John Lennon, una leggenda ancora intatta

Yoko e John di fronte al Dakota Building

Sono trascorsi 41 anni da quel maledetto 8 dicembre 1980, quando Mark David Chapman mise fine alla vita di John Lennon. Erano circa le 22.50 e l’ex Beatles stava rientrando nel suo appartamento di Manhattan, al Dakota Building, insieme a sua moglie Yoko Ono. John venne raggiunto da quattro colpi alla schiena sparati dalla calibro 38 di Chapman, lo stesso uomo che poche ore prima gli aveva chiesto un autografo, sempre lì, di fronte all’ingresso dell’edificio in cui risiedeva Lennon. Uno di quei colpi gli perforò l’aorta, rendendo vana la corsa al Roosevelt Hospital, dove venne dichiarato morto alle 23.15. Da quel giorno il Dakota Building è diventato una sorta di luogo di culto per i fan di John e dei Beatles, tra il disappunto dei residenti che non hanno mai gradito il pellegrinaggio continuo di fronte a quel cancello. Trovandosi a pochi metri da uno degli ingressi di Central Park, negli anni si è pensato di costruire un mosaico commemorativo proprio lì, nel parco, anche per dissuadere i fan dall’affacciarsi all’ingresso del Dakota. Ma ciò è servito a poco. E ve lo posso raccontare con cognizione di causa.

Sì, perché nel 2012 io e la mia compagna eravamo a Manhattan, e da bravi turisti visitammo Central Park. Arrivati al mosaico che ricordava Lennon non resistemmo: uscimmo dal parco, attraversammo la 72esima strada e, in maniera discreta, ci avviciniammo all’entrata del Dakota Building. Ci accolse un elegantissimo portiere che, con estrema gentilezza, ci informó che non potevamo sostare di fronte all’ingresso del palazzo. Ci scusammo, ma prima di allontanarci gli facemmo la fatidica domanda: “Did John Lennon live here?” La sua risposta fu: “Yes, Mr. Lennon lived here”. Quel suo atteggiamento formale, il fatto che lo chiamasse Mr. Lennon, come se fosse ancora un qualsiasi abitante di quel grande e sontuoso edificio al centro di Manhattan, ci lasció di stucco e ci mise i brividi. Per un attimo ci sembró di aver sfiorato la storia.

Cercammo di estorcergli qualche altra informazione, ma si limitó a dirci che Mrs. Lennon (Yoko Ono) si vedeva spesso, ma non risiedeva più lì in maniera stabile. A noi bastava di sapere che fosse ancora casa loro, la casa di John, quella in cui aveva scritto Beautiful boy mentre accudiva il piccolo Sean.

Negli ultimi anni, da quando le sue condizioni di salute sono peggiorate, pare che Yoko Ono sia tornata a vivere stabilmente nell’appartamento del Dakota. Anzi, a quanto riportano i giornali, lo lascia raramente e appena per qualche ora, giusto il tempo di una passeggiata o per partecipare a un evento speciale. Si muove soltanto su una sedia a rotelle e viene accudita 24 ore su 24 da persone fidate.

Umberto Bindi e la ‘colpa’ di essere omosessuale

Umberto Bindi

Oggi voglio raccontare la storia di un cantautore italiano che ha scritto canzoni di una bellezza disarmante. Un artista raffinato e preparato, che però, per motivi che esulavano dalla sua arte, fu vittima di un progressivo ostracismo che si protrasse fino al termine della sua esistenza. Sto parlando di Umberto Bindi, autore e interprete di canzoni come Arrivederci, Il nostro concerto, scritte insieme al paroliere Giorgio Calabrese. Originario di Bogliasco, dove nacque nel 1932, Bindi crebbe musicalmente nella Genova degli anni Quaranta e Cinquanta. “[…]Avevo uno zio che studiava da tenore e un nonno che suonava pianoforte, spesso Chopin e le trascrizioni delle opere liriche come La cavalleria rusticana o II Rigoletto” raccontò il cantautore a Claudio Scarpa in un’intervista rilasciata nel 1995. “Cominciai così ad appassionarmi a un certo tipo di musica, che poi ho amato per tutta la vita. Mi accompagnarono ad ascoltare la Madama Butterfly al Teatro Paganini di Genova[…]; ti dirò che, sarà stato il soggetto, cioè la madre; io avevo solo la mia mamma che adoravo; vedere il sacrificio di questa donna che esegue il ‘Harakiri’ mi coinvolse ancora di più; alla fine dell’atto non ti dico i pianti. Così iniziai ad ascoltare musica e a studiarla al conservatorio”. Ben presto cominciò a muovere i primi passi nel mondo della musica leggera, diventando uno degli esponenti di spicco della cosiddetta ‘scuola genovese’ insieme a cantautori come Gino Paoli, Bruno Lauzi, Fabrizio De André, Luigi Tenco.

