Rino Zurzolo: «La ricerca era continua, Pino voleva fare sempre un passo in avanti»

Oggi voglio ricordare un artista immenso come Rino Zurzolo, scomparso il 30 aprile 2017, riproponendo l’intervista che gli feci nel giugno del 2015 per il mio libro Pino Daniele. Una storia di blues, libertà e sentimento (Ottobre 2015). Ci sentimmo telefonicamente in una torrida mattinata di inizio estate, dopo esserci scambiati un paio di messaggi d’intesa. Grande musicista e persona molto garbata, insieme parlammo di come la sua storia musicale si intrecciò con quella dell’amico Pino Daniele. Della loro esigenza di compiere sempre un passo in avanti. Buona lettura!

La storia musicale del bassista e contrabbassista Rino Zurzolo affonda radici nella Napoli degli anni Settanta, dove incontrò altri ragazzi con la medesima passione per il blues, il jazz, lo swing: Rosario Jermano, Paolo Raffone, Enzo Avitabile e Pino Daniele. Ecco perché Pino, avviata la sua carriera da solista, nel 1977 lo volle per le registrazioni dell’album Terra mia. Questa collaborazione proseguì poi con il disco Pino Daniele e conobbe il momento più bello, fecondo, intenso nel 1981 con la pubblicazione di Vai mò e la nascita del Supergruppo. Nel frattempo Zurzolo si diplomò a pieni voti in contrabbasso al conservatorio San Pietro a Majella, portando avanti progetti musicali jazz. Nel 1984 infatti, oltre a suonare in Musicante, fondò il gruppo Rino Zurzolo Jazz da camera, sperimentando nuove sonorità e inedite soluzioni musicali. L’ultimo album che registrò con Pino negli anni Ottanta fu Ferryboat, poi la loro collaborazione si interruppe per parecchio tempo. Finché nel 2001 si ritrovarono per Medina e il successivo tour da cui fu ricavato il disco Concerto. Da quel momento il loro sodalizio riprese a pieno ritmo: dal tour che Pino fece con Francesco De Gregori, Ron e Fiorella Mannoia fino alla reunion di Nero a metà, passando per Ricomincio da 30, il tour di Passi d’Autore e i concerti internazionali. Oggi Zurzolo continua l’attività live, alternandola con l’insegnamento del contrabbasso al Conservatorio Nicola Sala di Benevento. Ma tanti erano i progetti che aveva ancora intenzione di realizzare con Pino.

Rino, galeotti furono Napoli e l’amore comune per la musica.

Sì, avevamo formato i Batracomiomachia agli inizi degli anni Settanta, io frequentavo il conservatorio e Pino stava all’istituto di ragioneria al centro di Napoli. Ci incontravamo il pomeriggio e si andava a provare. Io avevo tredici anni e Pino sedici. Avevamo una grande passione per la musica, quindi ci riunivamo anche senza idee ben precise, improvvisavamo, creavamo pezzi nuovi, registravamo. C’era la voglia di confrontarci. Io lo dico sempre ai miei allievi del Conservatorio: per fare il musicista ci vuole una forte passione che deve supportare tutto il resto. In quegli anni nacque anche un nostro linguaggio, basato su di un dialogo continuo che non è mai terminato. Anche quando io e Pino non collaboravamo, in settimana ci sentivamo sempre per un confronto. Avevamo il medesimo approccio alla musica, sintonia umana e artistica: entrambi amavamo tornare sempre al punto di partenza, rimettendo in gioco tutto. L’ultima volta ci eravamo sentiti i primi di gennaio perché ci volevamo dedicare a un progetto sul linguaggio musicale spagnoleggiante, tenendo presente i capiscuola di quel genere. Avevamo sempre bisogno di nuovi stimoli per accendere la luce e arrivare alle persone.

Su cosa si basava negli ultimi anni la ricerca musicale di Pino?

Avevamo questa comune esigenza di eliminare il superfluo, in termini musicali. Volevamo arrivare all’essenza, togliendo invece di aggiungere: attraverso una nota desideravamo comunicare come se avessimo suonato una melodia. Ci stavamo riuscendo, il nostro linguaggio musicale era infatti sempre più minimale. Pino poi aveva un magnetismo incredibile, bastava che aprisse bocca per accendere un mondo.

