenzione di fare il cantante, né credeva di esserne in grado.

Poco tempo fa è venuto a mancare Ivan Della Mea. Che ricordo ha di lui?

È come se fosse scomparso un pezzo di me, nonostante vivessimo in città diverse e avessimo spesso punti di vista contrastanti su molti argomenti. Una settimana prima che morisse ci eravamo fatti una cantata insieme a Montevarchi, a testimonianza che c’era un grandissimo legame tra di noi. Ivan era così, pieno di chiusure, ombroso, poi però era capace di grandissimi slanci. È stato un talentuoso poeta dialettale. Le cose che ha scritto sono le migliori della letteratura italiana, non solo della canzone.

Nonostante siano trascorsi molti anni, come spiega che ancora oggi una canzone come “Contessa” venga ricordata e cantata da molti giovani?

Perché non ne hanno fatte altre.

Giovanna Marini, una vita per il canto sociale – L’intervista

Giovanna Marini

6 ottobre 2009. Ore 16.45. Per le strade di Roma sembra primavera. Ho un appuntamento al bar di Testaccio con una delle musiciste più rappresentative del Nuovo Canzoniere Italiano e della musica popolare in generale: Giovanna Marini. Arrivo con dieci minuti di anticipo. Non voglio farla attendere. Anche lei arriva in anticipo. Così alle 17 siamo già seduti al tavolino del bar. Giovanna è conosciutissima dai clienti del bar, perché insegna alla scuola di musica popolare di Testaccio, che si trova proprio lì a pochi passi. Ogni persona che entra la saluta con affetto. Dopo aver ordinato il suo solito tè, cominciamo la nostra chiacchierata. Ma iniziamo dalla fine. Da Ivan Della Mea, un compagno, un amico scomparso da pochi mesi. Ne parla con rimpianto. “Eravamo tutti molto preoccupati per lui. L’avevo visto pochi giorni prima a Bergamo. Era amareggiato e stanco. La malattia l’aveva logorato”, mi dice, “i suoi erano problemi di salute anche gravi ma, se li avesse tenuti sotto controllo, poteva conviverci tranquillamente. E invece lui si è lasciato andare”. La sua voce è un misto di rabbia e commozione. Chiudo subito l’argomento perché vedo che Giovanna è commossa e mentre sorseggia il tè dice: “Dopo la morte di Ivan sono rimasta sola”.  Comincio così a farle un po’ di domande sulla storia del Nuovo Canzoniere Italiano.

Come e quando è iniziata la tua avventura con il Nuovo Canzoniere Italiano?

È iniziata nel 1963. Con un incontro avuto con Roberto Leydi, che era venuto a Roma a sentirmi al Folkstudio. A quel tempo suonavo musica classica con la chitarra e ogni tanto mi azzardavo a cantare le ballate francesi e inglesi. Io ho trascorso gran parte dell’infanzia in Inghilterra, quindi ero molto influenzata da quel tipo di cultura musicale. In più avevo mia nonna che era francese. Quando venne Roberto ad ascoltarmi, cantai delle canzoni antiche dell’alta Savoia. Leydi rimase molto colpito e mi chiese di andare a Milano a registrarle. Da quel momento è iniziata la mia esperienza con il Nuovo Canzoniere Italiano. Ma io non sapevo nemmeno cosa fosse il canto popolare. Leydi mi aprì la porta su un mondo nuovo. Grazie a lui venni a contatto con Gianni Bosio e Ivan Della Mea, persone fondamentali per la mia crescita artistica.

Erano i primi anni Sessanta. Che clima c’era per le strade?