Fu a cavallo tra gli anni Cinquanta e i Sessanta che, con le proprie canzoni, Bindi conquistò il pubblico e la critica. Il suo primo successo arrivò nel 1959 con Arrivederci, incisa anche da Marino Barreto Jr. e dal trombettista Chet Baker, seguito dopo circa due anni dal suo capolavoro, Il nostro concerto. “Mi trovavo a Faenza in un teatro bellissimo del ‘700 e non c’era nessuno” raccontò ancora a Claudio Scarpa sulla genesi di questa canzone. “Ti dirò: l’odore del ‘vecchio’, inteso come antiquariato, questi tendoni un po’ sbiaditi, sentii una sensazione quasi mistica; dovevo fare delle prove per ‘La sei giorni della canzone’ e per l’occasione presentare una canzone nuova, abbastanza importante dopo i successi di Arrivederci e E’ vero. Erano le quattro del pomeriggio e non c’era nessuno, mi sono seduto al pianoforte e la canzone mi venne diretta, in maniera del tutto spontanea. Non appena vidi Calabrese gli dissi dell’idea di queste due persone che s’erano conosciute a un concerto, del loro ritrovarsi. Nacque così Il nostro concerto, tutto qui”. L’ascesa di Bindi proseguì inesorabile con la partecipazione Festival di Sanremo del 1961 con Non mi dire chi sei e la pubblicazione de Il mio mondo, brano che conobbe il successo internazionale grazie alla versione inglese della cantante Cilla Black, pupilla dei Beatles, che la portò al primo posto in classifica nel Regno Unito, mantenendo il primato per quattordici settimane. Nello stesso periodo decise di inciderla anche il cantautore francese Richard Anthony, che la lanciò in vetta alle classifiche in Francia e in Belgio. Il mio mondo sarà ripreso anche da altri artisti nel corso degli anni Settanta, ma ciò non basterà a impedire il lento e progressivo isolamento di Bindi dalle scene che contano, dai palchi importanti.

Questa discesa negli inferi cominciò proprio nei primi anni Sessanta con l’arrivo del successo. Bindi non dichiarò apertamente di essere omosessuale, ma non si sforzò nemmeno troppo di nasconderlo. “Preferisco essere impopolare, però essere sincero. Devo dirti che sono intervenuti dei fatti privati che in sostanza hanno disturbato alla grande o addirittura hanno distrutto il personaggio che si era creato” raccontò ancora a Claudio Scarpa nel 1995 a proposito dell’ostracismo che ci fu nei suoi confronti negli anni Sessanta. “Non ero il solo a non essere ‘immacolato’, però non andavo con la prassi ‘normale’, anche se ho cercato sempre di nasconderlo, con il dubbio che mi assillava perenne: si deve fare o non lo si deve far vedere. Non ho mai capito se la sincerità poteva vincere. […]Ho sofferto moltissimo e mi sono ‘chiuso’. Allora succedeva di passare per antipatico o come poco socievole. Il mio dramma era ‘uscire’ dalle quinte per andare in palcoscenico e sentire il solito che si lasciava andare a frasi poco garbate o addirittura pesantemente offensive”. Questa situazione lo portò a non pubblicare dischi per circa dieci anni, dedicandosi quasi totalmente alla carriera di autore. Nel 1967 firmò La musica è finita, brano scritto insieme a Franco Califano e a Nisa, portato al successo da Ornella Vanoni. E poi pezzi per altri interpreti italiani, ma di lui cominciarono a perdersi le tracce. Basti pensare che nei due decenni che seguirono pubblicò appena quattro album. A ripescarlo dall’anonimato in cui era piombato fu Renato Zero a metà degli anni Novanta. Il cantautore romano ascoltò i brani che Bindi aveva nel cassetto e lo convinse a pubblicare un nuovo disco. Uscì così nel 1996 l’album Di coraggio non si muore, che fu introdotto al grande pubblico dal brano Letti, presentato da Umberto Bindi al Festival di Sanremo insieme ai New Trolls. L’ultimo e isolato acuto di una carriera sfortunata.

Bindi ripiombò nel silenzio e nella solitudine. Finché un giorno cominciarono ad affacciarsi anche gravi problemi di salute che andarono ad aggiungersi alle difficoltà economiche che si erano affacciate nella sua vita negli ultimi anni. Alcuni colleghi avevano diramato un appello affinché al cantautore fossero riconosciuti i benefici della legge Bacchelli, che prevedeva un sussidio per gli artisti in difficoltà. Gli furono concessi l’11 aprile 2002. In quell’occasione il cantautore rilasciò una dichiarazione in cui manifestava la sua gratitudine per la grande solidarietà da parte di molte persone, ma anche l’amarezza per non essere stato mai pienamente capito. “Non me l’aspettavo” aveva dichiarato Bindi dopo il riconoscimento della Bacchelli, come riportato dall’Adnkronos. “Sono tanto contento e lusingato specialmente per la dimostrazione di affetto delle tante persone che mi sono state vicine. Mi spiace solo di essere stato di peso e un po’ mi spiace anche perché avrei voluto che in questi anni mi fossero stati tutti un po’ più vicini e avessero capito quel che stavo facendo, invece di aspettare questa circostanza per riaccendere i riflettori su di me. Avrei preferito non ci fosse stato bisogno di stare così male perché tutti si preoccupassero così tanto e tutti insieme. Ci sono stati altri momenti in cui credo di aver mandato dei messaggi e non sono stati accolti. Per vent’anni ho prodotto e provato a far ascoltare, facendo capire che ero vivo, e per venti anni mi è stato fatto capire che avevo già dato e che potevo essere soltanto l’antologia di me stesso”. Bindi non ebbe nemmeno il tempo di usufruire di quel contributo. Il 23 maggio 2002 morì all’Ospedale Spallanzani di Roma, dopo quattro giorni di ricovero, per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute. Dopo quel giorno ricadde nuovamente su di lui il silenzio, rotto soltanto da qualche pianto isolato.

