Kos, cronaca di un terremoto

20 luglio 2017. Un pomeriggio magnifico trascorso fra le isole greche con una piccola barca, sconfinando nelle acque della Turchia, limpide, azzurre, fredde. Rientriamo a Kos stanchi, soddisfatti e felici: una cena di pesce e via a dormire che il giorno dopo ci attende un’altra traversata. Paola è la prima a cedere, mentre io resisto fino al termine de I Supereroi di Pani e Mollica. C’è Paolo Conte che si racconta, l’appuntamento con il sonno è rimandato ancora di qualche minuto. Spengo la tv che l’una di notte è già passata, mi addormento con il pensiero che tra qualche ora ci dovremo svegliare per andare in Turchia, a Bodrum. Siamo stanchi ma eccitati all’idea di sbarcare nel cuore di quello che fu l’Impero Ottomano, in una terra bella e tormentata. Passano pochi minuti e ci svegliamo di soprassalto nel gorgo dell’inferno. Le pareti della stanza si muovono avanti e indietro, istintivamente ci abbracciamo, è l’unico movimento che riusciamo a fare nell’immediato, il frigobar danza, la porta finestra si spiomba. Dopo 30 secondi interminabili, riusciamo ad alzarci dal letto e a scappare giù per le scale, scalzi, in mutande, senza nulla di superfluo, solo le nostre vite. Sì, perché il terremoto ci riporta allo stato primordiale, ci spoglia delle certezze e dei beni materiali, ci restituisce l’essenza e la fragilità delle nostre vite. In quei momenti è come se la natura volesse riaffermare la propria supremazia sull’uomo. Nel giro di pochi secondi siamo tutti in strada, confusi e impauriti, nudi e disorientati. Ma siamo vivi.

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Kos, centro storico (Foto di tgcom24.it)

Paola urla che c’è qualcosa di strano nel mare. Io penso che sia solo spaventata e le dico di tranquillizzarsi. E invece ha ragione lei: le acque del porto stanno scendendo velocemente, alcune barche si piegano, i pontili mobili affondano. Poi le acque iniziano a salire, superano gli argini della banchina, invadono la strada, salgono le scale d’ingresso dell’albergo, entrano nella hall. Urla di panico e fuga generale. Uno tsunami! Corriamo tutti verso il retro dell’Hotel per sfuggire alla furia del mare. L’acqua, però, si ferma, il livello scende e lentamente rientra negli argini. I pescatori mollano gli ormeggi delle loro barche ed escono in mare aperto. Alcuni yacht, liberati dalla forza delle acque, danzano nel porto fuori controllo, in balia dei vortici, e girano su loro stessi con il rischio di scontrasi. Le acque del porto si abbassano nuovamente e poi tornano a salire, inondando strada e banchina. Questa volta non entrano in hotel, attendono fuori.

Alcune ragazze del nord Europa piangono, altre provano a chiamare un taxi per andare via, per raggiungere l’aeroporto e fuggire da questo inferno. Esce una famiglia norvegese dalla stanza, padre, madre e figlio, che, tra lo stupore generale, chiede: “Sapete cos’è successo?”.
“Il terremoto” rispondiamo basiti.
“Ma si ripeterà?” chiede il padre, provocando in noi un misto di stupore e ilarità. Non sanno cosa sia un terremoto, non l’hanno mai vissuto, sentito, percepito. Non possono nemmeno immaginare che nelle prossime ore ci saranno più di 160 scosse di assestamento. Così, appena il mare si ritira dalla strada, per sicurezza cercano un taxi e si dirigono in aeroporto per lasciare l’isola. Intanto arriva in hotel l’architetto che ha seguito la costruzione dell’edificio. É un tipo anziano, che racconta di aver studiato in Italia: ci dice che la struttura “sta bene”, è sicura e che non crollerà. Ma intanto le pareti hanno grosse crepe e il pavimento è pieno di cocci di bottiglie, bicchieri, tazze, vasi.