Ricordo poco del clima italiano dei primi anni Sessanta. Ero appena tornata dall’America. Mi ricordo che lì era appena morto Kennedy, cominciavano le prime contestazioni contro la guerra in Vietnam. Era un’America vivissima, interessante. Con le lotte razziali nel Sud. Tornando in Italia ho trovato un clima vivacissimo, in cui sembrava ci fosse spazio per un messaggio, per dire delle cose. A noi ci chiamò un funzionario del PCI di Torino, che ci voleva mettere a disposizione un camion per andare a cantare le canzoni del nostro repertorio davanti alle fabbriche. Oggi, una cosa del genere non potrebbe mai accadere.

Tu hai frequentato intellettuali del calibro di Pasolini. Ma più determinante di tutti gli altri è stato l’incontro con Peppino Marotto.

Sì. Peppino era un poeta. Io e Franco Coggiola lo andavamo a trovare spesso. L’ultima volta ho visto anche lui molto stanco, perché andare controcorrente logora. Nel suo paese erano cresciuti problemi legati all’abusivismo, all’invasione del cemento. Peppino lavorava alla Camera del Lavoro di Orgosolo. Era una persona che voleva fare le cose per bene. Chissà contro chi si era messo. Alla fine l’hanno ucciso con cinque colpi di fucile, due anni fa circa, mentre acquistava il giornale. Peppino è stata una delle persone che mi ha fatto appassionare al canto popolare, insieme a Matteo Salvatore e alla mamma di Luigi Chiriatti.

Il tuo esordio con il Nuovo Canzoniere Italiano risale allo spettacolo “Bella Ciao”, tenutosi a Spoleto. Cosa ricordi di quella esibizione?

È stata una scoperta per me. In quella occasione ho conosciuto Caterina Bueno e ho capito dove ero capitata. Fino a quel momento erano dei simpatici amici. Con “Bella Ciao” ho compreso il tipo di impegno politico e il lavoro di ricerca che svolgevano. È stato molto importante quello spettacolo per comprendere a pieno la strada intrapresa dal Nuovo Canzoniere Italiano. La cosa che mi colpì di più fu il clamore del pubblico. Non avrei mai pensato che fosse così indignante ciò che cantavamo. Si incazzarono proprio. Io ero stupitissima, anche perché, essendo musicista, non facevo molto caso alle parole, mi sono sempre interessata di più alla musica, all’armonia, alla linea melodica. In quel caso io sentivo tutti che urlavano e non capivo perché. Michele Straniero fu contestato appena cantò la strofa di “O Gorizia tu sei maledetta”, che diceva ‘traditori signori ufficiali’. Capirai, là era un mondo di ufficiali, della gente dell’alta borghesia che non concepiva gli si cantassero queste cose. Addirittura erano indignati pure per la presenza di Giovanna Daffini, perché era una contadina.

Poi c’è stato, alla fine del 1965, “Ci ragiono e canto”, diretto da Dario Fo.

A quello spettacolo parteciparono anche i pastori di Agius. Io mi affezionai molto a quelle persone perché erano molto diverse da me. Pure con Pietrangeli ci conoscemmo nel 1965. Lui arrivò con un codazzo di amici. Frequentava ancora il terzo liceo.

In un’occasione tu decidesti di non salire sul palco e venisti sostituita. Come mai?

Ah, sì. A Spoleto qualche anno dopo. Io dovevo fare la voce per uno spettacolo di Berio, ma non me la sentivo proprio. Da una parte la paura di non essere all’altezza, all’epoca arrivavo con la voce al si bemolle, dall’altra avevo i bambini e per di più insegnavo. Così gli scrissi una lettera per spiegargli il motivo della mia rinuncia, mettendo avanti una scusa ideologica dicendo che non sarei voluta tornare a Spoleto, dove qualche anno prima ci avevano contestato, nelle vesti di gregaria. Ma la motivazione reale era molto più semplice e pratica.

Come vedevate i nuovi cantautori che stavano uscendo in quegli anni?