Il Supergruppo

Questa vostra sintonia vi permise di esplodere a suo tempo con il Supergruppo. Cosa ti è rimasto di quel periodo?

Fu una bella verifica. Raccogliemmo quanto avevamo seminato in quegli anni. Nel concerto finale a Napoli riuscimmo a radunare fan da tutte le città d’Italia. Nessuno se lo aspettava, infatti l’impianto non era all’altezza di uno spettacolo che aveva assunto proporzioni incredibili. Nei dischi e dal vivo ognuno doveva lasciare la propria impronta: con Pino c’era poi una sinergia spirituale. Anche dopo, quando nei dischi successivi abbiamo suonato con musicisti americani, Steve Gadd, Gato Barbieri, Wayne Shorter, tra noi si instaurava un rapporto prima spirituale e poi professionale. Pensa che, anche se questi musicisti non capivano le parole in dialetto, riuscivano a captare la forza etnica e della tradizione che era contenuta nel suo linguaggio musicale.

Quali furono le armi vincenti del Supergruppo?

Riuscimmo a unire diversi linguaggi. Ognuno aveva il proprio suono: mettendoli insieme ottenemmo un risultato ottimo, come gli ingredienti che formano un piatto gustoso. Se ne toglievi uno, perdevi la forza che avevamo in quel momento. Io lo consideravo un cerchio magnetico. Salivamo sul palco e senza parlarci ci capivamo. E alla gente, solo a vederci assieme, arrivava la nostra energia. Fu bellissimo.

Pino e Rino live

Dopo un lungo periodo di lontananza artistica, all’inizio del nuovo secolo vi siete ritrovati con l’album Medina.

Sì, io in quel periodo avevo fatto alcuni album etnici e spesso ci confrontavamo. Anche lui aveva intenzione di guardare verso il nord Africa. Così siamo andati addirittura in Marocco. È nato quindi un album molto interessante. Pino metteva sempre tutto in discussione, al momento in cui arrivava a un linguaggio compiuto, ripartiva da zero su di un altro binario. Non voleva suonarsi addosso. La ricerca era continua, voleva fare sempre un passo in avanti. Anche quando riprendemmo nell’ultimo periodo i pezzi storici, è stato bellissimo perché abbiamo riarrangiato ciò che avevamo suonato più di trent’anni fa, trovando sempre una nuova veste per proporli.

Secondo te, com’è cambiato l’approccio alla musica degli artisti di oggi rispetto ai vostri esordi?

Oggi la musica è più improntata al successo immediato, invece la nostra si basava sulla ricerca, avevamo il desiderio di proiettarci sempre in avanti. Con la scomparsa di Pino viene a mancare l’equilibrio e la potenza che lui rappresentava in questo lavoro di ricerca. Noi andavamo ad ascoltare Gesualdo da Venosa, Pergolesi, i baluardi della Napoli musicale del Seicento. Purtroppo ai napoletani manca la tutela del loro patrimonio artistico, spesso infatti si viene distratti da ciò che arriva da fuori e si finisce per non valorizzare la propria tradizione.

Tony Cercola, da Patatrac! al teatro per raccontare la sua storia: “Orgoglioso delle mie radici”

Tony Cercola ha tanto da raccontare. Con i suoi tamburi e le sue buàtte ha infatti tony-cercolaattraversato quarant’anni di musica, partendo proprio dalla Napoli degli anni Settanta, che vedeva sbocciare quel fermento sonoro chiamato Naples Power o Neapolitan Power. Il percussionista è cresciuto infatti insieme a grandi protagonisti di quel movimento musicale come Pino Daniele, James Senese, Edoardo ed Eugenio Bennato, la Nuova Compagnia di Canto Popolare e tantissimi altri. Sue le percussioni nel brano Appocundria, uno dei dodici pezzi pregiati contenuti nell’album-capolavoro di Pino Daniele, Nero a metà. In diverse occasione, infatti, Cercola ha arricchito il sound di artisti italiani e internazionali di grande prestigio, imboccando poi la strada del ‘percussautore’, come ama definirsi, autore di brani con una forte connotazione etnica. Pochi mesi fa è uscito il suo nuovo album, Patatrac!, che contiene otto inediti e quattro suoi vecchi successi a cui ha voluto dare nuova linfa con il contributo di giovani artisti di talento scovati da Roma fino all’Africa, passando per la Campania e la Sicilia: Roberta Albanesi, Ugo Mazzei, Esharef Ali Mhagag, Paky Palmieri, Laye Ba, e poi gruppi come gli Original Sicilian Style, Max Russo and Divinos, Wireframe e Malacrjanza. Nel disco spiccano gli interventi di Eugenio Bennato e Mimmo Cavallo, due decani della nostra canzone, mentre alla scrittura e agli arrangiamenti degli inediti ha partecipato il musicista e produttore Gino Magurno. Candidato al Premio Tenco 2016 nella sezione Miglior album in dialetto, Patatrac! conferma l’attaccamento di Cercola alle proprie radici, che continua a contaminare con i suoni e i ritmi dell’Africa e del Sudamerica.

