Da una parte un filosofo che si muoveva fuori dai classici schemi accademici, esistenzialista, eversivo, fatalista, che aveva pubblicato la sua prima opera, La morte del sole, a 55 anni; dall’altra un cantautore che aveva costruito il suo successo su testi criptici e colmi di citazioni, ma a tratti intrisi di ironia e dissacrazione. In comune la terra di origine, la Sicilia, e qualche amico. Quella tra Manlio Sgalambro e Franco Battiato è stata una delle collaborazioni più prolifiche della musica leggera, ma anche tra le più discusse. Questo sodalizio non convinse parte della critica musicale e tanti fan storici dell’artista, al punto che lo scrittore Aldo Busi una volta definì Sgalambro, in maniera scherzosa, come “la Yoko Ono di Battiato”. Ma anche il filosofo Massimo Cacciari, in occasione della scomparsa di Battiato, ribadì all’Ansa le perplessità su questa collaborazione: “Sgalambro era uno schopenhaueriano, era Schopenhauer. Non credo abbia fatto molto bene questo filone critico e sostanzialmente pessimistico a Battiato […]”. Ad altri, tra cui il sottoscritto, questa simbiosi non dispiacque.
Tutto ebbe inizio dopo il successo dell’album Caffè de la Paix, quando Battiato decise di abbandonare la strada che lo aveva portato fin lì per affidarsi alla penna di Manlio Sgalambro, da quel momento autore della maggior parte dei versi delle sue canzoni. I due si erano conosciuti nel 1993 alla presentazione di un libro di poesie del comune amico Angelo Scandurra. Sgalambro aveva appena pubblicato il saggio Contro la musica, in cui poneva una questione metafisica sull’ascolto della musica. “Quel che vorrei fosse chiaro è che, con la musica, da un certo punto in poi l’Occidente ha trasformato una esperienza dello spirito in un fatto di cultura” scriveva Sgalambro. “Cioè in qualche cosa di amministrabile, di pianificabile, di storicizzabile. Ma lo spirito non si lascia né amministrare né pianificare né storicizzare”. Il filosofo colse l’occasione per regalarne una copia a Battiato, il quale rimase colpito dalla sua scrittura pungente, sovversiva, e decise di coinvolgerlo nella stesura dell’opera dedicata a Federico II di Svevia, Il cavaliere dell’intelletto, che gli era stata commissionata dalla Regione Siciliana. “[…] Mi portò un assegno di 60 milioni per fargli un libretto d’opera: accettai” raccontò Sgalambro nel gennaio 2014 al giornale siciliano FreeTime in quella che poi fu la sua ultima intervista. “Dopo poco gli dissi che, se avesse accettato lui, gli avrei scritto in venti giorni un album completo: così nacque L’ombrello e la macchina da cucire”. Da quel momento prese il via un sodalizio che durò quasi vent’anni e li vide realizzare insieme dischi come L’ombrello e la macchina da cucire, L’imboscata, Gommalacca, Ferro battuto, Dieci stratagemmi e Il vuoto, in cui il filosofo mescolò nichilismo e sarcasmo, fatalismo e lucido cinismo. Il primo fu L’ombrello e la macchina da cucire, che vedeva il volto di Sgalambro in primo piano sulla copertina, quasi a volerne sancire l’ingresso nel mondo di Battiato. Il disco era intriso di riferimenti e citazioni dirette e indirette, dalla scienza alla filosofia. Dai moti particellari di Robert Brown al pensiero di Guglielmo di Occam, passando per l’omaggio al madrigalista Gesualdo da Venosa. Con questo lavoro Battiato chiuse un’epoca, sia perché fu l’ultimo con la EMI sia perché, insieme al filosofo, cominciò a esplorare la realtà sociale e il rapporto tra gli uomini, raccontando l’essere umano calato in un’esistenza non sempre sferzante, motivante, adatta alla sua essenza. E il brano Breve invito a rinviare il suicidio fu il biglietto da visita di questa nuova prospettiva.