Io ho conosciuto De Andrè, Guccini, De Gregori e Venditti. Con De Gregori c’è stata immediatamente una grande simpatia e lo mandai da Caterina Bueno a suonare la chitarra con il suo gruppo perché lui voleva uscire di casa e gli servivano i soldi. Lui scriveva canzoni e cercava da noi il lancio. Io gli dissi subito che il Nuovo Canzoniere non poteva permetterselo e che noi avevamo avuto la fortuna di ritrovarci sui giornali per il casino che era scoppiato a Spoleto, così eravamo riuscita a ottenere un po’ di pubblicità. Poi lui, in tempo di contestazione, si presentava con “Buonanotte fiorellino” perché Francesco è stato sempre bastian contrario. E lo è tutt’ora. Gli secca terribilmente essere all’unisono con gli altri. È il suo carattere. È una persona molto seria e onesta a cui voglio molto bene. Guccini l’ho conosciuto durante un Festival. Una persona molto colta, simpatica. Mentre De Andrè lo conobbi a Milano nello studio di Nanni Ricordi. Ero andata da Nanni per fargli ascoltare le mie canzoni. Lui mi disse che erano troppo colte, troppe distinte dal resto. E mi disse: “Giovanna, adesso ti faccio sentire uno che fa canzoni buone”. Era un giovane timidissimo, con la sua chitarra e i capelli che gli coprivano gli occhi. Era Fabrizio De Andrè. Ascoltai “Via del campo” e dissi a Nanni: “il testo è bellissimo, ma per la musica potrebbe fare di più ‘sto ragazzo’”. (Ride)

Come mai non avete mai ceduto alle lusinghe del mercato?

Devo dire la verità. Ai tempi mi chiamò la RCA per farmi un contratto, ma io rifiutai perché avevo paura di perdere i miei amici, che erano tutti puri e duri. Mi sentivo giudicabile. Soprattutto da Ivan (Della Mea). Quindi preferii restare con le Edizioni del Gallo. Non guadagnavo una lira con loro, però mi piaceva di più la situazione. Io sono contenta così. Non è una coerenza di tipo puro, ideologica, è legata ad alcune coincidenze.

Perché finì l’esperienza del Nuovo Canzoniere Italiano?

L’esperienza del Nuovo Canzoniere è andata scemando. Si è diluita. La morte di Gianni Bosio e di Giovanni Pirelli credo che siano state determinanti. Il primo aveva le idee, mentre il secondo investiva il denaro in questa avventura. La loro scomparsa ha accelerato molto la fine di questa esperienza. Adesso siamo rimasti io, Paolo, Bertelli e Portelli. La morte di Ivan è stata un duro colpo.

Insieme a Paolo Pietrangeli, tu sei l’unica che ha continuato a fare musica. Quanto è cambiato da allora l’approccio verso la musica popolare?

Moltissimo. I DAMS hanno permesso la formazione di giovani musicologi, i quali hanno portato il canto popolare nell’accademia. Svolgono ricerche, studi, non perdono di vista i cantori. Loro sono diventati dei professionisti nel campo. Noi basavamo le nostre ricerche più sui rapporti di amicizia che su basi professionali concrete.

Joe Amoruso: «Resta il rammarico di non aver realizzato altri inediti insieme»

Intervistai per l’ultima volta Joe Amoruso nell’estate 2015. Stavo finendo di scrivere il libro “Pino Daniele. Una storia di blues, libertà e sentimento” e mi sembrò indispensabile raccogliere la sua versione dei fatti, il suo racconto sul Naples Power (o Neapolitan Power) e sulla sintonia che si creò con Pino Daniele. Voglio riproporre qui quell’intervista che mi riempì il cuore e l’anima. Con un po’ di magone e tanta tenerezza…Ciao Joe!