Tony, quando hai deciso di fare Patatrac!?
Tutto è partito da un libro autobiografico uscito pochi mesi fa, Come conquistare il mondo con cercola_disco_patatracuna buàtta, scritto insieme ad Antonio G. D’Errico e edito da Edizioni Anordest, nel quale ho raccontato le mie radici vesuviane, del bullismo, della mia balbuzie e dell’incontro con Sandro Petrone a Radio Uno Napoli. È dedicato ai giovani provenienti dalle province, perché io sono originario di Cercola, piccolo paese alle falde del Vesuvio, e so quanto sia faticoso emergere quando vieni dalla periferia. Dopo l’uscita del libro, ho pensato di restituire alle nuove generazioni il sound che ho elaborato negli ultimi trent’anni. E così è nato Patatrac!. Sono sceso nelle cantine e ho lavorato con giovani musicisti alla rielaborazione dei miei pezzi. Loro sono riusciti a dargli freschezza. Ho ripreso Babbasone, con cui partecipai al Festivalbar del 1990, rifatta insieme ai Malacrjanza, gruppo hip hop di Napoli. Con il dj Paky Palmieri e il musicista senegalese Laye Ba ho rimaneggiato Lumumba, pezzo del 1988. Nel disco ci sono anche delle chicche d’autore, delle mie malinconie, come Tiemp’ tiemp’, incisa con Eugenio Bennato, e Compassion. Perché io da sempre mi sento un ‘percussautore’.

Tu hai vissuto dall’interno il fiorire del Naples Power. Cosa ti è rimasto di quel periodo?
Era una grande palestra. Era una Napoli di studio e di riflessione. Mentre muovevo i primi passi ho ricevuto tanti consigli, soprattutto dal batterista e cantante Gegè Di Giacomo. In molti, infatti, mi considerano un suo erede. In quel periodo lavoravamo tantissimo sul sound. La forza di Napoli è stata quella di far incontrare le proprie radici musicali con i suoni di tutto il mondo. Anche Pino [Daniele], che si esprimeva con la forma canzone, non si faceva comandare dal blues. Purtroppo ci si vede sempre di meno tra musicisti napoletani, l’ultima sinergia l’ha creata Pino, radunandoci all’Arena di Verona qualche anno fa e poi in altre occasioni. Sono orgoglioso di essere metropolitano e vesuviano.

Com’è oggi la situazione artistica in città?
Oggi il movimento musicale c’è, ma lo devi andare a cercare. È anarchico e ben nascosto. Io sono stato fortunato perché ho trovato giovani disposti a sperimentare insieme a me. Spero che ritorni il periodo in cui si faceva musica insieme, in sintonia, è l’unico modo per alimentare le nostre radici, solo così ci può essere evoluzione.

Tra poco sarai protagonista dello spettacolo teatrale ‘Tu, tu che mestiere fai?’.
Ripropongo in prosa la mia storia, quella che racconto nel libro, con un’attrice e tre musicisti. Mostro foto e filmati dei passaggi televisivi più importanti della mia carriera, quando la tv era un bomba mediatica che ti portava nelle case di milioni di persone. Oggi invece c’è parecchia dispersione dell’attenzione con una miriade di canali.

Pochi giorni fa è scomparso Dario Fo. Tu hai lavorato spesso con lui, qual è il tuo ricordo?
Ho accompagnato Dario in diverse occasioni, era un grande artista. Mi ricordo che feci un provino a casa sua e lui mi disse: “Io ho rubato una cosa a Napoli: le pause di Eduardo De Filippo”.

Questa intervista è uscita anche sul sito di Radio Web Italia: http://bit.ly/2eTING5