Noi tiriamo il fiato e cominciamo a chiederci perché la natura, il più delle volte straordinaria e incantevole, possa diventare così ferale, violenta, colma di rabbia. Cominciano ad arrivare notizie dai giornali online e dalle tv: la scossa più forte, quella che ci ha sorpreso nel sonno, è di magnitudo 6.7, l’epicentro è nei pressi di Bodrum, nel tratto di mar Egeo che divide la Grecia dalla Turchia, a una profondità di 10 km. Arrivano notizie di morti e feriti nell’isola: all’inizio si parla di un pontile che è crollato, trascinando in mare diversi ragazzi. Poi scopriamo che, invece, è caduto il tetto di un locale notturno e due ragazzi, un turco e uno svedese, sono morti. Ci sono tanti i feriti, alcuni molto gravi: ce ne rendiamo conto quando alle 6 del mattino arriva in albergo un ragazzo, anche lui cliente, che si trovava in uno di questi locali. Ha ferite sul viso, è smarrito, spaventato, ma è vivo e può ringraziare il destino che l’ha graziato. Io e Paola ci scambiamo uno sguardo inequivocabile: dobbiamo fuggire da quella trappola di dolore e di morte che è diventata l’isola. Proviamo a contattare la compagnia aerea con cui tra quattro giorni dovremmo tornare in Italia. Ci rispondono che al momento l’aeroporto è inagibile, ma anche se lo fosse non avrebbero posto sui voli per l’Italia per i prossimi giorni. Valutiamo tutte le alternative, per mare e per aria, ma non ci sono molte possibilità: navi e traghetti non possono attraccare in porto e la nave da crociera in sosta fino a un’ora prima è salpata per evitare di essere danneggiata dai vortici d’acqua. Prendiamo tempo e cerchiamo di capire cos’è meglio fare. Intanto Paola chiama una ragazza di Fondi che lavora in un’agenzia di viaggi. Ci farà sapere se c’è un aereo, un aliante o un disco volante che ci possa strappare da quella che sembra un’isola appena bombardata.

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Un locale del centro storico (Foto di repubblica.it)

L’alba è arrivata e si respira una sinistra aria di quiete. Anche il vento, protagonista assoluto nei tre giorni precedenti che avevamo trascorso sull’isola, si è calmato. Intanto i clienti si sono addormentati sul retro dell’hotel, sui lettini intorno alla piscina, alcuni piegati in avanti in veranda. Avvolti dalle coperte cercano qualche ora di quiete, tra loro anche una ragazza con problemi motori e un anziano. Noi non riusciamo a riposare, anche perché le scosse continuano. Decidiamo di fare due passi. E in quel momento raggiungiamo la consapevolezza che nessuno avrebbe potuto convincerci a continuare la nostra vacanza a Kos. Il negozio di liquori e bibite ha gli scaffali vuoti e due inservienti raccolgono i cocci delle bottiglie ammucchiati sul pavimento. Operai sono al lavoro per liberare le strade dai calcinacci. La banchina si è alzata di una quarantina di centimetri rispetto alla strada che costeggia il porto. Il centro è completamente crollato: intorno a noi solo macerie e sofferenza, occhi colmi di terrore e preoccupazione. Mentre ci riempiamo gli occhi di devastazione, ci arriva una telefonata dall’Italia: la ragazza dell’agenzia di viaggi di Fondi ci ha trovato due posti, gli ultimi disponibili, su di un volo Meridiana per l’Italia, per Bergamo, che partirà con molte ore di ritardo, appena riaprirà l’aeroporto. Dopo averla ringraziata almeno un migliaio di volte, torniamo di corsa in albergo, chiamiamo un taxi, carichiamo i bagagli e andiamo all’aeroporto. Lì troviamo migliaia di persone che attendono di partire. Alcune non hanno il biglietto e probabilmente non riusciranno a lasciare l’isola. Alcune strutture dell’aeroporto sono ancora danneggiate, quindi la protezione civile greca fa sostare le persone sul piazzale antistante, prestandogli la massima assistenza. Chi ha il biglietto potrà partire nel tardo pomeriggio e saranno le hostess di ciascuna compagnia a uscire fuori e a raccattare a uno a uno i passeggeri del loro volo.

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Paola e io sul volo Meridiana per Bergamo

Sono le 10 del mattino e siamo già stremati. Non abbiamo chiuso occhio e ogni tanto barcollo. Paola chiacchiera con due fidanzati olandesi, io intanto scrivo le parole che state leggendo. Poi alle 17 arriva una hostess di Meridiana che chiama i passeggeri del volo per Bergamo. Ci alziamo di corsa, commossi, stanchi, stremati. Imbarchiamo i bagagli ma ancora siamo in tensione. Alle 18 circa saliamo sull’aereo, poi il decollo e la fine di un incubo.