Giovanna Marini, una vita per il canto sociale – L’intervista

Giovanna Marini

6 ottobre 2009. Ore 16.45. Per le strade di Roma sembra primavera. Ho un appuntamento al bar di Testaccio con una delle musiciste più rappresentative del Nuovo Canzoniere Italiano e della musica popolare in generale: Giovanna Marini. Arrivo con dieci minuti di anticipo. Non voglio farla attendere. Anche lei arriva in anticipo. Così alle 17 siamo già seduti al tavolino del bar. Giovanna è conosciutissima dai clienti del bar, perché insegna alla scuola di musica popolare di Testaccio, che si trova proprio lì a pochi passi. Ogni persona che entra la saluta con affetto. Dopo aver ordinato il suo solito tè, cominciamo la nostra chiacchierata. Ma iniziamo dalla fine. Da Ivan Della Mea, un compagno, un amico scomparso da pochi mesi. Ne parla con rimpianto. “Eravamo tutti molto preoccupati per lui. L’avevo visto pochi giorni prima a Bergamo. Era amareggiato e stanco. La malattia l’aveva logorato”, mi dice, “i suoi erano problemi di salute anche gravi ma, se li avesse tenuti sotto controllo, poteva conviverci tranquillamente. E invece lui si è lasciato andare”. La sua voce è un misto di rabbia e commozione. Chiudo subito l’argomento perché vedo che Giovanna è commossa e mentre sorseggia il tè dice: “Dopo la morte di Ivan sono rimasta sola”.  Comincio così a farle un po’ di domande sulla storia del Nuovo Canzoniere Italiano.

Come e quando è iniziata la tua avventura con il Nuovo Canzoniere Italiano?

È iniziata nel 1963. Con un incontro avuto con Roberto Leydi, che era venuto a Roma a sentirmi al Folkstudio. A quel tempo suonavo musica classica con la chitarra e ogni tanto mi azzardavo a cantare le ballate francesi e inglesi. Io ho trascorso gran parte dell’infanzia in Inghilterra, quindi ero molto influenzata da quel tipo di cultura musicale. In più avevo mia nonna che era francese. Quando venne Roberto ad ascoltarmi, cantai delle canzoni antiche dell’alta Savoia. Leydi rimase molto colpito e mi chiese di andare a Milano a registrarle. Da quel momento è iniziata la mia esperienza con il Nuovo Canzoniere Italiano. Ma io non sapevo nemmeno cosa fosse il canto popolare. Leydi mi aprì la porta su un mondo nuovo. Grazie a lui venni a contatto con Gianni Bosio e Ivan Della Mea, persone fondamentali per la mia crescita artistica.

Erano i primi anni Sessanta. Che clima c’era per le strade?

Ricordo poco del clima italiano dei primi anni Sessanta. Ero appena tornata dall’America. Mi ricordo che lì era appena morto Kennedy, cominciavano le prime contestazioni contro la guerra in Vietnam. Era un’America vivissima, interessante. Con le lotte razziali nel Sud. Tornando in Italia ho trovato un clima vivacissimo, in cui sembrava ci fosse spazio per un messaggio, per dire delle cose. A noi ci chiamò un funzionario del PCI di Torino, che ci voleva mettere a disposizione un camion per andare a cantare le canzoni del nostro repertorio davanti alle fabbriche. Oggi, una cosa del genere non potrebbe mai accadere.

Tu hai frequentato intellettuali del calibro di Pasolini. Ma più determinante di tutti gli altri è stato l’incontro con Peppino Marotto.

Sì. Peppino era un poeta. Io e Franco Coggiola lo andavamo a trovare spesso. L’ultima volta ho visto anche lui molto stanco, perché andare controcorrente logora. Nel suo paese erano cresciuti problemi legati all’abusivismo, all’invasione del cemento. Peppino lavorava alla Camera del Lavoro di Orgosolo. Era una persona che voleva fare le cose per bene. Chissà contro chi si era messo. Alla fine l’hanno ucciso con cinque colpi di fucile, due anni fa circa, mentre acquistava il giornale. Peppino è stata una delle persone che mi ha fatto appassionare al canto popolare, insieme a Matteo Salvatore e alla mamma di Luigi Chiriatti.

Il tuo esordio con il Nuovo Canzoniere Italiano risale allo spettacolo “Bella Ciao”, tenutosi a Spoleto. Cosa ricordi di quella esibizione?

