
Le nuove generazioni probabilmente non lo conoscono o non lo ricordano, ma chi si è avvicinato al tennis nei primi anni Novanta è impossibile che non abbia memoria di un outsider come Gianluca Pozzi. Mancino, atipico, schivo, Pozzi giocava un tennis non certo spettacolare, ma molto efficace sulle superfici veloci. Non lasciatevi ingannare dal fisico da impiegato, Gianluca era un giocatore d’attacco, resistente, dotato di colpi liftati difficili da contenere, tra cui un rovescio in back che diede fastidio ai giocatori più forti del mondo, ma anche di un servizio profondo e importanti numeri sotto rete, che gli permettevano di costruirsi il punto pure contro i grandi ‘picchiatori’ del tennis che cominciavano a emergere negli anni Novanta.
Ma andiamo per gradi. Da dove arrivava Gianluca Pozzi? Pugliese, uno dei sette figli (sei maschi e una femmina) di Giuliana e Valentino, grazie al papà imprenditore ebbe la possibilità di crescere con il campo da tennis in giardino, uno stimolo e una preziosa opportunità che permise quasi a tutti i figli di avvicinarsi a questo sport. Il più coinvolto fu Gianluca che, senza alcun aiuto da parte della Federazione Italiana Tennis, la quale in alcuni momenti gli mise anche i bastoni tra le ruote, con tenacia e testardaggine riuscì a farsi strada nel mondo del tennis. Dopo il diploma e qualche esame di Economia e Commercio, Gianluca decise di abbandonare l’università e di provare la strada del professionismo, sapendo di poter contare solo sulle proprie forze. Nemmeno l’innata timidezza riuscì a fermare la sua voglia di emergere, così preparò lo zaino e nel 1984, a 19 anni, con le racchette sulla spalla si mise in viaggio alla ricerca di un spazio nel tennis mondiale. Cominciò a giocare tornei di qualificazione dall’altra parte del pianeta, competizioni dai miseri montepremi che a mala pena permettevano di coprire le spese di viaggio. Condusse una vita nomade, di abnegazione, che da sempre è tipica di tutti i tennisti che frequentano i tornei dei circuiti minori. Ma proprio grazie al suo spirito di sacrificio, dopo il primo anno di professionismo raggiunse la posizione numero 330 della classifica ATP. Sembrava che la strada fosse quella giusta e quindi continuò in quella direzione, ottenendo un’importante crescita a livello tecnico, che però negli anni successivi non si concretizzò in particolari successi. Nel 1988 infatti, dopo circa quattro anni di sacrifici, ricopriva ancora la posizione n. 165 del ranking mondiale.
Ma Pozzi non era il tipo da arrendersi. E anche se parlava poco, e a voce molto bassa, ebbe abbastanza grinta per andare avanti. Bisogna riconoscere che il tempo e il lavoro gli diedero ragione: nel 1991 arrivò la svolta della sua carriera con il primo importante risultato a livello ATP, la vittoria al torneo di Brisbane. Pozzi arrivava sul cemento australiano da n. 137 del mondo. Quella settimana di metà settembre affrontò tutti specialisti del veloce, superando i padroni di casa Stolle, Woodbridge e Stoltenberg, e gli americani Jim Grabb e Aaron Krickstein, quest’ultimo liquidato in finale in due set con il punteggio di 6-3, 7-6. Questa prestazione di livello lo fece balzare alla 104esima posizione del ranking. Aveva 26 anni e sembrava un po’ tardi per affacciarsi sulla soglia dei top 100, considerato che Boris Becker a 17 anni aveva vinto Wimbledon. E invece Gianluca continuò a non mollare una palla, migliorando negli anni gioco e risultati, concentrando i suoi sforzi su superfici veloci dove il suo tennis era più efficace. Nel 1994 raggiunse gli ottavi di finale agli US Open, partendo dalle qualificazioni e liquidando nell’ordine il connazionale Renzo Furlan, l’israeliano Amos Mansford e il tedesco Zoecke, per poi fermarsi davanti a un altro tedesco, Bernd Karbacher, che lo eliminò in quattro set.
Dopo essere stato ignorato per anni da Adriano Panatta, capitano della squadra di Coppa Davis dal 1984 al 1997, che sicuramente aveva ragione a puntare in vari momenti nei più quotati Canè, Camporese e Gaudenzi, nell’era Bertolucci fu chiamato a vestire la maglia azzurra in quattro occasioni. La prima nel 1998 in semifinale contro gli USA, quando ebbe la meglio su Justin Gimelstob a punteggio acquisito, e la seconda in occasione della successiva drammatica finale persa con la Svezia, quando perse in due set, sempre a punteggio acquisito, con Magnus Gustafsson. L’anno successivo venne convocato per la sfida di primo turno con la Svizzera, contro cui venne schierato nel match della prima giornata, riuscendo a tenere testa all’ex numero 9 del mondo, Marc Rosset, che vinse tre set al fotofinish con il punteggio di 7-6, 6-4, 7-6. La domenica, quando ormai la Svizzera aveva messo in cascina la vittoria, Pozzi superò in due set un giovanissimo ma già promettente Roger Federer.
Nel 2000 Pozzi dimostrò a tutti che l’età anagrafica spesso non conta se c’è la salute fisica e la freschezza mentale. Quell’anno infatti, a 35 anni suonati, raggiunse le semifinali sull’erba del Queen’s, due settimane dopo si spinse fino agli ottavi di finale a Wimbledon, dove venne fermato dal tennista dello Zimbabwe, Byron Black, e in agosto partecipò ai giochi olimpici di Sydney, da cui venne eliminato al secondo turno. Grazie a questi e ad altri risultati, nel gennaio del 2001 raggiunse la posizione numero 40 della classifica mondiale, che rimarrà il suo best ranking. Solo nel 2004, all’età di 39 anni di cui 20 trascorsi a giocare a tennis da professionista, Pozzi decise di lasciare l’attività agonistica.

Come tanti ex giocatori che amano il tennis e non possono fare a meno di stare in campo, pena un’immensa sofferenza, da qualche anno Pozzi si dedica all’insegnamento. Dal 2014 fa parte dello staff dell’Accademia Tennis Bari, dove mette a disposizione dei tennisti in erba la sua storia e la sua esperienza, patrimonio del tennis italiano.