Gli anni d’oro dei Matia Bazar

Se qualcuno mi chiedesse a bruciapelo il nome di un gruppo che a cavallo tra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta ha prodotto del pop italiano di qualità, senza pensarci troppo direi i Matia Bazar. Il gruppo genovese seppe conquistare un pubblico vasto ed eterogeneo, proponendo arrangiamenti elaborati e suoni originali, anche grazie alle radici prog dei suoi componenti.

Nei primi anni Settanta a Genova esisteva infatti una realtà progressive molto viva e ben radicata: i maggiori rappresentanti erano i New Trolls di Vittorio De Scalzi e Nico Di Palo, ma in quell’ambito gravitavano anche i Jet, band nata nel 1971, con Carlo Marrale alla chitarra e alla voce, Aldo Stellita al basso e alla voce, Piero Cassano alle tastiere e Renzo Cochis alla batteria. Tra 1971 e il 1974, il gruppo pubblicò un LP e diversi singoli con l’etichetta Durium. “La bellezza degli anni Settanta era che c’era tanta gente che suonava e il linguaggio di chi suonava allora era appunto il progressive: era il suono di quegli anni” ha raccontato Carlo Marrale nel libro Genova. Storie di canzoni e cantautori. Poi una sera fu il destino a metterci le mani, con un incontro speciale, uno di quelli che ti spinge a cambiare direzione: ai Jet venne presentata Antonella Ruggiero, colei che diventerà una delle voci femminili più espressive e intriganti della scena musicale italiana con un timbro vocale unico. Durante un concerto della PFM in un locale di Sampierdarena, dove i Jet erano di casa, Marrale e company notarono una ragazza molto carina seduta al tavolo con il loro produttore dell’epoca. Era proprio Antonella, che in quel periodo era solita esibirsi con il nome d’arte di Matia, scelto per la sua natura indefinita, né maschile né femminile. Nonostante in quegli anni in Italia nei gruppi musicali non militassero donne, decisero di provare a coinvolgerla nel loro progetto. “Le demmo appuntamento il giorno dopo a Molassana, dove noi facevamo le prove di Fede, speranza e carità” ha raccontato ancora Carlo Marrale nel libro Genova. Storie di canzoni e cantautori. “Piero le chiese cosa volesse cantare e lei iniziò a cappella You’ve got a friend. Con il suo timbro particolare ci conquistò subito e iniziò a collaborare come vocalista aggiunta. La sua voce venne aggiunta come colore a un progetto che però era maschile”.

Capirono di avere tra le mani una cantante carismatica dalla voce speciale, così decisero di archiviare i Jet e di far nascere i Matia Bazar. Al soprannome di Antonella venne affiancato il termine ‘Bazar’, che ben rappresentava le peculiarità del gruppo, il quale curava direttamente il proprio ‘prodotto’ musicale, dagli arrangiamenti fino ai testi delle canzoni, spingendosi anche all’organizzazione delle tournée. Era un bazar di idee, musica, canzoni. E la partenza fu la migliore tra quelle immaginabili, con il singolo Stasera…che sera, uscito nel 1975, che mostrava immediatamente il valore della band e la magica alchimia che lo caratterizzava: la scrittura raffinata e incalzante di Aldo Stellita, le capacità compositive di Marrale e Cassano, la voce avvolgente della Ruggiero. “[…]Ricordo ancora perfettamente quando nacque: il 1 gennaio del 1975” ha dichiarato ancora Marrale nel libro Genova. Storie di canzoni e cantautori. “Stavo tornando da un capodanno passato insieme agli altri ragazzi del gruppo; per farmi passare i postumi della notte brava (ero tornato alle 5 del pomeriggio a casa!) ho preso la chitarra e le prime note che mi sono venute fuori sono state proprio quelle di Stasera che sera, da lì a qualche giorno è nata la canzone. È come se l’avessi già avuta in testa, è difficile da spiegare. Ce l’avevo già nel mio cervello, nel mio hard disk già frullava da tempo”. A registrare il brano, che avrebbe partecipato a Un disco per l’Estate, furono Marrale, Stellita, Cassano e la Ruggiero, mentre alla batteria partecipò il session man Paolo Siani. Appena pochi mesi dopo, a dare un assetto definitivo alla line up dei Matia Bazar, arrivò in pianta stabile il batterista Giancarlo Golzi, anche lui reduce dall’esperienza con una band progressive, i Museo Rosenbach. Arrivò così il singolo Cavallo bianco, che raccoglieva in maniera nitida le influenze prog dei componenti del gruppo fondendole con un pop melodico d’autore, tutt’altro che scontato.