Va bene, hai ragione
Se ti vuoi ammazzare
Vivere è un’offesa
Che desta indignazione
Ma per ora rimanda
È solo un breve invito, rinvialo
“Cara amica, scrive Anatol, voi mi chiedete… di rispondervi su una questione sempre urgente come quella del suicidio… Procurerò di rispondervi, brevemente come decenza in queste cose. … Ascoltatemi, trattate i moti dell’animo come i moti dell’intestino. Un giorno bisognerà certo spararsi ma intanto viviamo […]” scriveva anni prima proprio Sgalambro in una sua opera. “Quanto al nostro discorso, sappiamo entrambi che per l’eroe morale esso – il suicidio – è sempre possibile, egli ha sempre aperte le porte del mondo da cui uscire come per una passeggiata. Sorride e tira alla tempia… Vi autorizzo a uccidervi, sì, ma solo in un momento di gioia”. Questo percorso continuò con il coinvolgimento sempre maggiore del filosofo anche nella registrazione dei dischi. L’imboscata, il successivo, si apriva infatti con la voce recitante di Sgalambro che introduceva il brano Di passaggio con alcuni versi di Eraclito, recitati in greco antico, sul tema della canzone, ovvero la fugacità della vita terrena, i veloci mutamenti che riguardano gli umani e il mondo che li circonda. Inutile ribadire che le vette più alte della loro collaborazione le raggiunsero con La cura, brano in cui furono capaci di vestire il sentimento di divino, il pop di straordinaria eleganza. E continuarono ancora per anni, viaggiando tra sperimentazione e divertimento. Come quando nel 2001 registrarono il primo album di Sgalambro, Fun Club, in cui il filosofo rivisitava grandi classici come Cheek to cheek, As time goes by, Moon river, Parlami d’amore Mariù, La mer e La vie en rose, lasciando spazio all’attualità di allora soltanto con la sua versione di Me gustas tu di Manu Chao. Era proprio quest’ultima, cantata spesso da Sgalambro nelle sue sortite sul palco di Battiato, a mandare in visibilio il pubblico. Proprio qualche mese fa Angelo Privitera, storico collaboratore del cantautore, ha ricordato in un’intervista a Rolling Stone la complicità che c’era tra i due: “[…] Sgalambro era geniale, e anche lui molto ironico. Un giorno ci trovavamo in Marocco, a Marrakech, per un concerto, e in giro per la città Sgalambro si stancò. Franco serenamente fermò un tizio col motorino, fece salire il filosofo dietro, come una volta facevano le donne sulle lambrette, per farlo accompagnare in hotel. Manlio non si scompose”.
Nonostante l’intesa umana e artistica, il rapporto tra Battiato e Sgalambro non fu tutto rose e fiori. Insieme dialogarono e si confrontarono tantissimo, ma litigarono anche, via fax, telefono o e-mail per una parola da cambiare, da togliere o da aggiungere, un sinonimo da ricercare. “Con Battiato abbiamo avuto lunghe liti, che duravano parecchio” dichiarò il filosofo sempre nell’intervista a FreeTime. “Poi uno dei due, in genere lui, telefonava e il rapporto riprendeva. Tutti i litigi erano per un rigo da cambiare in una canzone: io non accettavo le esigenze della musica e per lui questo era costoso”. Il loro sodalizio durò fino al 2012, poi decisero di prendere definitivamente strade differenti. Nell’ultimo periodo della sua vita Sgalambro parlò della sua esperienza nella musica come di una distrazione dalla sua attività principale, facendo trasparire anche un po’ di rammarico per averci speso troppo tempo. Battiato, invece, non si espresse mai pubblicamente sulla fine della loro collaborazione. Finché la mattina del 6 marzo 2014, alla soglia dei novant’anni, il cuore del filosofo si fermò improvvisamente mentre era impegnato in faccende domestiche. Se ne andò così, senza preavviso e senza clamore. Raggiunto dall’Ansa per un ricordo, un Battiato affranto non volle rispondere: “Non ho nulla da dire, è una cosa privata, è un dolore personale molto forte”. Il giorno del funerale fu uno dei primi ad arrivare nella chiesa del Crocifisso dei Miracoli, a Catania. Occhiali da sole a proteggere gli occhi lucidi dalla commozione, volto provato, altro non fece che rivendicare il diritto di restare in silenzio per onorare l’amico e sodale volato via, in mondi lontanissimi, in attesa della reincarnazione.