È stata una scoperta per me. In quella occasione ho conosciuto Caterina Bueno e ho capito dove ero capitata. Fino a quel momento erano dei simpatici amici. Con “Bella Ciao” ho compreso il tipo di impegno politico e il lavoro di ricerca che svolgevano. È stato molto importante quello spettacolo per comprendere a pieno la strada intrapresa dal Nuovo Canzoniere Italiano. La cosa che mi colpì di più fu il clamore del pubblico. Non avrei mai pensato che fosse così indignante ciò che cantavamo. Si incazzarono proprio. Io ero stupitissima, anche perché, essendo musicista, non facevo molto caso alle parole, mi sono sempre interessata di più alla musica, all’armonia, alla linea melodica. In quel caso io sentivo tutti che urlavano e non capivo perché. Michele Straniero fu contestato appena cantò la strofa di “O Gorizia tu sei maledetta”, che diceva ‘traditori signori ufficiali’. Capirai, là era un mondo di ufficiali, della gente dell’alta borghesia che non concepiva gli si cantassero queste cose. Addirittura erano indignati pure per la presenza di Giovanna Daffini, perché era una contadina.

Poi c’è stato, alla fine del 1965, “Ci ragiono e canto”, diretto da Dario Fo.

A quello spettacolo parteciparono anche i pastori di Agius. Io mi affezionai molto a quelle persone perché erano molto diverse da me. Pure con Pietrangeli ci conoscemmo nel 1965. Lui arrivò con un codazzo di amici. Frequentava ancora il terzo liceo.

In un’occasione tu decidesti di non salire sul palco e venisti sostituita. Come mai?

Ah, sì. A Spoleto qualche anno dopo. Io dovevo fare la voce per uno spettacolo di Berio, ma non me la sentivo proprio. Da una parte la paura di non essere all’altezza, all’epoca arrivavo con la voce al si bemolle, dall’altra avevo i bambini e per di più insegnavo. Così gli scrissi una lettera per spiegargli il motivo della mia rinuncia, mettendo avanti una scusa ideologica dicendo che non sarei voluta tornare a Spoleto, dove qualche anno prima ci avevano contestato, nelle vesti di gregaria. Ma la motivazione reale era molto più semplice e pratica.

Come vedevate i nuovi cantautori che stavano uscendo in quegli anni?

Io ho conosciuto De Andrè, Guccini, De Gregori e Venditti. Con De Gregori c’è stata immediatamente una grande simpatia e lo mandai da Caterina Bueno a suonare la chitarra con il suo gruppo perché lui voleva uscire di casa e gli servivano i soldi. Lui scriveva canzoni e cercava da noi il lancio. Io gli dissi subito che il Nuovo Canzoniere non poteva permetterselo e che noi avevamo avuto la fortuna di ritrovarci sui giornali per il casino che era scoppiato a Spoleto, così eravamo riuscita a ottenere un po’ di pubblicità. Poi lui, in tempo di contestazione, si presentava con “Buonanotte fiorellino” perché Francesco è stato sempre bastian contrario. E lo è tutt’ora. Gli secca terribilmente essere all’unisono con gli altri. È il suo carattere. È una persona molto seria e onesta a cui voglio molto bene. Guccini l’ho conosciuto durante un Festival. Una persona molto colta, simpatica. Mentre De Andrè lo conobbi a Milano nello studio di Nanni Ricordi. Ero andata da Nanni per fargli ascoltare le mie canzoni. Lui mi disse che erano troppo colte, troppe distinte dal resto. E mi disse: “Giovanna, adesso ti faccio sentire uno che fa canzoni buone”. Era un giovane timidissimo, con la sua chitarra e i capelli che gli coprivano gli occhi. Era Fabrizio De Andrè. Ascoltai “Via del campo” e dissi a Nanni: “il testo è bellissimo, ma per la musica potrebbe fare di più ‘sto ragazzo’”. (Ride)

Come mai non avete mai ceduto alle lusinghe del mercato?

Devo dire la verità. Ai tempi mi chiamò la RCA per farmi un contratto, ma io rifiutai perché avevo paura di perdere i miei amici, che erano tutti puri e duri. Mi sentivo giudicabile. Soprattutto da Ivan (Della Mea). Quindi preferii restare con le Edizioni del Gallo. Non guadagnavo una lira con loro, però mi piaceva di più la situazione. Io sono contenta così. Non è una coerenza di tipo puro, ideologica, è legata ad alcune coincidenze.

Perché finì l’esperienza del Nuovo Canzoniere Italiano?

L’esperienza del Nuovo Canzoniere è andata scemando. Si è diluita. La morte di Gianni Bosio e di Giovanni Pirelli credo che siano state determinanti. Il primo aveva le idee, mentre il secondo investiva il denaro in questa avventura. La loro scomparsa ha accelerato molto la fine di questa esperienza. Adesso siamo rimasti io, Paolo, Bertelli e Portelli. La morte di Ivan è stata un duro colpo.

Insieme a Paolo Pietrangeli, tu sei l’unica che ha continuato a fare musica. Quanto è cambiato da allora l’approccio verso la musica popolare?

Moltissimo. I DAMS hanno permesso la formazione di giovani musicologi, i quali hanno portato il canto popolare nell’accademia. Svolgono ricerche, studi, non perdono di vista i cantori. Loro sono diventati dei professionisti nel campo. Noi basavamo le nostre ricerche più sui rapporti di amicizia che su basi professionali concrete.

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