La band raccolse l’entusiasmo del pubblico che si trasformò in un consenso straripante nel 1977, in occasione dell’uscita di Solo tu, che divenne una hit da oltre un milione di copie vendute. Questo successo li portò dritti sul palco del Festival di Sanremo, a cui nel 1978 parteciparono per la seconda volta con il brano …E dirsi ciao, aggiudicandosi con merito la kermesse. Il periodo positivo continuò con l’uscita del brano C’è tutto un mondo intorno, in cui le voci di Marrale, Cassano e della Ruggiero dialogavano meravigliosamente. In particolare, sul finale, la voce di Antonella, nella registrazione in studio, raggiunge vette stratosferiche, riuscendo a far tremare le casse del giradischi.

Negli anni Ottanta si aprì una nuova fase per il gruppo: Piero Cassano decise infatti di abbandonare il progetto e al suo posto subentrò il tastierista Mauro Sabbione, che contribuì ad aprire il periodo elettronico dei Matia Bazar. “Le notti passate insonni, soprattutto con Aldo e Antonella Ruggiero poi con Carlo Marrale e Giancarlo Golzi a parlare dei brividi elettronici che attraversavano il vecchio continente, sono uno dei ricordi più belli” ha raccontato sul suo sito ufficiale Mauro Sabbione a proposito della sua militanza nella band. “Ascoltavamo Ultravox, Kraftwerk, Joy Division, Peter Gabriel ma anche B52 o la lirica italiana, mentre mettevamo a punto i nuovi pezzi che sarebbero stati l’ossatura del magnifico periodo postmoderno culminato con Vacanze romane”. Sabbione entrò nel gruppo nei primi mesi del 1981 e non ebbe alcun problema a far suo tutto il vecchio repertorio. Poi insieme cominciarono a scrivere i nuovi pezzi e da quel momento in poi, fino al 1984, lasciò la sua impronta sintetica nel suono e negli arrangiamenti dei Matia Bazar. In questo periodo nacquero due lavori pregevoli come Berlino, Parigi, Londra, che proponeva atmosfere new wave culminanti nella magnifica Fantasia, e Tango, l’album di Vacanze romane ed Elettrochoc, pietra miliare del pop elettronico italiano. Proprio Vacanze romane venne presentata al Festival di Sanremo nel 1983, classificandosi al quarto posto e aggiudicandosi il Premio della critica.

Poi Sabbione lasciò il posto a Sergio Cossu e il suono del gruppo si fece meno new wave, ma i Matia Bazar nella seconda metà degli anni Ottanta continuarono a sfornare successi, da Souvenir a Ti sento, oltre a brani che avrebbero meritato più attenzione come La prima stella della sera, canzone presentata, senza troppa fortuna, nel 1988 al Festival di Sanremo. Poi qualcosa iniziò a rompersi nell’ingranaggio perfetto che aveva caratterizzato il lavoro e l’equilibrio del gruppo fino a quel momento. Nel 1989, dopo 19 album e 7 dischi live, la Ruggiero decise di lasciare i suoi compagni di viaggio. Sentiva che per lei quella magnifica esperienza fosse arrivata al capolinea, che non le fornisse più nuovi stimoli. “[…]Per 14 anni, siamo andati in giro per il mondo e questo è il ricordo più bello che ho di quel meraviglioso periodo” ha dichiarato Antonella a Onda Musicale. “Insieme siamo andati in alcune aree del Mondo che adesso non ci sono più come l’Unione Sovietica, la Siria e la Giordania in quanto luoghi completamente annientati dalle guerre. Oppure in un Paese come il Cile dove allora era in vigore il coprifuoco. Io, noi, abbiamo visto un mondo che è completamente cambiato”. I Matia Bazar continuarono con una nuova cantante, la bravissima Laura Valente, ma non fu la stessa cosa. Nel 1993 anche Carlo Marrale decise di abbandonare il gruppo. La partenza della Ruggiero aveva “squilibrato un asse” ha raccontato il chitarrista. “I Matia Bazar stavano diventando un’altra cosa e per onestà nei confronti di me stesso e di Aldo ho deciso di fermarmi”. Proprio con la scomparsa di Aldo Stellita, avvenuta nel 1998, il gruppo cambiò pelle definitivamente. Oltre a essere il bassista del gruppo, Stellita era autore della maggior parte dei testi, un raffinato paroliere, intelligente e sensibile. Ma era anche una figura fondamentale per gli equilibri del gruppo. “È stato più che un fratello, buono, paziente, saggio, lungimirante, intellettualmente onesto, intelligentissimo, oltre che un poeta” ha dichiarato Carlo Marrale in un’intervista a firma di Andrea Turetta. “Anzi direi che se è venuta fuori la parte buona di me, lo devo proprio a lui. Le canzoni più importanti della storia del Matia Bazar le abbiamo composte insieme”. Con la morte di Aldo Stellita si esauriva definitivamente anche lo spessore poetico della band. Tutto ciò che venne dopo fu un onesto pop senza particolari sussulti, distante anni luce dai fasti dei Settanta e degli Ottanta, gli anni d’oro dei Matia Bazar.

Joe Amoruso: «Resta il rammarico di non aver realizzato altri inediti insieme»

Intervistai per l’ultima volta Joe Amoruso nell’estate 2015. Stavo finendo di scrivere il libro “Pino Daniele. Una storia di blues, libertà e sentimento” e mi sembrò indispensabile raccogliere la sua versione dei fatti, il suo racconto sul Naples Power (o Neapolitan Power) e sulla sintonia che si creò con Pino Daniele. Voglio riproporre qui quell’intervista che mi riempì il cuore e l’anima. Con un po’ di magone e tanta tenerezza…Ciao Joe!