È stato uno dei protagonisti del Naples Power, nonché membro del Supergruppo. Ma dopo ha collaborato anche con Vasco Rossi, partecipando al disco Cosa succede in città, e poi con Zucchero e Andrea Bocelli. Sto parlando di Giuseppe Amoruso, detto Joe, classe 1960, un ragazzino prodigio del pianoforte: a quindici anni infatti frequentava il conservatorio, ma già seguiva il programma dell’ottavo anno mentre tutti gli altri erano fermi su quello del quinto. Furono i militari delle basi Nato, che negli anni Settanta suonavano nei club in zona Porto, a ribattezzarlo Joe durante una jam session. «A Napoli negli anni Settanta avevamo questi locali frequentati da musicisti americani, e tu dovevi suonare tassativamente come loro, altrimenti ti buttavano fuori» mi ha raccontato Joe. «Organizzavano jam session e noi con la bocca aperta a impadronirci del loro modo di suonare». Dopo aver collaborato con Danilo Rustici degli Osanna, nel 1979 fu reclutato da Peppino Di Capri per la registrazione del disco Con in testa strane idee, che uscì poi l’anno successivo. Grazie a quella collaborazione venne chiamato a Milano dalla Polygram, che lo fece partecipare al programma televisivo condotto da Walter Chiari, Una valigia tutta blu, in onda su Rai Uno nell’estate del 1979. L’apparizione in tv ebbe il merito di diffondere velocemente il nome di Joe nell’ambiente musicale: lavorò così con Alberto Fortis per il disco Tra demonio e santità e, appena ventenne, entrò in contatto con Mauro Pagani e la PFM, gli Area e altre realtà che gravitavano nell’ambiente milanese.

E poi arrivò Pino?

Io ero a Milano a lavorare come session man e il mio nome cominciava a girare, ero considerato un enfant prodige. Con lui non ci eravamo mai incrociati, nonostante io, prima di partire per il capoluogo lombardo, avessi frequentato l’ambiente napoletano. Conoscevo James Senese e tutti gli altri, avevo vissuto la Napoli musicale degli anni Settanta e non perdevo occasione di suonare, ma Pino non avevo avuto mai modo di incontrarlo. All’inizio pensavo addirittura che fosse un neo-melodico, poi quando ascoltai il suo secondo disco, Pino Daniele, capii che era tutt’altra cosa e cominciò a crescere un’ammirazione da lontano. E intanto anche a lui avevano parlato del giovane tastierista Joe Amoruso. In realtà siamo nati insieme artisticamente io e Pino, solo che ci osservavamo a distanza.

Finché non ci fu l’incontro.

Nel 1979 fu lui a contattarmi. Io ero sceso a Napoli per fare un po’ di vacanza. Fu Agostino Marangolo a presentarmelo. Sapevo che ci saremmo incontrati, c’era già un’affinità a distanza tra di noi, una predestinazione artistica, ci siamo cercati come due fidanzati. A quel punto non tornai più a Milano. Mi invitò ad andare a Formia da lui, aveva appena fatto Nero a metà, ma stava rimettendo mano alla band per le ultime date live. Lo trovai da solo, seduto su di una sediolina al centro di una saletta che aveva fatto insonorizzare con la tela di sacco. Dopo le presentazioni di rito mi misi al piano senza però suonarlo. Continuavamo a parlare e si vedeva che lui era smanioso di sentirmi battere le dita sui tasti, ma non aveva il coraggio di dirmelo. A un certo punto mi chiese di provare il piano, io attaccai una cosa molto forte, perché avevo già capito cosa cercava lui. Fu subito entusiasta e iniziammo a far volare la musica, al punto che chiamò due suoi collaboratori che erano usciti fuori e li invitò ad ascoltare: «Venite cca, venite a sentì, chesta è la musica, parimmo n’orchestra». È cominciato tutto così.

Fu lì che cominciaste a lavorare su Vai mò?

