Oggi voglio raccontare la storia di un cantautore italiano che ha scritto canzoni di una bellezza disarmante. Un artista raffinato e preparato, che però, per motivi che esulavano dalla sua arte, fu vittima di un progressivo ostracismo che si protrasse fino al termine della sua esistenza. Sto parlando di Umberto Bindi, autore e interprete di canzoni come Arrivederci, Il nostro concerto, scritte insieme al paroliere Giorgio Calabrese. Originario di Bogliasco, dove nacque nel 1932, Bindi crebbe musicalmente nella Genova degli anni Quaranta e Cinquanta. “[…]Avevo uno zio che studiava da tenore e un nonno che suonava pianoforte, spesso Chopin e le trascrizioni delle opere liriche come La cavalleria rusticana o II Rigoletto” raccontò il cantautore a Claudio Scarpa in un’intervista rilasciata nel 1995. “Cominciai così ad appassionarmi a un certo tipo di musica, che poi ho amato per tutta la vita. Mi accompagnarono ad ascoltare la Madama Butterfly al Teatro Paganini di Genova[…]; ti dirò che, sarà stato il soggetto, cioè la madre; io avevo solo la mia mamma che adoravo; vedere il sacrificio di questa donna che esegue il ‘Harakiri’ mi coinvolse ancora di più; alla fine dell’atto non ti dico i pianti. Così iniziai ad ascoltare musica e a studiarla al conservatorio”. Ben presto cominciò a muovere i primi passi nel mondo della musica leggera, diventando uno degli esponenti di spicco della cosiddetta ‘scuola genovese’ insieme a cantautori come Gino Paoli, Bruno Lauzi, Fabrizio De André, Luigi Tenco.
Fu a cavallo tra gli anni Cinquanta e i Sessanta che, con le proprie canzoni, Bindi conquistò il pubblico e la critica. Il suo primo successo arrivò nel 1959 con Arrivederci, incisa anche da Marino Barreto Jr. e dal trombettista Chet Baker, seguito dopo circa due anni dal suo capolavoro, Il nostro concerto. “Mi trovavo a Faenza in un teatro bellissimo del ‘700 e non c’era nessuno” raccontò ancora a Claudio Scarpa sulla genesi di questa canzone. “Ti dirò: l’odore del ‘vecchio’, inteso come antiquariato, questi tendoni un po’ sbiaditi, sentii una sensazione quasi mistica; dovevo fare delle prove per ‘La sei giorni della canzone’ e per l’occasione presentare una canzone nuova, abbastanza importante dopo i successi di Arrivederci e E’ vero. Erano le quattro del pomeriggio e non c’era nessuno, mi sono seduto al pianoforte e la canzone mi venne diretta, in maniera del tutto spontanea. Non appena vidi Calabrese gli dissi dell’idea di queste due persone che s’erano conosciute a un concerto, del loro ritrovarsi. Nacque così Il nostro concerto, tutto qui”. L’ascesa di Bindi proseguì inesorabile con la partecipazione Festival di Sanremo del 1961 con Non mi dire chi sei e la pubblicazione de Il mio mondo, brano che conobbe il successo internazionale grazie alla versione inglese della cantante Cilla Black, pupilla dei Beatles, che la portò al primo posto in classifica nel Regno Unito, mantenendo il primato per quattordici settimane. Nello stesso periodo decise di inciderla anche il cantautore francese Richard Anthony, che la lanciò in vetta alle classifiche in Francia e in Belgio. Il mio mondo sarà ripreso anche da altri artisti nel corso degli anni Settanta, ma ciò non basterà a impedire il lento e progressivo isolamento di Bindi dalle scene che contano, dai palchi importanti.
Questa discesa negli inferi cominciò proprio nei primi anni Sessanta con l’arrivo del successo. Bindi non dichiarò apertamente di essere omosessuale, ma non si sforzò nemmeno troppo di nasconderlo. “Preferisco essere impopolare, però essere sincero. Devo dirti che sono intervenuti dei fatti privati che in sostanza hanno disturbato alla grande o addirittura hanno distrutto il personaggio che si era creato” raccontò ancora a Claudio Scarpa nel 1995 a proposito dell’ostracismo che ci fu nei suoi confronti negli anni Sessanta. “Non ero il solo a non essere ‘immacolato’, però non andavo con la prassi ‘normale’, anche se ho cercato sempre di nasconderlo, con il dubbio che mi assillava perenne: si deve fare o non lo si deve far vedere. Non ho mai capito se la sincerità poteva vincere. […]Ho sofferto moltissimo e mi sono ‘chiuso’. Allora succedeva di passare per antipatico o come poco socievole. Il mio dramma era ‘uscire’ dalle quinte per andare in palcoscenico e sentire il solito che si lasciava andare a frasi poco garbate o addirittura pesantemente offensive”. Questa situazione lo portò a non pubblicare dischi per circa dieci anni, dedicandosi quasi totalmente alla carriera di autore. Nel 1967 firmò La musica è finita, brano scritto insieme a Franco Califano e a Nisa, portato al successo da Ornella Vanoni. E poi pezzi per altri interpreti italiani, ma di lui cominciarono a perdersi le tracce. Basti pensare che nei due decenni che seguirono pubblicò appena quattro album. A ripescarlo dall’anonimato in cui era piombato fu Renato Zero a metà degli anni Novanta. Il cantautore romano ascoltò i brani che Bindi aveva nel cassetto e lo convinse a pubblicare un nuovo disco. Uscì così nel 1996 l’album Di coraggio non si muore, che fu introdotto al grande pubblico dal brano Letti, presentato da Umberto Bindi al Festival di Sanremo insieme ai New Trolls. L’ultimo e isolato acuto di una carriera sfortunata.
Bindi ripiombò nel silenzio e nella solitudine. Finché un giorno cominciarono ad affacciarsi anche gravi problemi di salute che andarono ad aggiungersi alle difficoltà economiche che si erano affacciate nella sua vita negli ultimi anni. Alcuni colleghi avevano diramato un appello affinché al cantautore fossero riconosciuti i benefici della legge Bacchelli, che prevedeva un sussidio per gli artisti in difficoltà. Gli furono concessi l’11 aprile 2002. In quell’occasione il cantautore rilasciò una dichiarazione in cui manifestava la sua gratitudine per la grande solidarietà da parte di molte persone, ma anche l’amarezza per non essere stato mai pienamente capito. “Non me l’aspettavo” aveva dichiarato Bindi dopo il riconoscimento della Bacchelli, come riportato dall’Adnkronos. “Sono tanto contento e lusingato specialmente per la dimostrazione di affetto delle tante persone che mi sono state vicine. Mi spiace solo di essere stato di peso e un po’ mi spiace anche perché avrei voluto che in questi anni mi fossero stati tutti un po’ più vicini e avessero capito quel che stavo facendo, invece di aspettare questa circostanza per riaccendere i riflettori su di me. Avrei preferito non ci fosse stato bisogno di stare così male perché tutti si preoccupassero così tanto e tutti insieme. Ci sono stati altri momenti in cui credo di aver mandato dei messaggi e non sono stati accolti. Per vent’anni ho prodotto e provato a far ascoltare, facendo capire che ero vivo, e per venti anni mi è stato fatto capire che avevo già dato e che potevo essere soltanto l’antologia di me stesso”. Bindi non ebbe nemmeno il tempo di usufruire di quel contributo. Il 23 maggio 2002 morì all’Ospedale Spallanzani di Roma, dopo quattro giorni di ricovero, per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute. Dopo quel giorno ricadde nuovamente su di lui il silenzio, rotto soltanto da qualche pianto isolato.