È stato uno dei protagonisti del Naples Power, nonché membro del Supergruppo. Ma dopo ha collaborato anche con Vasco Rossi, partecipando al disco Cosa succede in città, e poi con Zucchero e Andrea Bocelli. Sto parlando di Giuseppe Amoruso, detto Joe, classe 1960, un ragazzino prodigio del pianoforte: a quindici anni infatti frequentava il conservatorio, ma già seguiva il programma dell’ottavo anno mentre tutti gli altri erano fermi su quello del quinto. Furono i militari delle basi Nato, che negli anni Settanta suonavano nei club in zona Porto, a ribattezzarlo Joe durante una jam session. «A Napoli negli anni Settanta avevamo questi locali frequentati da musicisti americani, e tu dovevi suonare tassativamente come loro, altrimenti ti buttavano fuori» mi ha raccontato Joe. «Organizzavano jam session e noi con la bocca aperta a impadronirci del loro modo di suonare». Dopo aver collaborato con Danilo Rustici degli Osanna, nel 1979 fu reclutato da Peppino Di Capri per la registrazione del disco Con in testa strane idee, che uscì poi l’anno successivo. Grazie a quella collaborazione venne chiamato a Milano dalla Polygram, che lo fece partecipare al programma televisivo condotto da Walter Chiari, Una valigia tutta blu, in onda su Rai Uno nell’estate del 1979. L’apparizione in tv ebbe il merito di diffondere velocemente il nome di Joe nell’ambiente musicale: lavorò così con Alberto Fortis per il disco Tra demonio e santità e, appena ventenne, entrò in contatto con Mauro Pagani e la PFM, gli Area e altre realtà che gravitavano nell’ambiente milanese.

E poi arrivò Pino?

Io ero a Milano a lavorare come session man e il mio nome cominciava a girare, ero considerato un enfant prodige. Con lui non ci eravamo mai incrociati, nonostante io, prima di partire per il capoluogo lombardo, avessi frequentato l’ambiente napoletano. Conoscevo James Senese e tutti gli altri, avevo vissuto la Napoli musicale degli anni Settanta e non perdevo occasione di suonare, ma Pino non avevo avuto mai modo di incontrarlo. All’inizio pensavo addirittura che fosse un neo-melodico, poi quando ascoltai il suo secondo disco, Pino Daniele, capii che era tutt’altra cosa e cominciò a crescere un’ammirazione da lontano. E intanto anche a lui avevano parlato del giovane tastierista Joe Amoruso. In realtà siamo nati insieme artisticamente io e Pino, solo che ci osservavamo a distanza.

Finché non ci fu l’incontro.

Nel 1979 fu lui a contattarmi. Io ero sceso a Napoli per fare un po’ di vacanza. Fu Agostino Marangolo a presentarmelo. Sapevo che ci saremmo incontrati, c’era già un’affinità a distanza tra di noi, una predestinazione artistica, ci siamo cercati come due fidanzati. A quel punto non tornai più a Milano. Mi invitò ad andare a Formia da lui, aveva appena fatto Nero a metà, ma stava rimettendo mano alla band per le ultime date live. Lo trovai da solo, seduto su di una sediolina al centro di una saletta che aveva fatto insonorizzare con la tela di sacco. Dopo le presentazioni di rito mi misi al piano senza però suonarlo. Continuavamo a parlare e si vedeva che lui era smanioso di sentirmi battere le dita sui tasti, ma non aveva il coraggio di dirmelo. A un certo punto mi chiese di provare il piano, io attaccai una cosa molto forte, perché avevo già capito cosa cercava lui. Fu subito entusiasta e iniziammo a far volare la musica, al punto che chiamò due suoi collaboratori che erano usciti fuori e li invitò ad ascoltare: «Venite cca, venite a sentì, chesta è la musica, parimmo n’orchestra». È cominciato tutto così.

Fu lì che cominciaste a lavorare su Vai mò?

Non proprio, prima mi chiese di imparare in due giorni le canzoni della scaletta del concerto di Nero a metà. Per questo mi diede il soprannome di Nembo Kid. Poi, dopo il tour, cominciammo a lavorare sui pezzi di Vai mò, sempre a Formia, pianoforte e chitarra. Mangiavo e dormivo a casa sua, con lui e la sua famiglia. Io e Pino eravamo diventati praticamente fratelli. Lavoravamo in due sulle strutture dei pezzi e in seguito coinvolgevamo gli altri. Poi infatti si aggiunse Rino Zurzolo e dopo arrivò Tullio De Piscopo alla batteria. James Senese e Tony Esposito completarono la formazione. Ancora conservo le prime registrazioni di quei giorni in quartetto e ogni tanto le faccio ascoltare agli amici.

Il Supergruppo era fatto.

Praticamente sì, l’album ebbe un successo strepitoso e il tour lo stesso. Abbiamo sdoganato un nuovo modo di suonare il pop, effettuando una ricerca musicale che poi hanno seguito in tanti. Tra di noi c’era sintonia perché avevamo radici comuni, tutti venivamo dall’esperienza nei locali americani a Napoli, ecco perché i giornalisti lo definirono Naples Power o Neapolitan Power. Tra noi c’era una sintonia perfetta.