Non proprio, prima mi chiese di imparare in due giorni le canzoni della scaletta del concerto di Nero a metà. Per questo mi diede il soprannome di Nembo Kid. Poi, dopo il tour, cominciammo a lavorare sui pezzi di Vai mò, sempre a Formia, pianoforte e chitarra. Mangiavo e dormivo a casa sua, con lui e la sua famiglia. Io e Pino eravamo diventati praticamente fratelli. Lavoravamo in due sulle strutture dei pezzi e in seguito coinvolgevamo gli altri. Poi infatti si aggiunse Rino Zurzolo e dopo arrivò Tullio De Piscopo alla batteria. James Senese e Tony Esposito completarono la formazione. Ancora conservo le prime registrazioni di quei giorni in quartetto e ogni tanto le faccio ascoltare agli amici.

Il Supergruppo era fatto.

Praticamente sì, l’album ebbe un successo strepitoso e il tour lo stesso. Abbiamo sdoganato un nuovo modo di suonare il pop, effettuando una ricerca musicale che poi hanno seguito in tanti. Tra di noi c’era sintonia perché avevamo radici comuni, tutti venivamo dall’esperienza nei locali americani a Napoli, ecco perché i giornalisti lo definirono Naples Power o Neapolitan Power. Tra noi c’era una sintonia perfetta.

Poi però già con Bella ‘mbriana qualcosa cominciò a scricchiolare tra di voi.

Per quel disco Pino decise di chiamare musicisti americani. Mi dispiacque molto per Rino Zurzolo che rimase fuori da quell’album. Registrammo io, Pino e Tullio: suonammo con mostri del calibro di Wayne Shorter e Alphonso Johnson, abbiamo anche vissuto insieme, scoprendo l’umiltà di questi grandi musicisti. Quell’anno fu importante perché la musica di Pino fece un salto di qualità internazionale.

So che anche per Musicante tu e Pino lavoraste a stretto contatto.

Certo. Ma prima ci lanciammo in un’altra esperienza di prestigio: io arrangiai alcuni brani di Common Ground, disco di Richie Havens prodotto da Pino, il quale suonò e scrisse anche alcuni pezzi. Fu il mio battesimo da arrangiatore, un esame importante per la mia crescita artistica. Poi lavorammo su Musicante: fu un capolavoro, facemmo una full immersion e riuscimmo a raggiungere il momento più alto a livello spirituale. Credo che sia un disco raffinato, innovativo, filtrato dalla nostra cultura, con un intento quasi mistico. È un album da intenditori, che va digerito. In quegli anni ho messo a disposizione di quel progetto tutto il mio bagaglio culturale di ricercatore, sperimentatore, musicologo.

Quello, però, fu anche il momento in cui sfumò definitivamente il sogno di tenere uniti tutti i grandi talenti della musica napoletana.

Chiudemmo prima il cerchio con Sciò, una testimonianza live di anni intensi e prolifici. Nel frattempo ognuno stava pensando alla realizzazione di progetti personali: io cominciai a lavorare con Tony Esposito e scrivemmo Kalimba de luna, che arrivò lontano e gli diede tanto successo, facendoci diventare anche abbastanza ricchi in quel momento. Tullio De Piscopo era lanciato anche lui nella carriera da solista. Io dovevo seguire Tony che mi reclamava. Anche James era proiettato su altri progetti. Insomma, ognuno stava lavorando per la realizzazione personale, e giustamente anche Pino doveva andare avanti, quindi decise di coinvolgere altri musicisti, grandi nomi internazionali.

Per anni siete stati senza sentirvi?

All’inizio ci cercavamo per un saluto e per sapere l’altro cosa stesse facendo. Poi negli anni Novanta ci perdemmo proprio di vista.

Fino al ritorno di fiamma del 2008 con Ricomincio da 30. Come accadde?