Poi però già con Bella ‘mbriana qualcosa cominciò a scricchiolare tra di voi.

Per quel disco Pino decise di chiamare musicisti americani. Mi dispiacque molto per Rino Zurzolo che rimase fuori da quell’album. Registrammo io, Pino e Tullio: suonammo con mostri del calibro di Wayne Shorter e Alphonso Johnson, abbiamo anche vissuto insieme, scoprendo l’umiltà di questi grandi musicisti. Quell’anno fu importante perché la musica di Pino fece un salto di qualità internazionale.

So che anche per Musicante tu e Pino lavoraste a stretto contatto.

Certo. Ma prima ci lanciammo in un’altra esperienza di prestigio: io arrangiai alcuni brani di Common Ground, disco di Richie Havens prodotto da Pino, il quale suonò e scrisse anche alcuni pezzi. Fu il mio battesimo da arrangiatore, un esame importante per la mia crescita artistica. Poi lavorammo su Musicante: fu un capolavoro, facemmo una full immersion e riuscimmo a raggiungere il momento più alto a livello spirituale. Credo che sia un disco raffinato, innovativo, filtrato dalla nostra cultura, con un intento quasi mistico. È un album da intenditori, che va digerito. In quegli anni ho messo a disposizione di quel progetto tutto il mio bagaglio culturale di ricercatore, sperimentatore, musicologo.

Quello, però, fu anche il momento in cui sfumò definitivamente il sogno di tenere uniti tutti i grandi talenti della musica napoletana.

Chiudemmo prima il cerchio con Sciò, una testimonianza live di anni intensi e prolifici. Nel frattempo ognuno stava pensando alla realizzazione di progetti personali: io cominciai a lavorare con Tony Esposito e scrivemmo Kalimba de luna, che arrivò lontano e gli diede tanto successo, facendoci diventare anche abbastanza ricchi in quel momento. Tullio De Piscopo era lanciato anche lui nella carriera da solista. Io dovevo seguire Tony che mi reclamava. Anche James era proiettato su altri progetti. Insomma, ognuno stava lavorando per la realizzazione personale, e giustamente anche Pino doveva andare avanti, quindi decise di coinvolgere altri musicisti, grandi nomi internazionali.

Per anni siete stati senza sentirvi?

All’inizio ci cercavamo per un saluto e per sapere l’altro cosa stesse facendo. Poi negli anni Novanta ci perdemmo proprio di vista.

Fino al ritorno di fiamma del 2008 con Ricomincio da 30. Come accadde?

Pino voleva festeggiare i trent’anni di carriera, così pensò di rimettere insieme il Supergruppo. So solo che aspettavo la sua telefonata da tempo. Sapevo che ci saremmo ritrovati prima o poi. Finalmente la chiamata arrivò alla fine del 2007. E purtroppo di quella reunion resta il rammarico di non aver fatto di più. Ancora c’erano grandi potenzialità che non sono state espresse fino in fondo. Per l’occasione rifacemmo alcuni pezzi con arrangiamenti minimali, che a me piacquero moltissimo, ma avremmo potuto tirare fuori anche qualche inedito. Pino inizialmente era d’accordo, poi però, al termine di una serie di concerti, si tirò indietro. Non mi spiegò mai le motivazioni che lo spinsero a rinunciare. Eppure sentivo che il potenziale era ancora immenso. Resta l’amarezza di sapere che ora non possiamo più.

Rino Zurzolo: «La ricerca era continua, Pino voleva fare sempre un passo in avanti»

Oggi voglio ricordare un artista immenso come Rino Zurzolo, scomparso il 30 aprile 2017, riproponendo l’intervista che gli feci nel giugno del 2015 per il mio libro Pino Daniele. Una storia di blues, libertà e sentimento (Ottobre 2015). Ci sentimmo telefonicamente in una torrida mattinata di inizio estate, dopo esserci scambiati un paio di messaggi d’intesa. Grande musicista e persona molto garbata, insieme parlammo di come la sua storia musicale si intrecciò con quella dell’amico Pino Daniele. Della loro esigenza di compiere sempre un passo in avanti. Buona lettura!

La storia musicale del bassista e contrabbassista Rino Zurzolo affonda radici nella Napoli degli anni Settanta, dove incontrò altri ragazzi con la medesima passione per il blues, il jazz, lo swing: Rosario Jermano, Paolo Raffone, Enzo Avitabile e Pino Daniele. Ecco perché Pino, avviata la sua carriera da solista, nel 1977 lo volle per le registrazioni dell’album Terra mia. Questa collaborazione proseguì poi con il disco Pino Daniele e conobbe il momento più bello, fecondo, intenso nel 1981 con la pubblicazione di Vai mò e la nascita del Supergruppo. Nel frattempo Zurzolo si diplomò a pieni voti in contrabbasso al conservatorio San Pietro a Majella, portando avanti progetti musicali jazz. Nel 1984 infatti, oltre a suonare in Musicante, fondò il gruppo Rino Zurzolo Jazz da camera, sperimentando nuove sonorità e inedite soluzioni musicali. L’ultimo album che registrò con Pino negli anni Ottanta fu Ferryboat, poi la loro collaborazione si interruppe per parecchio tempo. Finché nel 2001 si ritrovarono per Medina e il successivo tour da cui fu ricavato il disco Concerto. Da quel momento il loro sodalizio riprese a pieno ritmo: dal tour che Pino fece con Francesco De Gregori, Ron e Fiorella Mannoia fino alla reunion di Nero a metà, passando per Ricomincio da 30, il tour di Passi d’Autore e i concerti internazionali. Oggi Zurzolo continua l’attività live, alternandola con l’insegnamento del contrabbasso al Conservatorio Nicola Sala di Benevento. Ma tanti erano i progetti che aveva ancora intenzione di realizzare con Pino.