Pino voleva festeggiare i trent’anni di carriera, così pensò di rimettere insieme il Supergruppo. So solo che aspettavo la sua telefonata da tempo. Sapevo che ci saremmo ritrovati prima o poi. Finalmente la chiamata arrivò alla fine del 2007. E purtroppo di quella reunion resta il rammarico di non aver fatto di più. Ancora c’erano grandi potenzialità che non sono state espresse fino in fondo. Per l’occasione rifacemmo alcuni pezzi con arrangiamenti minimali, che a me piacquero moltissimo, ma avremmo potuto tirare fuori anche qualche inedito. Pino inizialmente era d’accordo, poi però, al termine di una serie di concerti, si tirò indietro. Non mi spiegò mai le motivazioni che lo spinsero a rinunciare. Eppure sentivo che il potenziale era ancora immenso. Resta l’amarezza di sapere che ora non possiamo più.

Rino Zurzolo: «La ricerca era continua, Pino voleva fare sempre un passo in avanti»

Oggi voglio ricordare un artista immenso come Rino Zurzolo, scomparso il 30 aprile 2017, riproponendo l’intervista che gli feci nel giugno del 2015 per il mio libro Pino Daniele. Una storia di blues, libertà e sentimento (Ottobre 2015). Ci sentimmo telefonicamente in una torrida mattinata di inizio estate, dopo esserci scambiati un paio di messaggi d’intesa. Grande musicista e persona molto garbata, insieme parlammo di come la sua storia musicale si intrecciò con quella dell’amico Pino Daniele. Della loro esigenza di compiere sempre un passo in avanti. Buona lettura!

La storia musicale del bassista e contrabbassista Rino Zurzolo affonda radici nella Napoli degli anni Settanta, dove incontrò altri ragazzi con la medesima passione per il blues, il jazz, lo swing: Rosario Jermano, Paolo Raffone, Enzo Avitabile e Pino Daniele. Ecco perché Pino, avviata la sua carriera da solista, nel 1977 lo volle per le registrazioni dell’album Terra mia. Questa collaborazione proseguì poi con il disco Pino Daniele e conobbe il momento più bello, fecondo, intenso nel 1981 con la pubblicazione di Vai mò e la nascita del Supergruppo. Nel frattempo Zurzolo si diplomò a pieni voti in contrabbasso al conservatorio San Pietro a Majella, portando avanti progetti musicali jazz. Nel 1984 infatti, oltre a suonare in Musicante, fondò il gruppo Rino Zurzolo Jazz da camera, sperimentando nuove sonorità e inedite soluzioni musicali. L’ultimo album che registrò con Pino negli anni Ottanta fu Ferryboat, poi la loro collaborazione si interruppe per parecchio tempo. Finché nel 2001 si ritrovarono per Medina e il successivo tour da cui fu ricavato il disco Concerto. Da quel momento il loro sodalizio riprese a pieno ritmo: dal tour che Pino fece con Francesco De Gregori, Ron e Fiorella Mannoia fino alla reunion di Nero a metà, passando per Ricomincio da 30, il tour di Passi d’Autore e i concerti internazionali. Oggi Zurzolo continua l’attività live, alternandola con l’insegnamento del contrabbasso al Conservatorio Nicola Sala di Benevento. Ma tanti erano i progetti che aveva ancora intenzione di realizzare con Pino.

Rino, galeotti furono Napoli e l’amore comune per la musica.

Sì, avevamo formato i Batracomiomachia agli inizi degli anni Settanta, io frequentavo il conservatorio e Pino stava all’istituto di ragioneria al centro di Napoli. Ci incontravamo il pomeriggio e si andava a provare. Io avevo tredici anni e Pino sedici. Avevamo una grande passione per la musica, quindi ci riunivamo anche senza idee ben precise, improvvisavamo, creavamo pezzi nuovi, registravamo. C’era la voglia di confrontarci. Io lo dico sempre ai miei allievi del Conservatorio: per fare il musicista ci vuole una forte passione che deve supportare tutto il resto. In quegli anni nacque anche un nostro linguaggio, basato su di un dialogo continuo che non è mai terminato. Anche quando io e Pino non collaboravamo, in settimana ci sentivamo sempre per un confronto. Avevamo il medesimo approccio alla musica, sintonia umana e artistica: entrambi amavamo tornare sempre al punto di partenza, rimettendo in gioco tutto. L’ultima volta ci eravamo sentiti i primi di gennaio perché ci volevamo dedicare a un progetto sul linguaggio musicale spagnoleggiante, tenendo presente i capiscuola di quel genere. Avevamo sempre bisogno di nuovi stimoli per accendere la luce e arrivare alle persone.