Rino, galeotti furono Napoli e l’amore comune per la musica.

Sì, avevamo formato i Batracomiomachia agli inizi degli anni Settanta, io frequentavo il conservatorio e Pino stava all’istituto di ragioneria al centro di Napoli. Ci incontravamo il pomeriggio e si andava a provare. Io avevo tredici anni e Pino sedici. Avevamo una grande passione per la musica, quindi ci riunivamo anche senza idee ben precise, improvvisavamo, creavamo pezzi nuovi, registravamo. C’era la voglia di confrontarci. Io lo dico sempre ai miei allievi del Conservatorio: per fare il musicista ci vuole una forte passione che deve supportare tutto il resto. In quegli anni nacque anche un nostro linguaggio, basato su di un dialogo continuo che non è mai terminato. Anche quando io e Pino non collaboravamo, in settimana ci sentivamo sempre per un confronto. Avevamo il medesimo approccio alla musica, sintonia umana e artistica: entrambi amavamo tornare sempre al punto di partenza, rimettendo in gioco tutto. L’ultima volta ci eravamo sentiti i primi di gennaio perché ci volevamo dedicare a un progetto sul linguaggio musicale spagnoleggiante, tenendo presente i capiscuola di quel genere. Avevamo sempre bisogno di nuovi stimoli per accendere la luce e arrivare alle persone.

Su cosa si basava negli ultimi anni la ricerca musicale di Pino?

Avevamo questa comune esigenza di eliminare il superfluo, in termini musicali. Volevamo arrivare all’essenza, togliendo invece di aggiungere: attraverso una nota desideravamo comunicare come se avessimo suonato una melodia. Ci stavamo riuscendo, il nostro linguaggio musicale era infatti sempre più minimale. Pino poi aveva un magnetismo incredibile, bastava che aprisse bocca per accendere un mondo.

Il Supergruppo

Questa vostra sintonia vi permise di esplodere a suo tempo con il Supergruppo. Cosa ti è rimasto di quel periodo?

Fu una bella verifica. Raccogliemmo quanto avevamo seminato in quegli anni. Nel concerto finale a Napoli riuscimmo a radunare fan da tutte le città d’Italia. Nessuno se lo aspettava, infatti l’impianto non era all’altezza di uno spettacolo che aveva assunto proporzioni incredibili. Nei dischi e dal vivo ognuno doveva lasciare la propria impronta: con Pino c’era poi una sinergia spirituale. Anche dopo, quando nei dischi successivi abbiamo suonato con musicisti americani, Steve Gadd, Gato Barbieri, Wayne Shorter, tra noi si instaurava un rapporto prima spirituale e poi professionale. Pensa che, anche se questi musicisti non capivano le parole in dialetto, riuscivano a captare la forza etnica e della tradizione che era contenuta nel suo linguaggio musicale.

Quali furono le armi vincenti del Supergruppo?

Riuscimmo a unire diversi linguaggi. Ognuno aveva il proprio suono: mettendoli insieme ottenemmo un risultato ottimo, come gli ingredienti che formano un piatto gustoso. Se ne toglievi uno, perdevi la forza che avevamo in quel momento. Io lo consideravo un cerchio magnetico. Salivamo sul palco e senza parlarci ci capivamo. E alla gente, solo a vederci assieme, arrivava la nostra energia. Fu bellissimo.

Pino e Rino live

Dopo un lungo periodo di lontananza artistica, all’inizio del nuovo secolo vi siete ritrovati con l’album Medina.

Sì, io in quel periodo avevo fatto alcuni album etnici e spesso ci confrontavamo. Anche lui aveva intenzione di guardare verso il nord Africa. Così siamo andati addirittura in Marocco. È nato quindi un album molto interessante. Pino metteva sempre tutto in discussione, al momento in cui arrivava a un linguaggio compiuto, ripartiva da zero su di un altro binario. Non voleva suonarsi addosso. La ricerca era continua, voleva fare sempre un passo in avanti. Anche quando riprendemmo nell’ultimo periodo i pezzi storici, è stato bellissimo perché abbiamo riarrangiato ciò che avevamo suonato più di trent’anni fa, trovando sempre una nuova veste per proporli.

Secondo te, com’è cambiato l’approccio alla musica degli artisti di oggi rispetto ai vostri esordi?