Su cosa si basava negli ultimi anni la ricerca musicale di Pino?

Avevamo questa comune esigenza di eliminare il superfluo, in termini musicali. Volevamo arrivare all’essenza, togliendo invece di aggiungere: attraverso una nota desideravamo comunicare come se avessimo suonato una melodia. Ci stavamo riuscendo, il nostro linguaggio musicale era infatti sempre più minimale. Pino poi aveva un magnetismo incredibile, bastava che aprisse bocca per accendere un mondo.

Il Supergruppo

Questa vostra sintonia vi permise di esplodere a suo tempo con il Supergruppo. Cosa ti è rimasto di quel periodo?

Fu una bella verifica. Raccogliemmo quanto avevamo seminato in quegli anni. Nel concerto finale a Napoli riuscimmo a radunare fan da tutte le città d’Italia. Nessuno se lo aspettava, infatti l’impianto non era all’altezza di uno spettacolo che aveva assunto proporzioni incredibili. Nei dischi e dal vivo ognuno doveva lasciare la propria impronta: con Pino c’era poi una sinergia spirituale. Anche dopo, quando nei dischi successivi abbiamo suonato con musicisti americani, Steve Gadd, Gato Barbieri, Wayne Shorter, tra noi si instaurava un rapporto prima spirituale e poi professionale. Pensa che, anche se questi musicisti non capivano le parole in dialetto, riuscivano a captare la forza etnica e della tradizione che era contenuta nel suo linguaggio musicale.

Quali furono le armi vincenti del Supergruppo?

Riuscimmo a unire diversi linguaggi. Ognuno aveva il proprio suono: mettendoli insieme ottenemmo un risultato ottimo, come gli ingredienti che formano un piatto gustoso. Se ne toglievi uno, perdevi la forza che avevamo in quel momento. Io lo consideravo un cerchio magnetico. Salivamo sul palco e senza parlarci ci capivamo. E alla gente, solo a vederci assieme, arrivava la nostra energia. Fu bellissimo.

Pino e Rino live

Dopo un lungo periodo di lontananza artistica, all’inizio del nuovo secolo vi siete ritrovati con l’album Medina.

Sì, io in quel periodo avevo fatto alcuni album etnici e spesso ci confrontavamo. Anche lui aveva intenzione di guardare verso il nord Africa. Così siamo andati addirittura in Marocco. È nato quindi un album molto interessante. Pino metteva sempre tutto in discussione, al momento in cui arrivava a un linguaggio compiuto, ripartiva da zero su di un altro binario. Non voleva suonarsi addosso. La ricerca era continua, voleva fare sempre un passo in avanti. Anche quando riprendemmo nell’ultimo periodo i pezzi storici, è stato bellissimo perché abbiamo riarrangiato ciò che avevamo suonato più di trent’anni fa, trovando sempre una nuova veste per proporli.

Secondo te, com’è cambiato l’approccio alla musica degli artisti di oggi rispetto ai vostri esordi?

Oggi la musica è più improntata al successo immediato, invece la nostra si basava sulla ricerca, avevamo il desiderio di proiettarci sempre in avanti. Con la scomparsa di Pino viene a mancare l’equilibrio e la potenza che lui rappresentava in questo lavoro di ricerca. Noi andavamo ad ascoltare Gesualdo da Venosa, Pergolesi, i baluardi della Napoli musicale del Seicento. Purtroppo ai napoletani manca la tutela del loro patrimonio artistico, spesso infatti si viene distratti da ciò che arriva da fuori e si finisce per non valorizzare la propria tradizione.