Oggi la musica è più improntata al successo immediato, invece la nostra si basava sulla ricerca, avevamo il desiderio di proiettarci sempre in avanti. Con la scomparsa di Pino viene a mancare l’equilibrio e la potenza che lui rappresentava in questo lavoro di ricerca. Noi andavamo ad ascoltare Gesualdo da Venosa, Pergolesi, i baluardi della Napoli musicale del Seicento. Purtroppo ai napoletani manca la tutela del loro patrimonio artistico, spesso infatti si viene distratti da ciò che arriva da fuori e si finisce per non valorizzare la propria tradizione.

Lucio Dalla e il suo sosia: storia di un bizzarro sodalizio

vito-lucio[…] E per cosa mi dovrei pentire di giocare con la vita e di prenderla per la coda, tanto un giorno dovrà finire”. Proprio così, come cantava in Siamo Dei nel 1980, a Lucio Dalla piaceva divertirsi con la vita, prenderla poco sul serio, sbeffeggiarla. E la storia che vi sto per raccontare ne è la prova lampante.

Immaginate una giornata dei primi mesi del 1991, una Bologna piovosa ma sempre viva, i portici, “lo stadio, il trotto, il Resto del Carlino”. Luca Carboni passeggia tranquillo in via Ugo Bassi, quando improvvisamente davanti a un fioraio crede di vedere il suo amico Lucio Dalla. I tratti somatici sono identici, le caratteristiche fisiche molto simili. Appena Luca lo focalizza bene capisce che non è lui, ma la somiglianza è impressionante. Si tratta di Vito D’Eri, imbianchino lucano che vive da diversi anni nel quartiere bolognese di San Donato. Carboni conosce bene Dalla e sa che l’idea di avere un sosia lo divertirebbe moltissimo. Così raccomanda a D’Eri di andarlo a conoscere. D’altronde Lucio non è difficile da trovare: vive in pieno centro a Bologna, in via Massimo D’Azeglio, e se si è fortunati lo si può incontrare durante una spensierata passeggiata verso Piazza Maggiore. Ma per chi non vive e non lavora in centro non è un’opzione così scontata.

L’occasione si crea nell’estate dello stesso anno, ma lontano da Bologna, quando Vito torna nella sua Basilicata, precisamente a Pisticci, per trascorrere le vacanze. Il caso vuole che a Policoro, il 12 agosto, si esibisca Dalla. Così D’Eri decide di cogliere al balzo l’opportunità e quella sera nella città lucana i due finalmente si conoscono. Al loro primo incontro pare che Lucio lo abbia scrutato con occhio indagatore e quell’aria sorniona di chi sta già partorendo qualche idea geniale. Probabilmente Dalla capisce subito che avere un sosia potrebbe essere un’esperienza divertente e vantaggiosa. E tra di loro parte un sodalizio che durerà fino alla scomparsa dell’artista, il 1° marzo del 2012.

Gradualmente Vito viene coinvolto nel percorso artistico di Lucio. Quando Dalla ha altri impegni o non ha voglia di presenziare lo spedisce al suo posto. La storia narra di un D’Eri protagonista di soundcheck in cui canta in playback, ospite di concerti di altri artisti negli stadi, ma anche al Festivalbar. “Intendiamoci, non è che cantassi e mi spacciassero per il Dalla vero” ha raccontato D’Eri a Repubblica, “ma durante le prove, io salivo sul palco in playback e simulavo la sua presenza mentre lui arrivava solo il giorno dell’esibizione. Oppure se non poteva proprio andare partivo io. Il pubblico andava in visibilio, poi veniva avvisato che ero solo il sosia. Si divertivano lo stesso. Bastava un gag per buttarla in ridere. Allo stadio Olimpico di Roma, Gigi D’Alessio ha fatto finta di essere sorpreso: tu bolognese tiri un pacco a me napoletano? Non esiste!”. Con il tempo D’Eri viene ribattezzato ‘Dalla 2’ e, oltre alla collaborazione, con Lucio nasce una bella amicizia. Nel 2007 appare addirittura nel video ufficiale di Lunedì, secondo singolo estratto dall’album Il contrario di me, nel quale appaiono anche altri amici di Lucio, tra cui Iskra Menarini, voce straordinaria e sua corista storica, e Tobia Righi, oltre ai suoi due Labrador. Nel video il Dalla reale incrocia il suo sosia al piano terra di un palazzo, prima di entrare in ascensore, mostrando una divertita perplessità (al minuto 3,33).

Vito gli tinteggia la casa alle Tremiti, poi si occupa anche dell’abitazione di Via D’Azeglio. Oltre a dargli visibilità nel mondo dello spettacolo, Lucio gli dimostra amicizia anche nel momento del bisogno, quando viene a sapere delle difficoltà economiche di D’Eri, di un mutuo che gli toglieva il sonno. “Il lunedì successivo, chiamai la banca e appresi che Lucio aveva versato 40 mila euro sul mio conto” ha raccontato a Kikapress. Ecco perché, quando Lucio muore lontano dalla sua Bologna, Vito resta annichilito, sconvolto, come se avesse perso un fratello: “Non volevo crederci. Passai tre giorni e tre notti sotto casa sua”. Oggi, quasi tutte le domeniche, D’Eri si reca al cimitero monumentale di Bologna sulla tomba di Lucio, per salutarlo e per rendergli omaggio ancora una volta. Per ringraziarlo di esserci stato. Un po’ come facciamo noi quando ascoltiamo ancora oggi la sua musica.